by Alisa Filippova
ATTO PRIMO.
Stanza accogliente e di buon gusto, ma senza lusso. Nel fondo, la porta di destra dà sull’ingresso, quella di sinistra sullo studio di Helmer. Tra le due porte un piano. Altra porta al centro della parete di sinistra, e, più in avanti, una finestra. Accanto alla finestra un tavolo rotondo, poltrone e un piccolo sofà. Sulla parete di destra, un po’ indietro, una porta, e sulla stessa parete, più verso il proscenio, una stufa di maiolica con davanti poltrone e una sedia a dondolo. Tra la stufa e la porta un tavolinetto. Alle pareti acqueforti. Scaffale con porcellane e altri soprammobili artistici, piccola libreria con volumi finemente rilegati. Tappeto. La stufa è accesa: è una giornata d’inverno. Si sente suonare e, poco dopo, aprire la porta di ingresso. Nora entra allegra, canterellando: è in tenuta da passeggio e ha in mano una quantità di pacchetti che appoggia sul tavolo di destra. Dalla porta rimasta aperta si vede un fattorino con un albero di Natale e un cesto, che consegna alla cameriera che ha aperto la porta.
NORA. Nascondi bene l’albero di Natale, Helene. Mi raccomando che i bambini non lo vedano prima di stasera, quando sarà pronto. (Rivolta al fattorino, con il portamonete in mano) Quanto?
FATTORINO. Mezza corona.
NORA. Ecco una corona. No, tenete pure il resto. (Il fattorino se ne va ringraziando. Nora chiude la porta. Continua a sorridere soddisfatta mentre si toglie il mantello).
NORA (tira fuori di tasca un sacchetto di pasticcini di mandorle e comincia a mangiarli, poi si avvicina pian piano alla porta dello studio del marito e si mette in ascolto). Sì che è a casa! (Ricomincia a cantarellare avvicinandosi al tavolino di destra).
HELMER (dal suo studio). E’ la mia allodola che gorgheggia lì fuori?
NORA (occupata ad aprire i suoi pacchetti. Sì che è lei!
HELMER. E’ il mio scoiattolo che sta frugando di là?
NORA. Sì!
HELMER. E quando è tornato a casa lo scoiattolo?
NORA. In questo momento. (si ficca in tasca il cartoccio e si pulisce la bocca). Vieni qua Torvald, vieni a vedere che cosa ho comprato.
HELMER. Non disturbarmi! (dopo un po’ apre la porta e dà un’occhiata, con in mano la penna). Hai detto comprato? Tutta quella roba? La mia testolina matta è uscita e ha di nuovo buttato via un sacco di soldi?
NORA. Ma certo Torvald, quest’anno non dobbiamo badare a spese. É il primo Natale che non c’è bisogno di fare economia.
HELMER. Devi però sapere che di denaro da sprecare non ne abbiamo.
NORA. Ma sì Torvald, qualche spreco possiamo pure permettercelo. Non è vero? Solo un pochino. Adesso ti daranno un bello stipendio e guadagnerai un sacco di soldi.
HELMER. Sì, dal primo gennaio, ma prima di averlo passeranno tre mesi.
NORA. Bah, fino allora potremo ben prendere a prestito.
HELMER. (le si avvicina e la prende scherzosamente per un orecchio). Torna dunque a farsi viva la tua leggerezza? Mettiamo che oggi io prenda mille corone a prestito, che tu le butti via tutte nella settimana di Natale e che l’ultimo dell’anno mi caschi una tegola in testa e io rimanga morto stecchito…
NORA. Gli mette una mano sulla bocca. Vergognati, non fare dei così brutti discorsi!
HELMER. Già, ma posto che le cose andassero così, tu cosa faresti?
NORA. Se le cose andassero proprio così male, sarebbe lo stesso che io avessi del denaro o no.
HELMER. Già, ma i miei creditori?
NORA. Quelli? E chi se ne occupa? Quelli sono degli estranei!
HELMER. Nora, Nora, sei proprio una donna! No, sul serio, tu sai bene come la penso a questo proposito. Nessun debito. Mai prendere a prestito. Fondarsi sui debiti, sui prestiti, pregiudica la libertà, e quindi anche la bellezza di una famiglia. Noi due siamo riusciti a resistere coraggiosamente fino a oggi e resisteremo ancora per il breve tempo che rimane.
