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Questa intervista appartiene ad un’iniziativa del blog Limina mundi che intende dedicare la propria attenzione alle pubblicazioni letterarie (romanzi, racconti, sillogi, saggi ecc.) recenti, siano esse state oggetto o meno di segnalazione alla redazione stessa. Ciò con l’intento di favorire la conoscenza dell’offerta del mercato letterario attuale e degli autori delle pubblicazioni.

La redazione ringrazia Sergio Sichenze per aver accettato di rispondere ad alcune domande sulla sua opera: “Tutto è uno”, Terra d’ulivi edizioni, 2020.

  1. Ricordi quando e in che modo è nato il tuo amore per la scrittura?

Una casa dove i libri costituiscono le pareti portanti è un buon inizio: così è accaduto. Non erano organizzati per autore o per genere: erano lì, a disposizione. Quello è stato il primissimo amore per la scrittura. La fascinazione derivante dal profumo della carta, toccare le copertine che percepivo fossero custodi di mondi e paesaggi sconfinati, e poi le parole. Il transfert emotivo sono state e sono le parole: forma e suono. Cardini sui quali scivola la porta che spalanca a epifanie. Leggere e quindi leggere, poi leggere e rileggere: la più concreta forma di scrittura, un flusso ininterrotto che ancora mi percorre.

  1. Quali sono i tuoi riferimenti letterari? Quali scrittori italiani o stranieri ti hanno influenzato maggiormente o senti più vicini al tuo modo di vedere la vita e l’arte?

I primi vagiti di passione letteraria: Salgari e Verne. Sono autori che ti conducono magicamente nelle storie…e Kipling. Ricordo che quando vidi al cinema il mio primo film della Disney rimasi deluso, lo trovai sottotono rispetto alla magnificenza dei libri che in quel periodo maneggiavo. Fino al liceo sono stato bulimico, vorace, caotico: afferravo ciò che trovavo. Un libro, tra i tanti, mi scosse: “Ferito a morte” di Raffaele La Capria, soprattutto l’incipit: la caccia alla spigola nel mare di una Napoli che non avevo conosciuto. Poi i grandi classici latini e greci, l’epica omerica: irripetibile caleidoscopio di miti, dei, uomini e sentimenti verticali. Gli autori italiani che hanno avuto e continuano ad avere una notevole influenza sono tanti: Pavese, Fenoglio, Piovene, Pasolini, Arpino, Bernari, Carlo Levi, Primo Levi, Ortese, Nigro, Tobino, Silone, Tabucchi e altri. Un posto del cuore lo riservo a tre scrittrici: Natalia Ginzburg, Goliarda Sapienza ed Elsa Morante. Ma sono gli scrittori siciliani che mi hanno conquistato e decisamente orientato: Pirandello, Verga, Tomasi di Lampedusa, De Roberto, Vittorini, Brancati, Sciascia, Consolo e, con un sentimento di amore incondizionato, Gesualdo Bufalino: un uso della lingua incomparabile. Altri due autori rappresentano una luce costante: Gadda e Calvino. Quest’ultimo supera qualsiasi genere letterario, per affermarsi in uno spazio del pensiero e della riflessione attualissimo: non ha eguali. Da Calvino il passaggio a Borges è immediato, la magnificenza dei labirinti della mente, la rete inestricabile di storie: unico. Quindi Pessoa con i suoi eteronimi, nonché gli scrittori della letteratura ispanoamericana: Reyes, Paz, Cortázar, Vargas Llosa, Márques, Allende, Sèpulveda, Galeano, Mutis e altri. Degli autori transalpini contemporanei mi affascina Annie Ernaux. Ho richiamato solo alcuni scrittori che hanno incrociato la mia vita; alcuni di essi hanno intrattenuto un rapporto anche con la poesia (si veda Borges). È la poesia, però, l’amore di sempre, d’altro canto è il genere che sperimento. Qui si apre un discorso vastissimo, che circoscriverei così: la poesia classica greca e latina (Esiodo, Saffo, Virgilio, Catullo, Orazio); quella mistica araba e quella europea (includendo anche l’area russofona). La poesia italiana costituisce un ecosistema a sé, soprattutto perché non richiede traduzioni, ed è, a mio avviso, la vera palestra sull’uso della lingua: gli amatissimi Leopardi e Montale, due autori di formazione imprescindibili. Poetesse cruciali: Pozzi e Rosselli. Quasimodo, Sereni, Rebora, Campana, Cavacchioli, Luzi, Penna, Caproni, Gatto: in ordine sparso. Ungaretti: una sorta di trasfusione materna. Un salto all’estero richiederebbe un viaggio. Mi limito a Neruda e Hikmet, Zagajewski e Brodskij, Carver, Celan ed Éluard. Un posto speciale nella mia libreria l’ho riservato a Ritsos, Kavafis, Seferis ed Elitis. Le meravigliose Mistral e Plath. Fortemente Rilke. Desidero qui rammentare tre scrittori poco noti ai più: Dolci, Piccolo, Buttitta. Il primo libro di poesie che comprai con la mia “paghetta” fu “I fiori del male” di Baudelaire. Mi fermo!

