Tu non conosci il Sud, le case di calce

da cui uscivamo al sole come numeri

dalla faccia d’un dado.

(La luna dei Borboni, Milano, Edizioni della Meridiana, 1952)

 

Vittorio Bodini è stato uno dei maggiori scrittori e poeti salentini del Novecento. Stimato ma guardato con diffidenza dagli stessi leccesi, ha sempre intrattenuto un rapporto controverso con la propria terra, fatto di invettive, partenze, ritorni, addii, una passione che avvicina e allontana, costruisce e distrugge. Nel secondo dopoguerra, che si parlasse di Sud non era una novità assoluta, data l’attenzione rivolta dal nostro paese al problema meridionale: già Quasimodo, Sinisgalli, Gatto, Levi, Jovine avevano trattato il Meridione. Il fatto però che si parlasse di Salento, un paese “così sgradito da doverlo amare” e di sentire di averlo quasi inventato, come lui stesso rivendicò in una lettera del 1950 indirizzata a Oreste Macrì, costituisce certamente una novità. Pur essendo nato a Bari nel 1914, Bodini era leccese, per famiglia e formazione. A tre anni, dopo la morte del padre, fu condotto nel capoluogo salentino, qui frequentò le scuole fino al conseguimento della maturità classica presso il Ginnasio-Liceo “G. Palmieri”. Introversione e pessimismo caratterizzarono sempre il suo animo: il fatto di aver perso il padre in tenera età influì notevolmente sulla sua crescita.

Quando appena diciottenne fece il suo esordio letterario nel settimanale La Voce del Salento, fondato e diretto dal nonno materno Pietro Marti, professore, giornalista e storiografo, ben presto Vittorio dimostrò un’evidente insofferenza per Lecce, aderì al futurismo e creò un gruppo d’avanguardia, il Futurblocco, che vivacizzò per qualche tempo il provinciale ambiente cittadino. Risalgono a questi anni ventidue scritti pubblicati sulle riviste del nonno, dei quali undici in versi, quattro in prosa e sette critico-programmatici come quello sulla onomatopea. In seguito, Bodini si iscrisse alla facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Roma ma dovette impiegarsi negli uffici del RACI (Reale Automobile Circolo d’Italia) a Domodossola e ad Asti tra il 1937 e il 1940, successivamente soggiornò a Firenze, si laureò in filosofia, si accostò all’ermetismo e si aprì alla cultura europea. Divenne amico di Mario Luzi, Alessandro Parronchi, Piero Bigongiari; per interessamento di Montale, pubblicò alcune poesie sulla prestigiosa Letteratura, che aveva raccolto l’eredità spirituale di Solaria. In questi anni aderì agli ideali di Giustizia e Libertà e in seguito al Partito d’Azione; per l’avversione al  regime fascista, fu anche vigilato e perseguitato. Tornato a Lecce curò il  periodico letterario Vedetta mediterranea con Oreste Macrì, conferendo al settimanale una netta impronta ermetica.