NORA (avvicinandosi alla stufa). Sì, sì, come vuoi, Torvald.
HELMER (andandole dietro). Su, su, la mia piccola allodola non deve perdersi d’animo. Che cosa? Adesso lo scoiattolo tiene il muso? (Tira fuori il portafoglio). Sai che cosa ho qui, Nora?
NORA (voltandosi rapidamente). Denaro!
HELMER. Ecco! (Tira fuori qualche biglietto di banca). Dio mio, so bene che ci vogliono tante cose in una casa sotto Natale.
NORA (conta). Dieci… venti… trenta… quaranta. Grazie, grazie Torvald, ora ne avrò per un pezzo.
HELMER. Lo credo bene.
NORA. Sì, sì, stai tranquillo. Ma adesso vieni, che ti farò vedere tutto quel che ho comprato. E ho speso tanto poco! Guarda, ecco dei vestitini nuovi per Ivar… e anche una sciabola. Ecco un cavallo e una trombetta per Bob. Ed ecco una bambola con il suo lettino per Emmy; è roba da poco, ma tanto lei la fa subito in pezzi lo stesso. Ecco dei tagli d’abito e dei fazzoletti per le donne: la vecchia Anne-Marie veramente dovrebbe avere molto di più.
HELMER. E in quel pacchetto lì cosa c’è ?
NORA (con un grido). No, Torvald, quello non devi vederlo prima di stasera!
HELMER. E va bene. Ma dimmi un po’, piccola scialacquatrice, per te che cosa hai pensato di prendere?
NORA. Bah, per me? Per me non importa.
HELMER. Ma sì che importa. Dimmi qualcosa di ragionevole che ti farebbe piacere avere.
NORA. No, non saprei proprio. Ma sì invece, senti, Torvald…
HELMER. Ebbene?
NORA (si mette a giocherellare con i bottoni del marito, senza guardarlo in faccia). Se vuoi darmi qualcosa, potresti allora… potresti…
HELMER. Su, su, avanti!
NORA (rapida). Potresti darmi del denaro, Torvald. Giusto quel tanto di cui pensi di poter fare a meno, così uno di questi giorni potrò comperarci qualche cosa.
HELMER. Ma, Nora…
NORA. Sì invece, fallo, caro Torvald, te ne prego. Così potrò attaccare i denari all’albero, avvolti in una bella carta dorata. Non sarebbe carino?
HELMER. Come si chiamano quelli che buttano sempre via il denaro?
NORA. Sì, sono teste matte, lo so benissimo. Ma facciamo come dico io Torvald, così avrò tempo di pensare a quel che mi serve di più. Non è una cosa molto ragionevole? Che dici?
HELMER. (sorridendo). Ma certo, o meglio, lo sarebbe se tu fossi veramente capace di conservare i soldi, e di comprarci davvero qualcosa per te. Ma così finiresti per comperare tante e poi tante cose inutili per la casa, e io dovrei poi aprire un’altra volta il borsellino.
NORA. Ma Torvald…
HELMER. Non mi si può dar torto, piccola, cara Nora. (Le mette un braccio attorno alla vita). La mia testolina matta è graziosa, ma ha bisogno di un sacco di denaro. È incredibile quanti soldi ci vogliono per un uccellino così.
NORA. Vergogna! Come puoi dire una cosa del genere? Io faccio proprio tutto quello che posso per risparmiare.
HELMER (ridendo). Hai detto la verità. Tutto quello che puoi. Ma tu non puoi un bel niente.
NORA. (canticchia, sorridendo soddisfatta). Ehm, se tu sapessi quante spese abbiamo noi allodole e noi scoiattoli, Torvald.
[continua…]
Casa di bambola, Henrik Ibsen
Casa di bambola (Et dukkehjem) è un testo teatrale scritto da Henrik Ibsen nel 1879 durante un soggiorno ad Amalfi e rappresentato la prima volta il 21 dicembre dello stesso anno a Copenaghen. E’ la sua opera più rappresentata e conosciuta, uno dei più significativi esempi di dramma borghese, tipologia testuale che sarà trattata anche da Cechov e da Pirandello. Si tratta di una pungente critica ai tradizionali ruoli dell’uomo e della donna nell’ambito del matrimonio durante l’epoca vittoriana.