  1. Come nasce la tua scrittura? Che importanza hanno la componente autobiografica e l’osservazione della realtà circostante? Quale rapporto hai con i luoghi dove sei nato o in cui vivi e quanto “entrano” nell’opera?

La scrittura nasce dall’urgenza irrefrenabile di mettere su carta il sé profondo, che nel mio caso si manifesta con la poesia: so cose di lui solo scrivendo! È sempre un ospite inatteso: arriva e si piazza in soggiorno, o in qualsiasi altro luogo che frequento, soprattutto durante i viaggi, negli spostamenti in treno: mezzo che frequento assiduamente. Pertanto, ciò che scrivo non può che non essere autobiografico. Parlo di una autobiografia emotiva, del mistero che in modo permanente mi abita. I luoghi hanno una grandissima influenza, sono segnatamente evocativi: scatenano un sistema complesso e intrecciato di stati d’animo e richiami mentali. Nonostante sono quasi quarant’anni che vivo in Italia del Nord, sono un uomo forgiato nel Sud del Mediterraneo: direi nelle sue acque. Vuol dire che la mia matrice, non solo biologica, ma soprattutto culturale, proviene da quell’ecosistema. Porto in me l’impronta della Storia che l’ha generato. La Sicilia, anche se nato a Napoli, è, senza alcuna incertezza, la mia terra d’origine. Più ciò che è, che è stata, il lunghissimo processo naturale e culturale che l’ha prodotta, è il suo inestricabile arcano che catalizza la mia passione. La terra che mi ospita da così lungo tempo è meravigliosamente boreale. Vi ho costruito un legame fortissimo, anche se non mi ha generato; intendendo con generare molto più e molto altro dell’esito biologico che determina la vita, mi riferisco all’ignoto di cui sono intriso. Mi sento a casa lì dove posso ascoltare la sua voce.

  1. Ci parli della tua pubblicazione?

“Tutto è uno” è un libro che viene da lontano. Lo considero un approdo, potrei dire che incarna il mito di Ulisse. L’epica omerica ci restituisce un eroe e, al tempo stesso, una figura umanissima che sferza i suoi compagni e sfida l’universo deiforme in quanto in lui agisce la nostos. Il ritorno a casa, nella mia epica, è il ricongiungersi al mistero dell’esistenza, cui prima ho fatto cenno. Il titolo richiama Rilke ed Eraclito. Rilke, di cui riporto in introduzione una quartina, sviluppa nel corso della sua poetica la dimensione olistica dell’esistenza, propria di Eraclito. L’unità è matrice di diversità, ma non smarrisce mai la sua natura spirituale. Non intendo attribuire a ciò un significato religioso, semmai mistico, che dal verbo greco “myein” significa celato, intimo, nascosto. L’essenza. È una riflessione che ha richiesto un lungo processo di consapevolezza e di maturazione, che inevitabilmente proseguirà. Anche se in questa silloge poetica c’è completezza di pensiero. Tutto ciò ha trovato compimento in un momento preciso della mia vita, un’epifania che ha fatto emergere un codice sacro che si è palesato nei versi.

