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Il racconto che segue, comparso per la prima volta sul “Corriere di Vigevano” nel 1956 e pubblicato nel 1963, è ambientato nell’omonima cittadina lombarda. Si tratta di un racconto realista scritto da Lucio Mastronardi (1930-1979), scrittore proveniente da una famiglia di origine abruzzese trapiantata a Vigevano, per molti anni maestro elementare nella sua città natale. Nel 1959 si segnala come scrittore appartenente al nascente filone della “letteratura industriale” con il romanzo Il calzolaio di Vigevano, a cui fa seguito Il maestro di Vigevano del 1962. Il testo riflette il boom economico che in quegli anni investe l’Italia settentrionale, epoca in cui Vigevano si trasforma da comune agricolo in centro industriale noto per la produzione di calzature.

Avevo un fastidio a un occhio. Mi hanno consigliato di farmelo vedere da una donna che fa miracoli. La santa di Vigevano. Ci andai un pomeriggio. La santa abita in un vecchio stabile, nella vallata San Martino, uno dei più vecchi rioni della città. Nella corte, una donna, senza che le chiedessi niente, m’indicò la scala dove la santa abitava. Salii. I baselli erano sconnessi e di legno. Ne mancava anche qualcuno. Arrivai su di un ballatoio con la ringhiera sempre di legno, che puzzava di marcio; ed entrai nell’unica porta che c’era. Mi sono trovato in una vecchia e grande stanza, piena di donne e donnette. Alle pareti erano appesi dei Cristi incorniciati in tutte le pose: mentre prega, col cuore in mano, mentre predica, mentre miracola, mentre sale il Calvario, mentre muore, mentre risuscita… Tutte le pareti erano così quarciate da quei quadri e quadretti, che non si vedevano nemmeno i colori dei muri. La gente sedeva su sedie scompagne, aspettando con pazienza il suo turno. Sul tavolo c’era una scatola di scarpe con un buco sul coperchio. La santa sedeva sull’orlo di una branda con un crocifisso in una mano e un rosario nell’altra. Portava una saia da frate. Aveva una faccia paffuta, e occhi neri e vivi. Capelli corti e brizzolati, divisi a metà dalla riga; e un vocione comunicativo, dalla parlata dialettale. Seduta davanti a lei, una donnetta le contava le sue croci. Suo figlio gliene sta per combinare una, proprio grossa. Si è innamorato di una… figlia dell’amore.

– Io gli ho detto: se tu sposi quella lì, me, ti rifiuto da figlio. Ma non c’è verso – diceva la donnetta panettandosi gli occhi. – Noi siamo gente per bene; io non mi voglio imparentare con una così! –. 

La santa si raccolse. Si prese la testa fra le mani. Una sua parente ci fece segno di tacere, è in rapporto con Gesù, disse. Per qualche minuto la santa rimase con lo sguardo per terra, fisso sui disegni del pavimento nuovo. Poi disse:

– Quella ragazza ci ha fatto il pignattino a suo figlio! –.

– No! – gridò la donnetta.

La santa gettò uno sguardo ai quadri del suo padrone, come disse.

– Passerò tutta la notte a pregare per voi e per vostro figlio. Vedrà che il mio padrone mi darà da trà; che il pignattino non funzionerà più –.

– Mi faccia questa grazia – disse la donnetta.

La santa le diede un santino, con una preghiera dietro, da dire quando suo figlio è in casa. La donna uscì un portafoglio. Mise l’immagine in una tasca, con cura. Introdusse nella scatola qualche biglietto da mille e uscì.

– Se mi fate la grazia, so il mio dovere – disse, sull’uscio.

– Non ho bisogno di niente, io. Ciò lui – disse la santa, fiera, alzando la croce.

Toccava a una donna. Come sedette davanti alla santa, scoppiò a piangere. Disse che suo marito ha una fabbrica di scarpe a socio con uno, che gliene fa da vendere.

– Sappiamo solo noi cosa ci fa passare quel socio; i dané che ci giuntiamo, il lavoro che va a male… Il mio uomo vuole spartirsi. Quello là non ci sta. Il mio uomo dà fuori, se non si spartisce, dà fuori da matto. Passa delle notti senza sarare su occhio; sempre con quel pensiero fisso nella mente –.

– Cosa vuole il socio per spartirsi? – domandò la santa.

– La fabbrica intera vuole. E dei danari insieme. Tutto il lavoro mio e del mio uomo darcelo tutto a lui… –.

La santa si alzò; andò dall’altra parte della branda; da un canterano prese una reliquia, e scomparve dietro la branda.

– Silenzio. È in crisi – mormorò la parente.