Il personaggio di Nora, protagonista dell’opera, fu ispirato da Laura Kieler, scrittrice e amica di Ibsen, protagonista di un celebre scandalo dell’epoca. Fin dalle prime battute del dramma, la protagonista femminile si comporta come una bambina capricciosa che gioca e si diverte tutto il giorno, in realtà è una madre di famiglia, incapace però di risparmiare e di fare sacrifici. Nora è ricattata da Krogstad a causa di un prestito illecito che lei ha contratto, falsificando la firma del padre, per salvare la vita di suo marito permettendogli di trascorrere un lungo soggiorno in una regione climaticamente favorevole, adatta a curare la sua malattia. Quando suo marito Torvald scopre il fatto, viene assalito dall’ansia e dal tormento di perdere la propria reputazione dimostrando tutta la sua mediocrità e il suo egoismo. Il contesto sociale in cui i personaggi sono inseriti è dominato infatti dal denaro, dall’apparenza, dall’ipocrisia, così, in preda alla disperazione, l’uomo dice a Nora che allontanerà dalla cura dei suoi figli, quella che ora egli considera un’indegna moglie, senza riconoscere che il gesto, anche se sconveniente, era stato dettato dall’amore per lui. L’unica confortante presenza umana è quella di un’anziana governante, tutrice di Nora, che semina antiche sentenze popolari mentre il matrimonio apparentemente perfetto di Nora va in frantumi. Grazie all’intervento di un’amica di Nora, che dichiara a Krogstad di volersi sposare con lui, il ricatto che minacciava la famiglia della protagonista viene annullato. Torvald, appena appresa la felice notizia, immediatamente perdona sua moglie. Per Nora, però, la vita non può ritornare ad essere quella di prima. Le sue illusioni sono state tradite e le sue certezze infrante. Capisce che suo marito non era in realtà la nobile creatura che lei credeva che fosse e che il suo ruolo in quel matrimonio, durato otto anni, è stato quello di una semplice e bella marionetta costretta a vivere in una casa di bambola. Acquistata consapevolezza, decide di abbandonare suo marito in cerca della sua vera identità, comprende infatti che le sue convinzioni non sono proprio le sue ma piuttosto quelle della società in cui vive, del padre, del marito. Nel corso del dialogo con Torvald, Nora sostiene che la sua disaffezione è provocata dalla consapevolezza che l’attesa del mancato prodigio è stata inutile, il dialogo inoltre sottolinea la difficoltà di comprendere le rispettive esigenze. Per i vittoriani il legame del matrimonio era considerato sacrosanto e l’abbandono del marito da parte della moglie era inconcepibile.Alla sua uscita, il dramma di Ibsen suscitò scandalo e polemica essendo stato interpretato come esempio di femminismo estremo. Ibsen addirittura fu costretto a cambiare finale all’opera nella sua rappresentazione tedesca, poiché l’attrice protagonista si rifiutò di interpretare la parte di Nora se non ci fossero stati degli aggiustamenti.
La vicenda non è soltanto una polemica sulla condizione femminile del XIX secolo, ma rappresenta anche una testimonianza dell’insopprimibile anelito alla libertà anche se l’autore dichiarò di non aver voluto scrivere un dramma femminista.
Benedetto Croce scrisse che il problema morale in Casa di bambola era destinato a rimanere privo di soluzione: «Chi ha ragione in Casa di bambola? – scrive il critico – Il marito? Ma è un egoista. La moglie? Ma non ha senso morale. Chi ha torto? Il marito? Ma è rispettoso della legge e dell’onore. La moglie? Ma ha voluto salvare il marito dalla malattia e dalla morte… E non è maraviglia che questi problemi insolubili dessero popolarità a quei drammi, e che vi s’interessassero particolarmente i poco critici cervelli femminili, e i meno critici tra essi, quelli delle femministe, e presto li rendessero, col loro psicologico e moralizzante o amoralizzante discettare, uggiosi e odiosi a segno che alcune famiglie scandinave s’indussero (l’aneddoto è noto), nell’inviare inviti per le loro serate, ad aggiungere a pié del cartoncino la raccomandazione: “Si prega di non discutere di Casa di bambola”. Eviterò il mio commento al giudizio di Croce, qui riportato solo per documentare la posizione di un critico del Novecento.