  1. Pensi che sia necessaria o utile nel panorama letterario attuale e perché?

Il contemporaneo ci mostra un mondo frammentato, parcellizzato, carico di timori e confuse aspettative: seppur inneggiato come globale. Assistiamo inermi, spesso sopraffatti, a eventi planetari che non siamo in grado di decodificare. Immersi in un flusso che sembra trascinarci verso l’ineluttabile, senza avere la possibilità di esercitare la nostra scelta individuale. Una bufera nella quale smarriamo i punti di riferimento. Il mio libro può offrire una sosta, contribuire a riappropriarsi del senso spirituale dell’unità. Rimarco che si tratta di una silloge profondamente laica, che non cede alla semplificazione dogmatica, ovvero a un pensiero che tende all’unificazione del vero e alla separazione dei credi. Il tempo dedicato al consumo ha di molto superato il tempo del sacro, all’inclinare lo sguardo verso i valori fondativi dell’umano, della consapevolezza dell’esistenza. Proverei gratitudine verso coloro che volessero leggermi, tenendo a mente le argomentazioni fino a qui espresse.

  1. Quando e in che modo è scoccata la scintilla che ti ha spinto a creare l’opera?

Alcune idee le ho già tratteggiate: è un libro che affonda le sue radici in uno spazio temporale indefinibile. Concretamente fogli e penna si sono incrociati nel mese di luglio del 2019. Non poteva che essere così: l’estate è per me stagione rigogliosa. La metà di quel mese l’ho trascorsa nel Salento, che mi ha offerto doni che hanno contribuito a chiarificare le acque che mi attraversavano. Molti versi hanno trovato forza e linfa proprio lì.

  1. Come l’hai scritta? Di getto come Pessoa che nella sua “giornata trionfale” scrisse 30 componimenti di seguito senza interrompersi oppure a poco a poco? E poi con sistematicità, ad orari prestabiliti oppure quando potevi o durante la notte, sacra per l’ispirazione?

Diciamo che il movimento tellurico ha avuto un’attività effusiva copiosa e ininterrotta, anche se la lava scorreva sottostante da chissà quanto tempo. I versi non si presentano però come rocce magmatiche, ovvero non sono una massa amorfa, nera e inospitale, a seguito di un raffreddamento rapido a contatto con l’aria, semmai sono rocce sedimentarie, con precisa stratificazione che consente la lettura della Storia che le ha formate. In generale, e anche in questo caso, non ho orari, o momenti della giornata in cui prediligo scrivere. La mia modalità percettiva dominante è la vista. In quanto soggetto visivo, immagazzino frammenti di immagini che continuamente si ricompongono, fino a formare la parola. È un processo inarrestabile. Poi c’è la fase lenta del tramonto, dove tutto si stempera e lentamente si focalizza ciò che trasferisco nei versi.

  1. La copertina. Chi, come, quando e perché?

L’immagine di copertina, la carta, il formato, sono opera di Elio Scarciglia: editore e grafico eccelso. Ha colto l’essenza, e di questo gliene sono molto grato. Forma e contenuto costituiscono un unicum che ha un valore simbolico ed evocativo determinante. Quando accade ciò, si conferma l’assoluta insostituibilità del libro: oggetto di intensa fascinazione.

  1. Come hai trovato un editore?

La mia collaborazione con Terra d’ulivi edizioni è iniziata nel 2018, allorquando Elio Scarciglia mi ha coinvolto, in fase ancora embrionale, nell’avventura di Menabò: quadrimestrale internazionale di cultura poetica e letteraria. Lo scambio continuo di idee e la condivisione d’intenti, di progetti e obiettivi comuni, hanno prodotto l’humus ideale per creare un libro assieme. Ritengo, infatti, che un libro non è un prodotto commerciale, semmai uno strumento culturale che diventa, una volta lasciato il porto sicuro, un messaggero di princìpi e valori, un contenitore di mondi da indagare. In questo lavoro sperimentale, autore ed editore concorrono paritariamente a imprimere la propria visione. La dimensione finita appartiene ai lettori nella loro difformità. È quello che accade durante il viaggio che ha valore.