Per qualche minuto si sentirono solo i singhiozzi compressi della donna. La santa riapparve.

– Dategli tutto quello che vuole al socio. Quella fabbrica è maledetta. Sfatevene subito. Ripigliate da capo, voi e il vostro uomo, e nessun altro di mezzo. Pregherò che gli affari vi vadano bene! – disse la santa.

La donna se ne andò poco convinta. Ciula, borbottava, ciula, tuttavia la nostra roba in bocca al lupo. Me ne sogno neanche…Ora toccava a una donna giovane. Sedette imbarazzata davanti alla santa. Si guardava d’attorno. Doveva seccarle dire i fatti suoi davanti a tutti.

– Io so perché siete venuta – disse la santa, guardandola fissa; – non ce la fate a imbastire un figlio; vero? –.

La sposa assentì.

– È tre anni che lui mi mena da uno specialista all’altro – mormorò con voce stanca.

– Ma lui è affettuoso? –.

– Non mi dice più niente. Quando viene sua sorella con suo figlio, lui ci slingua vicino al nipote. Ci ha una fabbrica a socio con sua sorella. Ecco, dice, tanto da fare, tanto rabattarsi, per lasciargliela tutta al nipote la fabbrica… E quando si esce, c’è sempre qualcuno che dice: ma che bella coppia! Ma perché li mandate via?… che torniamo a casa che non ci abbiamo voglia di guardarci in faccia –.

La sposa parlava all’orecchio della santa, ma la voce le usciva forte. La santa la fece stendere sulla branda. Con le mani le premeva il ventre; ci faceva croci, mormorando preghiere.

– Aspettate il periodo della luna piena – disse. – Se non ci resta, dite al vostro uomo di andare lui a farsi curare! –.

– Davvero? – disse la sposina, raggiante.

La santa strizzò l’occhio con un sorriso furbo. In quella, sorretta da due donne, comparve una ragazza con le gambe sciancate. La santa le andò incontro e l’abbracciò. Disse che quella povera anima le era tanto cara. È in cura da me, disse. Il viso devastato della ragazza s’illuminò, mentre le mani della santa la sostenevano.

– Hai fatto quello che t’ho detto? – domandò la santa.

La ragazza accennò di sì. – Ho fatto solo un giro intorno al tavolo –disse.

La santa trasalì, e dopo un momento di silenzio, gridò:

– Fanne due subito di giri. Non toccatela. Avanti! –.

La poveretta si levò; a stento raggiunse il tavolo. Sta per appoggiarsi.

– No! – urlò la santa. La ragazza arrancava intorno, fermandosi dopo qualche passo; riprendendo. Dopo un giro cadde su una sedia.

– Ancora un altro, – gridò la santa. Si alzò. La ragazza riprese a camminare; la santa le andava dietro, vicino, e le diceva:

– Ci sono io. Abbia fede. Non toccare il tavolo. Ci sono io. Io ci sono. Avanti. Sono qui io. Senza paura. Vedi che ce la fai. Avanti… –.

La ragazza fece tre giri, e sedette sull’orlo della branda.

– Non ho fatto fatica! – diceva.

Una delle donne che l’accompagnava, disse: – Qui ce la fa. A casa no. Qui ci siete voi –.

– Non è vero, – disse la santa – io non sono niente. È il mio padrone. Che è dappertutto: anche a casa vostra –.

Baciò la ragazza, e disse alle donne di farle fare a casa tre giri intorno al tavolo; e di tornare da lei fra qualche giorno. Le donne promisero.

– Adesso vai fuori! – gridò alla ragazza, che sforzandosi di non appoggiarsi né al tavolo, né alle sedie, arrivò all’uscio.

La santa si sentiva stanca. Si fece dare una scodella d’acqua, e prima di berla ci fece dei segni di croce che parevano scongiuri. Toccò a una donna. Ha su un fabbrichino. Ha taccagnato con una operaia, che le ha detto: quando morirete farò suonare le campane.

– Quando suona una campana, ammà per me è una roba che podinò spiegare. Peggio che un supplizio, – disse la donna. – E le campane tacciono mai… –.

– L’avete licenziata l’operara? –.

– Sì. Ma quelle campane, madonna santa, quelle campane… –.

– Quando sentite le campane, – disse la santa – sforzatevi di pensare che suonano per quella là –.

La donna scosse la testa. – Ci ho già provato, – disse. – Prima non ci facevo mai caso, alle campane; adesso è un tormento che comincia la mattina bonora e continua fino la notte… –.

– Allora fatevi tre segni di croce a ogni scampanata, – disse la santa – con tre Requiem insieme! –.