La struttura drammatica di Casa di bambola si sviluppa in tre giorni, dalla vigilia di Natale a Santo Stefano, corrispondenti ai tre atti e rispetta l’unità di luogo, perché la scena è fissa e l’azione si svolge tutta in casa Helmer. Il discorso si articola in dialoghi scarni e realistici. Le didascalie in corsivo forniscono indicazioni sui gesti e le azioni dei personaggi. Ibsen dice, in definitiva, che amore e pietas non sono infiniti: anche Nora scopre in un attimo che il sogno meraviglioso, non era reale. Così, di fronte alla paralisi di desideri, ambizioni, sentimenti è necessario sfidare le convenzioni sociali per perseguire la realizzazione di sé che è il fine ultimo di ognuno.
Deborah Mega
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Il perbenismo non è tipico solo della società inglese di fine Ottocento, è tangibile anche nella società piemontese degli stessi anni, come è possibile notare leggendo il brano che segue, tratto da L’Avanti del 22 marzo 1917 dopo la rappresentazione di Casa di bambola al Teatro Carignano di Torino e firmato da Antonio Gramsci.
La morale e il costume
Emma Gramatica, per la sua serata d’onore, ha fatto rivivere, dinanzi a un pubblico affollatissimo di cavalieri e di dame, Nora della Casa di bambola, di Enrico Ibsen. Il dramma evidentemente era nuovo per la maggioranza degli spettatori. E la maggioranza degli spettatori se ha applaudito con convinzione simpatica i primi due atti, è rimasta invece sbalordita e sorda al terze, e non ha che debolmente applaudito: una sola chiamata, più per l’interprete insigne che per la creatura superiore che la fantasia di Ibsen ha messo al mondo. Perché il pubblico è rimasto sordo, perché non ha sentito alcuna vibrazione simpatica dinanzi all’atto profondamente morale di Nora Helmar* che abbandona la casa, il marito, i figli per cercare solitariamente se stessa, per scavare e rintracciare nella profondità del proprio io le radici robuste del proprio essere morale, per adempiere ai doveri che ognuno ha verso se stesso prima che verso gli altri? Il dramma, perché sia veramente tale, e non inutile iridescenza di parole, deve avere un contenuto morale, deve essere la rappresentazione di un urto necessario tra due mondi interiori, tra due concezioni, tra due vite morali. In quanto l’urto è necessario il dramma ha immediata presa sugli animi degli spettatori, e questi lo rivivono in tutta la sua integrità, in tutte le motivazioni, da quelle più elementari a quelle più squisitamente storiche. E rivivendo il mondo interiore del dramma, ne rivivono anche l’arte, la forma artistica che a quel mondo ha dato vita concreta, che quel mondo ha concretato in una rappresentazione viva e sicura di individualità umane che soffrono, gioiscono, lottano per superare continuamente se stesse, per migliorare continuamente la tempra morale della propria personalità storica, attuale, immersa nella vita del mondo. Perché allora gli spettatori, i cavalieri e le dame che l’altra sera hanno visto svilupparsi, sicuro, necessario, umanamente necessario, il dramma spirituale di Nora Helmar, non hanno a un certo punto vibrato simpaticamente con la sua anima, ma sono rimasti sbalorditi e quasi disgustati della conclusione? Sono immorali questi cavalieri e queste dame, o è immorale l’umanità di Enrico Ibsen?Né l’una cosa né l’altra. È avvenuta semplicemente una rivolta del nostro costume alla morale più spiritualmente umana. È avvenuta semplicemente una rivolta del nostro costume (e voglio dire del costume che è la vita del pubblico italiano), che è abito morale tradizionale della nostra borghesia grossa e piccina, fatto in gran parte di schiavitù, di sottomissione all’ambiente, di ipocrita mascheratura dell’animale uomo, fascio di nervi e di muscoli inguainati nella epidermide voluttuosamente pruriginosa, a un altro costume, a un’altra tradizione, superiore, più spirituale, meno animalesca. Un altro costume, per il quale la donna e l’uomo non sono più soltanto muscoli, nervi ed epidermide, ma sono essenzialmente spirito; per il quale la famiglia non è più solo un istituto economico, ma è specialmente un mondo morale in atto, che si completa per l’intima fusione di due anime che ritrovano l’una nell’altra ciò che manca a ciascuna individualmente : per il