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Diego Riccobene

Ballate nere

Italic, 2021

Prefazione di Carlo Ragliani

Postfazione di Mario Famularo

 

Ballate nere è il libro di esordio di Diego Riccobene, una preziosa silloge di poesie edita da Italic nel 2021. Il titolo, che accosta qualcosa di positivo e rasserenante come possono essere delle ballate, è associato al nero, ricorrente più e più volte nel corso dell’intera opera anche nelle diverse accezioni di sera, tenebra, ombra quando l’autore scrive Io credo nell’iniqua malasorte, / nel taccuino nero; Laonde appresi il morto magistero / dello sprezzo paziente contro il fermo / giudizio senza appello, il guado nero, / quando menziona il libro del nero Arimane oppure Un solo punto nero / nel lungo imperio sfibrante d’agosto; Prosciolti da ogni vincolo, li vedo / quegli incubi pennati nero notte e ancora L’esilio deve consumarsi adesso, / nel dolio vaporante d’acque nere. Procedendo nella lettura, in esergo compare una citazione tratta dal Faust di Goethe, Nulla c’è che nasca e non meriti di finire disfatto, che sancisce una condizione esistenziale di assoluto disincanto, mentre si vorrebbe a tutti costi raggiungere un infinito che ci è precluso dall’imperfezione della nostra natura umana. Quest’impressione è immediatamente confermata dalla prima lirica dell’opera, vero e proprio biglietto da visita perché vi si coglie la descrizione di una realtà tragica, un compiacimento per l’orribile con annesse tinte fosche e livide, frutto di reminiscenze mitologiche e di spettacoli tetri in perfetto stile decadente. Il realismo descritto è macabro, esasperato da motivi classicisti e sfoghi di misticismo ma attraversato anche da illuminazioni improvvise. L’atmosfera che ne viene fuori è gotica e vagamente sinistra. Il riferimento a modelli passati, come già osservato in prefazione da Ragliani e in postfazione da Famularo, è d’obbligo: gli Scapigliati, i poeti decadenti e simbolisti, Baudelaire ma non va dimenticato neanche l’apporto del romanzo realista e naturalista francese. La scrittura è ricca e rigorosa, la lessicografia appare raffinatissima, dotta, ridondante, complessa e quasi barocca, infarcita di neologismi e vocaboli arcaici e inconsueti, da vagliare con dizionario alla mano. Non a caso l’incipit della prefazione recita che “il contenuto delle liriche non è adatto alla maggioranza dei lettori”. Il recupero di soggetti mitologici o appartenenti alla cultura classica, Atropo, Mercurio, le Danaidi, Iperione, Orfeo, le Tebaidi e tanti altri, contribuiscono ad evocare atmosfere d’altri tempi e d’altri luoghi. Riccobene dipinge la putredine più o meno avanzata, la canutiglia gialla e bianco perla, le mosche opalescenti, le larve verdi, il puzzo d’interiora cotte, le perle ischeletrite, inserendo liriche dall’andamento prosodico che presentano grande ricchezza di immagini. È evidente, infatti, la vocazione a concepire la scrittura letteraria pittoricamente: le immagini talvolta presentano carattere onirico e visionario, sembrerebbero frammentate mentre in realtà risultano collegate da richiami fonici, analogici, sinestetici. Il paesaggio, ricco di relitti e visioni spettrali, diventa paradigma di dolore e di disperazione. La notte è l’altra figura ricorrente nei versi: notte di materia, s’addensò la crosta / la notte, non ricevo visite la notte, Cogliesti gli asfodeli quella notte, son diaframmi d’Increata Notte, li vedo / quegli incubi pennati nero notte, la notte l’Alto non s’adombri. La forma trattata è quella della ballata, quella tradizionale che risale a Petrarca, composta di stanze di uguale misura e che vede l’alternarsi di endecasillabi e settenari, ma talvolta anche di ottonari e novenari. È molto curata anche l’eufonia del verso, grazie ad assonanze, consonanze e rime interne. Certamente esiste un’architettura interna, una linea di svolgimento interiore con fasi di incertezze, dubbi, assestamenti. Tutto questo, insieme alla difficoltà di comprensione di certi costrutti, trasmette un senso di imperfezione e di ambiguità che ancora una volta richiama la koinè di Baudelaire. In nome della realtà dell’irrazionale e del mistero e dell’autenticità delle contraddizioni che segnano lo svolgersi della vita interiore e la natura stessa della vita umana, la poesia di Riccobene si forma e si riflette in una dimensione immanente del Tempo e dello Spazio: l’autore instaura una complicità con il lettore quando si chiede Se infine patteggiassi con la luce, / sarebbe lo sfiorire meno atroce? O quando indulge in aforismi come La morte è osceno rospo che s’ammoglia. Al poeta sono care anche la luce quando scrive Lame di luce tra cadenti felci / intarsiano il meriggio, che non si piange […] se non per svelti sogni a luce tersa, il tronco nell’avallo / che fende la bassura senza luce, il nunzio che congiunge genio e carne / in luce mattinale. Altro lemma ricorrente è il tempo, che Riccobene avverte come non suo, lamentando il fatto che siamo ciechi ormai da tempo, tutti. Il poeta ricorre anche all’espediente retorico della maiuscolazione, già evidenziata in prefazione forse per rendere assoluti simboli comuni. Poesia dunque criptica, intrisa di mistero ed elaborata, di grande impegno e di indubbio pregio, di denuncia di una realtà che, percepita come lontana e diversa dal proprio io, si ripudia, non si vuole accettare, di qui il recupero del passato attraverso la personificazione di archetipi come la Morte, il Misfatto, l’Oblio e di sentimenti laceranti di avversione e di disarmonia tra l’io poetante e la realtà. Come Baudelaire ristabilì il contatto con la vita perché scoprì e svelò la potenza trasfigurativa della poesia anche di fronte alle impurità, agli equivoci e alle perversioni, allo stesso modo Riccobene è consapevole che la realtà resti ciò che è ma vi scende fino al fondo assaporandone il veleno fino all’ultima goccia, ne esce però attraverso la purezza del canto. Questo è il privilegio del poeta: giungere al fondo, alla vera natura delle cose per comprenderle e poi risalire con le proprie forze creative attraverso un percorso ascensionale iniziatico di coscienza e di autocoscienza.