Dopo la seconda guerra mondiale Bodini si scostò dal neorealismo di quegli anni e dall’ermetismo imperante per riscoprire il Sud, un paese dai tanti problemi sociali ed economici ma che ben si prestava alla riscoperta e a una rivisitazione in chiave fantastica e mitologica. In Troppo rapidamente, contenuta nella raccolta Dopo la luna, avrebbe scritto “Il Sud ci fu padre / e nostra madre l’Europa“. Nel 1946 ottenne una borsa di studio di sei mesi per compiere attività di ricerca presso l’Istituto Italiano di Cultura di Madrid. Vi restò fino al ’49 lavorando come lettore d’italiano e antiquario; ebbe così modo di scoprire e conoscere le numerose affinità tra l’Andalucia e il Salento. Di quest’importante esperienza restano dei reportage molto interessanti, raccolti nel volume Corriere spagnolo 1947-54 (Lecce, Manni, 1987). Bodini è stato anche uno dei maggiori traduttori di letteratura spagnola, studioso del barocco di Luis de Gòngora, di Calderòn de la Barca e dei surrealisti spagnoli. Della sua traduzione di Don Chisciotte Maria Luisa Spaziani in una trasmissione televisiva del 2007 ebbe a dire che fosse una meraviglia; unanimemente infatti la sua è ritenuta la miglior traduzione dell’opera. “Bisognerebbe affidare ai poeti anche la traduzione della prosa, perché hanno un ritmo interno che, quando si sposa, lo fa meravigliosamente bene e moltiplica le potenzialità di un autore“, così si espresse la Spaziani nel programma televisivo Scrittori per un anno (Raiuno, 18/12/2007).  Oltre a Cervantes e al Teatro di Garcia Lorca, prima traduzione in volume per i tipi di Einaudi (Torino, 1952), Bodini si è occupato delle traduzioni di Francisco de Quevedo, Neruda, Salinas, uscite a Milano nel 1958 con le Edizioni Lerici. Tornato in Puglia egli si aprì allo studio e alla comprensione della realtà locale: nelle prose di questi anni approfondì l’analisi delle radici culturali, antropologiche, sociologiche dell’identità meridionale. Nel 1952 ottenne la cattedra di Lingua e letteratura spagnola presso l’Università di Bari; tra il ’54 e il ’56 fondò e diresse una rivista trimestrale di poesia e critica antiermetica, L’esperienza poetica, in cui indicò una terza via per la poesia di quegli anni e in cui si avvalse delle collaborazioni di Erba, Sinisgalli, Caproni, Giudici, per citarne alcuni. A questo proposito lo stesso Bodini avrebbe scritto: “La brevità della mia esperienza ermetica mi lasciava libero di cercare alla fine dello sfacelo nazionale un’altra via, un altro linguaggio poetico. Non son pentito però di quella esperienza (che oggi in mutate condizioni storiche riappare in un’altra forma nella mia poesia), ma durante e dopo la guerra incolpai l’ermetismo per averla straniata e disavvezzata dai grandi temi ed eventi collettivi avverso a quel calarsi nel fondo di sé“. Negli ultimi anni si trasferì a Roma pur mantenendo rapporti frequenti con il sud e lì sarebbe morto nel 1970 a soli cinquantasei anni. Bodini è autore di diversi scritti in prosa, oggi riscoperti per merito della casa editrice Besa e di Lucio Antonio Giannone, ordinario di Letteratura italiana contemporanea presso l’Università del Salento; inoltre è autore di pochi ma apprezzati libri di poesia: La luna dei Borboni, pubblicato a Milano nel 1952 dalle Edizioni della Meridiana, finalista al Premio Viareggio, Dopo la luna, uscito nel 1956, vincitore del Premio Carducci; non è un caso che la luna sia un archetipo ricorrente anche nella poesia di Garcia Lorca, autore da lui molto amato. Seguirono le raccolte Metamor nel 1967, edita da Vanni Scheiwiller in seicento esemplari con data 21 giugno 1967, festa di San Luigi, secondo una scaramantica usanza spagnola, Poesie nel 1972, uscita postuma per i tipi Mondadori. Presso le Edizioni Besa esiste una collana ormai celebre intitolata Bodiniana e curata dallo stesso Giannone: tale collana ha raccolto gli scritti dispersi e inediti nonché alcuni carteggi importanti come quello tra Bodini e Sciascia o tra Bodini e Erba. Non scrisse molto: una novantina di poesie in vita mentre l’intero corpus è formato da trecento poesie circa. Di lui ci resta un fondo accuratamente studiato e ricostruito filologicamente da Oreste Macrì, curatore delle edizioni Mondadori del 1972 e del 1983. Vittorio Bodini è poeta dalla grande sensibilità, interprete e cantore di un sud mitico ma anche limitante, attraverso la sublimazione operata dal ricordo che conferisce alle poesie il sapore della testimonianza, la dimensione memorialistica. L’accuratezza, l’originalità dello stile, la profondità dei temi affrontati ne fanno un autore che andrebbe studiato e approfondito. La prima raccolta edita, La luna dei Borboni, di cui l’esperienza spagnola rappresenta la genesi, riprende il simbolismo della poesia lorchiana, il linguaggio essenziale e ruvido dei futuristi, la profondità evocativa del tardo ermetismo fiorentino. L’intera opera bodiniana presenta inoltre l’utilizzo quasi costante di parole polisemiche che ben si prestano a diverse interpretazioni. Zizzi nello studio Il Sud e la Luna (Levante Editori, Bari 1999) ha parlato di poesia metamorfica e ad un certo punto infatti Bodini vorrebbe trasformarsi in ciò che lo circonda, “vivo ormai nelle cose che i miei occhi guardano: / divento ulivo e ruota di un lento carro, / siepe di fichi d’India, terra amara/ dove cresce il tabacco”, vivere in simbiosi con la sua terra, un paese potenzialmente ricco di risorse ma incapace di metterle a frutto.

L’ultima produzione bodiniana, rappresentata da Metamor, denuncia la frattura insanabile tra presente e passato, lo stesso boom economico degli anni ’60 è guardato con sospetto perché foriero di pericoli sociali e umani. Poesia dai forti contrasti dunque, visionaria, ambivalente come il rapporto del poeta per la sua terra, in cui continuano a persistere certi valori arcaici, in cui una fatalità epica invade spazi e persone, sembra travolgerli per poi lasciarli immobili, perfettamente uguali a se stessi riecheggiando il tema “tutto cambia perché nulla cambi” di gattopardiana memoria. E dal tempo dei Borboni il Sud non è cambiato poi tanto. Lo stesso paesaggio ben delineato e insieme fantastico resta fissato nella sua realtà geografica e diviene proiezione degli esseri umani che vi si aggirano. Ecco dunque l’insegnamento di Bodini: affidarsi alla saggezza arcaica delle cose per darsi un senso e trovare una chiave di lettura di cui tener conto ancora oggi.

Deborah Mega

*Pubblicato in QuiLibri n.27, gennaio/febbraio 2015, pgg. 32-33