quale la donna, non è più solamente la femmina che nutre di sé i piccoli nati e sente per essi un amore che è fatto di spasimi della carne e di tuffi di sangue, ma è una creatura umana a sé, che ha una coscienza a sé, che ha dei bisogni interiori suoi, che ha una personalità umana tutta sua e una dignità di essere indipendente. Il costume della borghesia latina grossa e piccola si rivolta, non comprende un mondo così fatto. L’unica forma di liberazione femminile che è consentito comprendere al nostro costume, è quella della donna che diventa cocotte. La pochade è davvero l’unica azione drammatica femminile che il nostro costume comprenda; il raggiungimento della libertà fisiologica e sessuale. Non si esce furori dal circolo morto dei nervi, dei muscoli e dell’epidermide sensibile. Si è fatto un grande scrivere in questi ultimi tempi sulla nuova anima che la guerra ha suscitato nella borghesia femminile italiana. Retorica. Si è esaltata l’abolizione dell’istituto dell’autorizzazione maritale come una prova del riconoscimento di questa nuova anima. Ma l’istituto riguarda la donna come persona di un contratto economico, non come umanità universale. È una riforma che riguarda la donna borghese come detentrice di una proprietà, e non muta i rapporti di sesso e non intacca (neanche) superficialmente il costume. Questo non è stato mutato, e non poteva esserlo, neppure dalla guerra. la donna dei nostri paesi, la donna che ha una storia, la donna della famiglia borghese, rimane come prima la schiava, senza profondità di vita morale, senza bisogni spirituali, sottomessa anche quando sembra ribelle, più schiava ancora quando ritrova l’unica libertà che le è consentita, la libertà della galanteria. Rimane la femmina che nutre di sé i piccoli nati, la bambola più cara quanto è più stupida, più diletta ed esaltata quanto più rinunzia a se stessa, ai doveri che dovrebbe avere verso se stessa, per dedicarsi agli altri, siano questi altri i suoi familiari, siano gli infermi, i detriti d’umanità che la beneficienza raccoglie e soccorre maternamente. L’ipocrisia del sacrifizio benefico è un’altra delle apparenze di questa inferiorità interiore del nostro costume. Nostro costume. Cioè costume che ha importanza nella storia attuale, perché è il costume della classe che è della storia stessa protagonista. Ma accanto a esso è un altro costume in formazione, quello che è più nostro, perché è della classe cui apparteniamo noi. Costume nuovo? Semplicemente costume che si identifica meglio con la morale universale, che aderisce tutto alla morale universale, tale perché profondamente umana, perché fatta di spiritualità più che di animalità, di anima più che di economia o di nervi e muscoli. Le cocottes potenziali non possono comprendere il dramma di Nora Helmar. Lo possono comprendere, perché lo vivono quotidianamente, le donne del proletariato, le donne che lavorano, quelle che producono qualcosa più di che non siano i pezzi d’umanità nuova e i brividi voluttuosi del piacere sessuale. Lo comprendono, per esempio, due donne proletarie che io conosco, due donne che non hanno avuto bisogno né del divorzio né della legge per ritrovare se stesse, per crearsi un mondo dove fossero meglio capite e più umanamente se stesse. Due donne proletarie le quali, col consentimento pieno dei loro mariti, che non sono cavalieri ma lavoratori semplici e senza ipocrisie, hanno abbandonato la famiglia, e sono andate con l’uomo che meglio rappresenta l’altra loro metà, e hanno continuato nella antica dimestichezza, senza che perciò si creassero le situazioni boccaccesche che sono un retaggio più proprio della borghesia grossa e piccola dei paesi latini. Esse non avrebbero grossolanamente riso della creatura che la fantasia di Ibsen ha messo al mondo, perché avrebbero riconosciuto in lei una sorella spirituale, la testimonianza artistica che il loro atto è compreso altrove, perché essenzialmente morale, perché aspirazione di anime nobili a una umanità superiore, il cui costume sia pienezza di vita interiore, escavazione profonda della propria personalità e non vile ipocrisia, solletico di nervi ammalati, animalità grassa di schiavi diventati padroni.
Antonio Gramsci
(da L’Avanti, 22 marzo 1917)
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