  1. A quale pubblico pensi sia rivolta la pubblicazione?

La poesia, meno della narrativa, è ed è stata oggetto di classificazioni di genere, e risente degli orientamenti dei diversi periodi storici. Tale aspetto, questa volta rimarcando una sostanziale differenza con la narrativa, difficilmente la registro nel pubblico al quale presento i miei libri: la poesia è la poesia. Noto posizioni dicotomiche, che si identificano talvolta con il gusto: mi piace o non mi piace. Bella o brutta. Molto spesso: mi ha fatto emozionare e quindi pensare. Nelle librerie, inoltre, lo scaffale (uso non caso il singolare: ahimè!) dedicato alla poesia si presenta in modo caotico, qualche volta organizzato per autore, mai per genere. Nell’epoca dei social, però, leggo molte più citazioni poetiche che di narrativa. È uno spaccato che mi incuriosisce. Mi rivolgo a chiunque abbia voglia di aprire un libro e leggere dei versi, portarseli a casa, farli viaggiare, riporli e magari rileggerli dopo molti anni, farne dono. Sono convinto che la poesia non si consuma, non perde di attualità e continua a mordere la vita, o a baciarla.

  1. In che modo stai promuovendo il tuo libro?

Questo è un aspetto che denota fragilità. La mia natura riservata, la scarsa propensione a essere un animale da social media, sicuramente penalizza la promozione. Devo dire però che, anche se lentamente, riesco a veicolare i miei libri attraverso micro reti territoriali e sociali. Sto scoprendo strati di realtà a forte connotazione partecipativa: ciò mi rassicura. Il rapporto diretto con le persone mi vivifica, è un antidoto alla sciatteria e brutalità dei luoghi comuni, alla masticazione ripetitiva e seriale degli stereotipi. Anche questa intervista s’inscrive nel solco delle relazioni vivificanti, così come l’apprezzamento di amici scrittori e poeti ai quali l’ho inviato.

  1. Qual è il passo della tua pubblicazione che ritieni più riuscito o a cui sei più legato e perché? (N.B. riportarlo virgolettato nel testo della risposta, anche se lungo, è necessario alla comprensione della stessa).

La silloge è stata costruita in modo evolutivo. Segue un flusso non temporale ma di elaborazione di pensieri che via via si sono dipanati. La potrei definire un tappeto, dove l’intreccio dei fili, la mescolanza dei colori, l’attenta scelta dell’orditura, ha consentito l’emersione di una raffigurazione complessa. Le chiavi di lettura sono molteplici, segnatamente soggettive. Ciascuno può costruire la propria realtà, la quale potrà mutare al mutare delle percezioni. In tal senso l’ultima poesia che s’intitola “Origine” fornisce il senso di circolarità della silloge. I versi di chiusura sono per me rappresentativi di questo lavoro: “Alcuna legge ha luogo in sé / Essere noi, adesso, / è origine”.

  1. Che aspettative hai in riferimento a quest’opera?

La raccolta costituisce un elemento di cambiamento e di conferma del mio percorso letterario. Di cambiamento in riferimento alla struttura e alla maturazione poetica, di conferma in quanto è da qui che desidero ripartire. La percezione è quella di aver costruito un setaccio con nuove maglie, che spero mi aiuteranno a filtrare e selezionare in modo diverso il divenire esistenziale. L’aspettativa verso l’esterno, quella a cui tengo maggiormente, è che diventi uno strumento di confronto e discussione, non tanto e non solo sull’opera, quanto sul contributo che spero potrà fornire alla riflessione sul nostro tempo. La poesia ha svolto sempre una funzione nelle società, non contemplativa o accademica, semmai di presa di coscienza della condizione umana. Poeti quali Hikmet, hanno subito il carcere, o sono stati uccisi o fatti sparire: quando un regime cerca di tappare la bocca a qualcuno, una delle prime voci a cui si rivolge è quella dei poeti. Scriveva Pablo Neruda, sulla cui morte c’è ancora un fitto mistero in merito al coinvolgimento del regime instaurato in Cile da Augusto Pinochet nel 1973: “Guardatevi in giro, c’è una sola forma di pericolo per voi qui: la poesia!”