Toccava a una vecchietta. Suo figlio fa il modellista. E vuole andare nel Sud Africa, a lavorare. Un padrone di Vigevano ci ha piantato un’azienda, là, e il mè balosso vuole andare a mostrarci il mestiere ai zulù. Vuole firmare il contratto per dieci anni. Dice che farà su tanti di quei soldi, che podrà tornare a Vigevano e mettersi in proprio e in grande: una bella fabbrica di scarpe. Che me lo faccia stare a casa!

– Mandatemelo qui; gli dirò solo quattro parole, e ci farò passare la voglia di partire! –disse la santa, sicura. – Lo aspetto domani! –.

Finalmente toccava a me. Mi sedetti davanti alla santa.

– Ho un occhio che mi lacrima – dissi, indicando l’occhio.

– Vi scarnebbia l’occhio? – disse la santa. Mi prese la testa, ci soffiò sulla palpebra, e ci fece delle croci. Da una scatola uscì una «fotografia» di Gesù, formato tessera, dall’aria terribile, e me la diede.

– Fissatela – disse.

Io la fissai.

– Ci vedete una croce sulla fronte? –.

– No –.

– Io sì. Seguitate a fissarla… –.

Donnette si fecero d’attorno, e poco dopo tutte vedevano la croce. Qualcuna ci sentiva anche un leggero profumo.

– La vedete la croce? – disse la santa.

– Sì, adesso la vedo –.

La santa mi guardò contenta.

– Vedete, io sono una povera donna, senza studi, senza niente. Ma c’è il mio padrone, a illuminarmi. Ci posso mostrare a tutti, io. Quando un qualcosa non vi va, o vi va per traverso, fate come avete fatto adesso: guardatelo fisso finché non avete visto la croce, che avete visto adesso –.

La scatola dei soldi era piena. I miei non ci entravano. La parente della santa la sostituì con un’altra vuota. Mentre uscivo entrava gente. E altra gente incontravo per le scale, e nella corte, e sul portone. Mentre tornavo a casa, l’occhio mi scarnebbiava ancora, ma poco. E fu l’ultima volta. Poi non mi scarnebbiò più.

(L. Mastronardi, Dalla santa, in Nuovi racconti italiani II, a cura di L. Silori, Nuova Accademia, Milano 1963)

Il narratore protagonista racconta i fatti, le “sedute” dalla santa guaritrice in prima persona. Si tratta di un narratore interno, autodiegetico, coinvolto nei fatti di cui è anche testimone. Anche la focalizzazione è interna, la storia, i dettagli vengono descritti attraverso la prospettiva di un unico personaggio. E’ presente anche qualche giudizio come La poveretta, riferito alla ragazza paralitica, o come Donnette, cioè le clienti della maga, che vuol mettere distanza culturale tra se stesso e gli altri personaggi del racconto immersi in un microcosmo pittoresco e superstizioso. L’ambiente descritto è ancora contadino e tradizionale, con qualche elemento di novità, a causa della rapida industrializzazione degli anni Sessanta del Novecento. La santa, emblema della civiltà rurale in dissoluzione, non si adegua ai cambiamenti sociali del suo tempo tanto da consigliare a una cliente di disfarsi della sua fabbrica maledetta. Davanti alla santa di Vigevano sfilano persone di tutte le età e di tutte le classi sociali, ciascuna ha la propria dolorosa storia da raccontare ed è disposta a farlo davanti a tutti, in una sorta di psicoterapia di gruppo. La maga, seduta su una branda e assistita da una parente che sostituisce la scatola di cartone piena di soldi con un’altra vuota, ascolta, consiglia, benedice, compie qualche gesto rituale dispensando immagini, reliquie, preghiere. Sono riportati anche i dialoghi popolari tra la santa e le donne che affollano la sua abitazione. Il linguaggio è poco articolato, basato su frasi coordinate o accostate le une alle altre.

Dal punto di vista lessicale prevalgono termini colloquiali e regionali (ci ha fatto il pignattino; ha taccagnato; il mè balosso.) Per esprimere le parole e i pensieri dei vari personaggi che giungono nella casa della santa, il narratore usa il discorso diretto oppure il discorso indiretto libero. Il narratore protagonista, giunto il proprio turno non si tira indietro, asseconda perfino la donna, forse fingendo di vedere la croce nella fronte del Cristo che gli viene mostrato in una immaginetta. Quando infine scende in strada, si trova costretto ad ammettere di essere guarito. Il finale a sorpresa, grazie all’espressione dialettale impiegata, il mio occhio non mi scarnebbiò più, rivela l’aspetto comico e grottesco di tutta la vicenda.

Deborah Mega