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Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di:

Maria Grazia Calandrone

PIETÀ
da Gli Scomparsi – storie da “Chi l’ha visto?”

Frammento in memoria

[…] ora sappiamo, poi che ne abbiamo rimosso il corpo
azzurro e cedevole, che lei era stata una cosa che non opponeva resistenza e adesso era
esaudita, mentre tubercoli
di larve ne intaccavano gli occhi e la canala dei liquami era stata
scavata profondamente
quanto
il fatto che chi se n’era andato non era più
con lei da molto tempo e lei aveva concluso nel corpo quel separarsi
lentissimo come in presenza di ostacoli e scendendo le scale quella mattina
con la fronte addolcita dal sole
sulla spalla
della piccola indiana con il nome da uccello aveva detto questo
essere stata in mani estranee è stata
la vita mia

Roma, 22 gennaio 2010

Con tutto l’amore che arde

Chicchi di grano carbonizzato sepolti nelle fondamenta dei palazzi come corpi
morti di morte naturale.
Pezzi di carne cruda sotto la sella della cavalcatura e colonne
immerse nell’acqua delle cisterne sotto l’ultimo volo
delle cicogne in pasta di vetro.

Il terreno fu calpestato a lungo da cavalli con maschere d’oro
dopo che venne deviato il corso del torrente
affinché l’acqua coprisse la sepoltura e il corpo non mostrasse
compromissione alcuna con il fango.

Niente come le mani

parla Rosa Della Corte, incriminata dell’uccisione del fidanzato Salvatore Pollasto

Vidi dalla sua macchina la sua mano come la conoscevo – ma bianca
di vita vegetale.
Vidi il suo ultimo saluto alla terra. Contemporaneamente
vidi nei voli di quel primo mattino la tortuosa pazienza di una natura che non era stata montata
osso su osso per essere leggera, eppure
ha compreso il cielo.

Dopo, lui – la sua fascia di chiarore.
Dopo, lui – mero impasto di midolla.
La radiazione nera del suo corpo – il gorgo
del suo corpo – infettava l’aria
cristallina di aprile.

Ora sono una cupa necessità di ordine.
Ho riordinato tutti gli eventi materiali allo scopo di ritornare sola.
Cado nella mia festa. E il mondo è curvo sotto la pressione.

Come lasciano in sosta le giostre
hanno lasciato te, cosa che pure sembra respirare
davanti al mare e in me
ha iniziato a formare lacune
dalla mano, la stessa – ma bianca:
un ponte vuoto tra l’apparenza del mio corpo
(perché non è più vero che io viva) e te, che sei stato anzitempo
terminato. Ma c’è un niente premuto sul tuo volto
e questo niente sono le mie mani.

Roma, 8 ottobre 2009

Fondo in te apertamente

parla Paola Pellinghelli, madre di Tommaso Onofri, rapito e ucciso all’età di due anni il 2.3.2006

È apparso in sogno mentre lo aspettavo e ha detto mamma
tu non mi avrai per tanto – ed era
spaventosamente allegro, come chi già sia
altrove e i suoi giocattoli siano abbandonati
nel seccatoio atlantico,
poi la festuca del suo corpo è stata
passata di mano
in mano – da ombre verticali
che sono cose, non
persone, non
congiungimenti.

Questo niente ha calore. Questo niente proiettato sul mondo. Si muove anche per vertici come una gioia marina.

Sebastiano (il fratello maggiore)
andava freddo verso la pistola, nel suo rotondo
interrogatorio
e suscitava
la sua chiamata
io! sono il genitore
prendimi in sorte – aveva
la maschera da guerra delle scimmie
e il corpo che diventa disumano, una febbre terrestre, qualcosa
che si spacca e butta amore
maturo, serio, severo, senza
io – il tuorlo sparso del cuore
fonde tra le braccia – e anche io ero finita
in un sudore infantile
con quel senso di attività nel petto
come un groviglio di serpi.

A due ore dal risveglio le cose
stanziate in pieno sole hanno l’aria
di balene spiaggiate nell’ultrasuono – animali
della resurrezione, il residuo di lui
che abbracciavo da viva
quando eravamo forme dentro le quali il sangue si muoveva.

Aspettami tu, adesso, se tu esisti.
Anche una madre si tiene fra le braccia.

Roma, 8 aprile 2009

Lo splendore della vita reale

parla Adele Mongelli, rea confessa dell’omicidio del giovane compagno Giuseppe Demarinis

Io posso solo dire che il mio letto
esprimeva un ragazzo
con le mani che ancora non arrivavano a toccare il destino.
Furono mesi di profitto
perché davanti a lui ero disadorna
perché gli anni non li sentivo più
quando eri vicino e io tremavo e non sapevo
perché il cuore picchiasse come un tavolario
battuto da gazzelle e da simili prede
vergini e perché fossi
io tutta smarrita nella tua voce e perché la tua voce
tenacemente resistesse all’urto della tigre
del buon senso e perché il tempo
fosse immobile mentre passava e tutto fosse
veramente apparenza e io come le ossesse e le simili prede
avessi questi sogni da innalzare.
Io so che il petto mi faceva male quando parlavi.

La rosarossa spicca dalla roccia come dal lago del tuo sangue l’osso
senza intelletto, il tuo osso sfilato verso l’alto dal profondo del cuore.
Io indossavo maschere d’argento e fiaccole
di sangue, trascinavo valanghe per passare di stato e diventare più vasta
e più nulla: emancipata dall’amore umano come scena logica
e ovunque il suono liquido del cuore,
il silenzio che avevi eretto in me.

Il tuo corpo deposto dalle mie mani come un attrezzo.
Io mi sono sdraiata accanto a te che avevo
sterminato perché anch’io me n’ero andata in fumo come il calice di una granata
e riaffermo che sì, che nonostante
questa scena coperta di lana e sangue, sei tu quello che voglio.

Dunque persevero nell’errore.
Non sono più immortale, lo vedi, dunque sento
cose come questo bisogno di tenerezza. Sono completamente
dissipata. Comunque provo
la gratitudine di essere viva, quell’attonita e sulfurea gratitudine di esistere che hanno i pampini della vite americana
in autunno. E provo
su di te la bellezza della mia voce
nera, che riempie di compassione
il vuoto che hai lasciato
e le mie ossa, i secreti del corpo che amavi, sono i chiodi
che ti tengono a terra.

Così, trascorsa
la circostanza ferina e incomprensibile della tua morte
torni a caso nei sogni, piccolo come un figlio, in questa vita parallela che non so
se veramente condividi: a me
sembra quando, appena svegli, uscivamo di casa, aspettando che il corpo lasciato al sole
smettesse di separarci.

La prima volta tanto è stato forte che mi sono messa a piangere. Non lo so, non lo avevo mai provato.

Mi dici – con il petto sfondato – mi dici allontana
chi ti rimpicciolisce. E per favore
riprendimi con te, lasciati amare (lasciati amare, lasciati amare…)
e i baci del perdono – baci
dal senza vento – siglano
i documenti di bordo:

il primo amore, la prima morte.

Trascorsa l’efferatezza
e trascorso il perdono.
Quando tutto sarà perduto,
io ricorderò ancora.

Roma, 12 febbraio 2011

Deposto il nome

Diceva sempre
ditele che la amo
e ditele che ho fatto tanta strada
per amarla.

Ditele che se uscivano
angeli e diavoli dalla sua bocca,
io vedevo soltanto la sua bocca.

Ditele che mi abita
per sempre.
Diteglielo, vi prego. Diceva sempre.

30 aprile 2016