14. Una domanda che faresti a te stesso su questo tuo lavoro e che a nessuno è venuto in mente di farti?

Apporre un punto interrogativo al titolo di quest’opera: Tutto è uno?

Siamo stati forgiati per esprimere complessità, eppure assistiamo a una linearizzazione del pensiero, all’affermarsi di visioni assertive, dove le certezze soppiantano l’indefinito, lo sfuggente senso dell’esistere. Se da un lato sostengo che “Tutto è uno”, dall’altro il senso di tale unità si cela. Ne “La Repubblica”, Platone parte dal principio che la conoscenza sia proporzionale all’essere: è perfettamente conoscibile ciò che è massimamente essere, al contrario, è assolutamente inconoscibile il non-essere. Tra essere e non-essere, esiste una realtà intermedia, il sensibile. Porrei, dunque, sempre il mistero quale antidoto all’irrimediabile realtà. Italo Calvino, avvertiva i lettori di essere diffidenti della sua biografia, soprattutto se redatta da lui. Un modo mirabile per dubitare anche dei fatti che costellavano la sua vita, quali immagini vaghe, pronte a disparire sotto i colpi della bufera.

15.Quali sono i tuoi progetti letterari futuri? Hai già in lavorazione una nuova opera e di che tratta? Puoi anticiparci qualcosa?

Sto lavorando a un progetto poetico che cerca significato e senso in merito a un tema a me molto caro: le isole. C’è un’isola reale in questo lavoro che assurge a paradigma universale. L’isola però è anche il poeta. Nel discorso di premiazione tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel per la letteratura, Wislawa Szymborska, disse «fino a non molto tempo fa, nei primi decenni del nostro secolo, ai poeti piaceva stupire con un abbigliamento bizzarro e un comportamento eccentrico. Si trattava però sempre di uno spettacolo destinato al pubblico. Arrivava il momento in cui il poeta si chiudeva la porta alle spalle, si liberava di tutti quei mantelli, orpelli e altri accessori poetici, e rimaneva in silenzio, in attesa di se stesso, davanti a un foglio di carta ancora non scritto. Perché, a dire il vero, solo questo conta». Esseri isolati è una condizione duale, perennemente oscillante tra il sé e l’altro, e come altro intendo le molteplici dimensioni dell’esistere che rimandano al sé: una ricorsività pregnante. Le isole sono paradigmi di tale condizione. Corrispondono a una delle forme che può assumere il mito. Il poeta, dunque, si trova a suo agio a sperimentare tale materia, sempre in bilico tra indefinito e realtà, senza mai avere la tensione a risolvere l’enigma, anzi a rafforzarlo.

Sergio Sichenze è nato a Napoli nel 1959. Vive e lavora a Udine. Ha pubblicato racconti e raccolte poetiche, tra cui “Nero Mediterraneo” (Campanotto Editore, 2008), “BOBBIO Y MOSTAR” in “La natura dell’acqua: almanacco di letteratura rinnovabile 2011” (Marcos y Marcos Editore, 2011), “Nei chiaroscuri del tango” con Elisabetta Salvador (Campanotto Editore, 2018), “Il futuro cede al ritorno” (Convivio Editore, 2019), “Tutto è uno” (Terra d’ulivi edizioni, 2020). Sue poesie compaiono in alcune raccolte. Nel 2018 ha vinto il Premio Nazionale di Poesia Terra di Virgilio. Dal 2019 è membro della giuria Premio Nazionale di Poesia Terra di Virgilio. Fa parte del comitato di redazione del quadrimestrale internazionale di cultura poetica e letteraria “Menabò” (Terra d’ulivi edizioni) per il quale cura la rubrica “Pi greco”.