
Lettera a Dio
forse è ora
di chiudere il conto,
Dio,
forse è l’epilogo
che io non ho voluto
e tu lo sai,
se poi è vero che conosci
quanti capelli resistono nel cuoio
vorrei farti domande, tante,
le stesse che da sempre
avevo ancora stamattina
ma adesso non è più tempo,
ti libero dall’affanno,
finirò i miei giorni
nel gelo di uno specchio,
a chiedere alla faccia
se era inevitabile
questo stare in anni
nell’occhio di un cecchino
o forse era fattibile
un giro da turista
al fresco del giardino,
non voglio giudicare
e non lo posso,
se poi sia stato osceno
lo sfregio che ti fecero
mia madre e poi mio padre,
ma io te lo giuro
ho fatto dei santini
i miei segnalibri
e inciso sulla porta
il verbo dei profeti,
non ho cercato lodi
ed ho tenuto a bada
l’ebbrezza d’ogni miele,
ho riparato il fianco
al graffio del demonio
e lasciato in vita
le mosche sopra al pane,
a volte sono caduto
e pure sono stato
io spira di serpente
ma debole era la presa,
debole era la presa
perciò, tutto sommato,
qualche sassolino
potrei pure scagliarlo
al transito di spettri
che avevo chiamato piume,
gettato alla corrente
di epoche furiose
ho smesso di cercare
l’appiglio al salvagente,
annuso le mie rose
e non domando nulla,
aspetto venga la sera
e il giorno anche domani
io spero ci sia il sole
e un poco di calore,
disordine nel letto
e la polvere in salotto,
tanto alla mia porta
non busserà nessuno
ed ora somma pure
al tuo silenzio
il mio silenzio
e l’ultima parola,
un così sia.
Post-scriptum
ciò che non posso perdonarti
è lo startene a guardare
nel soffice che giurano
è divano in mezzo al cielo
l’ho detto anche al curato
ancora in confessione
e lui ha risposto figlio
non sai che le sue vie
non sono libero accesso
ma tu puoi stare certo
che lui ci vuole bene,
non posso perdonarti
la pena insopportabile
a cui non si era preparati
e il calice trabocca
acqua di occhi persi
il sangue dai costati.
Francesco Palmieri
(dalla raccolta edita “Fra improbabile cielo e terra certa” Terra d’ulivi edizioni)