Ombre
Cambia la sostanza
conserva la forma
non resta forse uguale
la sua ombra?
Benedetta l’ombra
fiorita di presenze
ora madre che mi supera nei passi
ora figlia giunta in dote dal silenzio.
Ci spiano guardinghe
sorridono delle nostre espressioni dormienti
innocenti si tirano indietro
e perdono spessore pronte a contornar le cose.
E noi che siamo ombre colpevoli di istinti
il doppio dei filosofi per interposizione
non amiamo forse ombre schermate dalla luce
staccate dagli oggetti ma pronte a consolarli?
Deborah Mega

foto di Daniele Gozzi
Per il tema del silenzio nuovamente Deborah Mega, della quale ho già proposto un testo in precedenza, sperimentando per la prima volta l’associazione del tema del silenzio e foto d’autore; anche stavolta non mancano le immagini, si tratta di tre foto della produzione di Daniele Gozzi, un fotografo che con l’”occhio” fotografico svolge una particolare e interessante ricerca espressiva incentrata sul movimento, la sfumatura, la sfocatura. I suoi scatti mi è sembrato potessero accompagnare bene la poesia che ha per titolo “Ombre”.
Il testo di Deborah Mega, dominato da “presenze”, evoca figure fantasmatiche, la cui sostanza ha la consistenza eterea dell’ombra, ma per le quali la forma resta, e per forma potremmo pensare ai contorni, alla sagoma di un corpo, ma anche al ripetersi del gene nelle fisionomie dei discendenti che mutuano l’aspetto corporeo dai progenitori combinandole variamente, per cui si dice che la figlia ha gli occhi del padre, e la nipote ha “preso” la forma del viso e delle labbra dal nonno. Siamo stampi in sostanza, dove si cala la corporeità presente, ma derivante da quella precedente.
E loro, le ombre care che ci precedono, vigilano ancora con sguardo dolce sorridente e ci sono, ma si ritraggono, lasciando che la loro ombra si confonda con quella degli oggetti che popolano il mondo, esplicando un piccolo inganno che li nasconde allo sguardo, li porta in secondo piano.
La poesia si chiude con un rimando ai filosofi e un omaggio al fascino delle ombre delle cose, così vicine agli oggetti da dirle pronte a consolarli eppure lontane da essi. Tutta la poesia anzi sembra pervasa da un riferimento che, nel finale, proprio citando i filosofi, si fa ancora più accentuato, si tratta del mito della caverna di Platone, la metafora usata dal filosofo per far comprendere come gli uomini vedano del mondo solo le ombre, convinti che siano la realtà, mentre ciò che vedono è solo proiezione del reale.
Secondo questa metafora, gli uomini prigionieri e incatenati dentro una caverna, vedono solo il muro di fronte a loro, mentre alle loro spalle una forte luce proietta sul muro le ombre di esseri e oggetti che transitano su una strada elevata posta tra loro e la fonte di luce. Non c’è modo di liberare gli uomini dalla loro convinzione che ciò che vedono sia la realtà, perché se anche uno di loro si liberasse e riuscisse a giungere al mondo reale, alla luce, prima ne soffrirebbe perché resterebbe accecato, poi esaltato dalla scoperta del vero, volendo coinvolgere gli altri e convincerli ad affrancarsi, scoprirebbe che essi non vogliono abbandonare le catene, non sono disposti ad affrontare la sofferenza iniziale che comporta vedere l’autentico nella luce e, infine, quel singolo non sarebbe creduto e verrebbe condannato a morte dai suoi simili. La metafora si riferisce alla vicenda di Socrate, processato e condannato per aver aperto la strada verso la verità.
Parlando di ombre la citazione del mito della caverna è quasi d’obbligo, essendo una metafora che ha ispirato molte opere e produzioni, tutte rappresentative della sostanziale cecità dell’uomo, ottenebrato dalla sue convinzioni, incapace di vedere oltre la propria opinione, incapace di raggiungere la verità. Analogamente la poesia rimarca l’attaccamento dei vivi agli istinti, alla materialità delle cose.
In questa poesia nella quale protagoniste sono le ombre, il silenzio ha solo una particina, quello d’essere l’origine della figlia, e figlia non è davvero parola da poco, ma il silenzio è solo un nido per la cova; nonostante ciò, tuttavia, non bisogna pensare che una poesia sulle ombre non c’entri col silenzio, esso è pure presente, per quanto non in modo evidente, e basti questo: avete mai visto un’ ombra che gridi, parli, rida o comunque rompa il silenzio? Esse del silenzio sono complici e custodi, sembra anzi che si manifestino sono quando c’è silenzio, perché alle ombre siamo così abituati che normalmente non ce ne accorgiamo, sono praticamente inesistenti, ma nel sole o alla luce di una lampada oppure nel brillare di un falò nella notte, improvvisamente le vediamo solo quando, per un momento, guardiamo il mondo con gli occhi del silenzio.
Loredana Semantica
Deborah Mega porta nella sua scrittura l’impianto sensibile della cultura classica. Con questo intendo anche i saperi del novecento assurti a necessari, irrevocabili fondamenti dell’avventura umana: mi riferisco alla psicoanalisi, in particolare a quegli aspetti elaborati da Hillman che ha ripreso la psicologia del medioevo. Deborah ce li consegna in una scrittura moderna, in sostanza di nome e rara aggettivazione, così che la forma del verso, apparentemente discorsiva, evidenzia musica e ritmo in sposalizio di armonia.
Le fotografie specchiano perfettamente e ampliano il tema della poesia: il risultato è alchemico, una soglia per accedere ad altra materia immaginale.
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Che bel commento, Gloria! Te ne sono grata e sono contenta che tu abbia apprezzato il mio testo.
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L’ha ribloggato su Deborah Mega.
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Ringrazio te, Loredana, per la lettura così approfondita e suggestiva del mio testo e Daniele Gozzi per le fotografie che lo accompagnano, talmente belle, data la dinamicità e gli innumerevoli effetti sfumati, da sembrare dipinti.
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