 

© Deborah Mega

 

*

 

Io credo nell’iniqua malasorte,
nel taccuino nero
che l’atropo costeggia
coi palpi torti in acherontee lagne

divincolando il corsaletto denso
marcato dalla Morte
– che sia un Suo pretesto? –
finché quella maliosa si consumi

tra conopei richiusi su un’altana;
che presto si depauperi
il fiato e nell’ambascia
il giorno svella flaccide sporgenze

fortore dissipando su losanghe;
nelle fatture sporche
in mosto e malto, oblate
con fitte al reclusorio d’alto ventre,

è questo il segno del soffocamento.
M’incappia e stringe, giuro:
ordura di chi ha in sprezzo
le glutinose lische di demenza

in lunghe processioni zingaresche,
il vilipendio al senso
che per poco s’addorme
tra branche d’una culla in pentafilli.

Il tasso mi schernisce nella lingua
dei bardi che a Mercurio
estorcono precetti
di un prorogato vincolo materno,

lo stesso che rifiuto in sfinimento,
perché il fiorrancio o il sorbo
non sudino che scarto
se solo li spremessi per l’alloppio.

Pertanto credo in confessioni stanche
che un saprofito ingravida
su lingue viola e adunche;
che bettolare salmi in rettilari,

vocando l’Azazello o un altro abietto
sia sintomo perspicuo
di quanto giaccia incolto
nel gozzo d’ogni cristo postulante.

 

*

 

Pigrizia ereditata, membra biosce,
consunto il petto da un’estate torva,
il tempo non è mio, il maledetto
sotterra il passo storto nel silenzio,
mi sfugge catarrale dalle gerle
arabescate per esequie spurie,
dagli urinali acconci a cornucopie.
Parletico, il mio gesto non si inselva
nelle sentine cave con baldracche
a lutto, rimasugli e ricordanze:
il suolo mi ha sottratto in ignominia
il reliquiario con sequele atroci
miniate da un omuncolo di ferro
che m’illudevo fosse consanguineo.
E adesso? Non si sente che il seccore
strozzato nelle organdi d’una stanza
di cui sono fittavolo ab aeterno.
Viluppo il mento nel melenso vacuo
(un nevermore gracchiato non lo innalza,
benché siffatti orpelli siano schietti
oltraggi a baronìe spezzanembi):
espleti flagiziosi di placenta
dischiavano un aguzzo mezzogiorno
che per l’inetto è notte di materia.
L’ekkòlapsis tra i venti è frutto mezzo
in questo nostro rito ripugnante.

 

*

 

Sulle ginocchia d’uomo assiso posa
tra adorne meretrici Compassione,
crisolito adulato dall’implume
che prostra invogli d’eglantina schiusa
e culla la siringa ben tornita
talché l’issopo esali aromi leni.

Se il fine sedimento in madrepora
spolpato dalla scorza non s’immezza,
lo si preservi giunto con Mercurio
quando il turchese inquina lo scarlatto
sul serico decoro dell’argento
a specchio della bruma altilucente.

Non la s’interri presso quel quadrivio,
non sia adusa ad impetrare amore
per vincere in ricatto Malasorte.
Sguerciato l’uomo, sazia Compassione
risolutezza occlude in bocche fiacche:
che si congiuri allora col Misfatto.

 

*

 

Da Et in Arcadia ego

II

Lame di luce tra cadenti felci
intarsiano il meriggio.
I sistri oggi zittiscono
le fiacche increspature della brezza,
assidua confidente
di un bimbo che canticchia
l’emottisi del giorno appena stinto.

Poi un corpuscolo esanime affiora,
prono orciolo invilito
nel dimidiare all’acqua
la sua pena di stanco spasimante
tra la dura sandracca.
Un solo punto nero
nel lungo imperio sfibrante d’agosto.

 

*

 

Da Bestiario

I

Un’orazione

Che infermità ci inveri e sfami, forse?
Che la falsa blandizie del sussiego
sia bàlia di un involucro convulso?
Atassico e restio, celebrate
la rotta redolente del rifiuto
se ad allignare in petto non sottentra
il tarlo di una stella più corrusca:
qui non s’agguaglia il sonno sopraffatto
che colma guaste fiabe algenti al vostro
disgusto, al mio rimorso esangue e saldo.
Insorgerà quel giorno in cui la forgia
d’Efesto – il grande aborto – partorisca
un serto a coronare anche la scolta
del vile che ci indusse alla bestemmia,
proclivi quali siamo all’inclemenza
da lungi appresa in questo golfo informe
fasciato dal precipite dirupo
tra nove cinte di diverso smalto.
Ofioco regga sommo a settentrione
il Serpentario sulle austere selve
tra cenge e vene snelle di lignite
che son diaframmi d’Increata Notte,
quando, frementi, l’eloquenza e il canto
fascineranno i sensi e l’intelletto,
noi tutti ragionando intorno al senno,
a volontà, chiaroveggenza e fato
che inchiodano i prescelti ad altro approdo.

 

Testi tratti da Diego Riccobene, Ballate nere, Italic, 2021