Adriana Gloria Marigo: Astro immemore
Prometheus Editrice, 2020
Postfazione di Andrea Matucci: Un luminoso “sentimento dello spazio”
Con Astro immemore, Adriana Gloria Marigo ci offre una collana di quarantacinque brevi poesie in versi liberi rivolta al lago Maggiore coi suoi promontori, ma se il titolo ci allontana già da ogni ipotesi descrittiva, nei testi le elevate ricorrenze di aria, luce, azzurri e verdi lo richiamano piuttosto in raffinate tarsie o – come scrive Andrea Matucci – “per fuggevoli indicazioni” spesso tutt’altro che aderenti al versante visivo, semmai in un intreccio di empatia e stilizzazione:
Afflizioni pluvie saggiano
i cardini della roccia
l’irridente fragore del mare
che a me sodale frantuma
la chincaglieria del lago
finisterre occluso al largo.
È pur vero che il lago, o piuttosto la sua cornice, sottende l’intera raccolta, ma non senza effetti di estraneità, sia a causa dell’astro dimentico il suo benigno influsso – e tanto importante da titolare il libro – sia per la sua riduzione a “chincaglieria” rispetto al mare. Esso permette alla poetessa di eseguire difficili mosse da funambolo tramite voci inconsuete, rare, letterarie o derivate da altre lingue (come “funambolia” “viridarium” “spendimento” “implaga” “celestia” “aspèrgine” “venetico”…) cui si aggiunge l’uso spesso inarticolato delle preposizioni (“di rosa canina” – “d’ànemos” – “di vela rossa” – “d’aria” – “d’arte”) la tendenza a ridurre l’impiego degli articoli, e la sostantivazione di certi avverbi e aggettivi (“da smisurato lontano” “di vago fragrante”) ottenendo sempre nuove tessiture di un testo aperto, perciò di non facile decodificazione…
Intemperante giunge un vento
sonoro a lanciarsi ostinato
dalle dorsali prealpine,
suadere a dismisura
la funambolìa del mattino,
l’aspèrgine azzurra
lungo l’ordinata del giorno.
Nella formazione della propria lingua poetica, ci accorgiamo che Adriana Gloria Marigo ha reso straniere le presenze cui attribuisce “funambolìa” al mattino, “aspèrgine” all’azzurro, “implaga” al blu di Prussia “lunari” agli agresti, “spergiuro” al sole, “scaltra” all’ombra, “ordinata” al giorno, nel senso di unirle a presenze insospettate e a volte molto lontane come è il caso di il “re del Ponto”:
La digressione di tutto il turchino
sperpera la penitenza del cielo
qui avviene lo spergiuro del sole
la prova costante del re del Ponto,
stinge persino l’ombra scaltra del bianco.
La prima poesia, arco d’ingresso alla raccolta, si rivolge enigmaticamente a uno strappo esistenziale cui necessita l’arte del rammendo, come indica il duplice senso di fortuna…
È cucita addosso una veste
di timbriche fortune alterne
nella luce il momento esalta
e schianta nel giro che smaglia
e torna d’arte al rammendo.
mentre fra ciò che esalta e smaglia, le successive vi accennano sia per il tono sia per il fatto che l’impulso affettivo e i richiami al mondo esterno permangono in uno stato di implicito straniamento, sicché qui non si può certo dire, con Meister Eckart, “l’amore è di tal natura che trasforma l’uomo nella cosa amata”. Decisiva, al riguardo, è la quasi totale assenza dell’io “che vede, pensa, parla” (Andrea Matucci) e il predominio delle frasi constative, come in “febbraio ha corte nel gelo” “perdura il seccume” “si tagliano i rami opprimenti” e via così, lasciando insomma prevalere l’oggettività su cui si modellano le ardue espressioni dell’intera raccolta…
Stenta primavera pochi fiori
perdura il seccume
al turbine preciso d’avarìe
sotto lo sperdimento azzurro
ora che il levarsi mergozzino
convoca acuti d’ombra,
l’esecrabile nullora.
Ho accennato alle tarsie, perché la poesia di Adriana Gloria Marigo, estranea all’estensione narrativa “che è sempre stato l’orrore della poesia pura” (Andrea Matucci) anzi tendenzialmente ermetica, e perciò senza sviluppo, forma i suoi riquadri con frasi paratattiche, riducendo al minimo snodi, congiunzioni e punteggiatura. Ne abbiamo un esempio indiretto con “si tagliano rami opprimenti” per lasciare “respiro di spazio” e “Il canto glorioso dei merli/ svuota l’aria d’altra voce” nel senso di scindere o distanziare gli sguardi, talvolta improvvisi (“abbaglio bianco di rosa canina” “La salita che scosta le case/ s’apre nel punto preciso/ dove slarga lo sguardo/ di celestia fitto”)…
Si tagliano rami opprimenti
si lascia respiro di spazio
all’albero in canto rinascente.
In terra l’avventura dei bulbi,
della forsythia in acuto giallo
intrama fortuna di viridarium.
Oppure, in Lucreziana, unica poesia titolata:
Nella stagione che priva l’ornato
più chiare possiamo vedere
in margine al bosco
[…]
solitarie betulle odoranti
il rigore territoriale dell’aria.
“Fortuna di viridarium” (il “verde” ha anche lui molte ricorrenze) rafforza – adversus Thomas Stearns Eliot, nel suo “aprile è il più crudele dei mesi”– gli enunciati della precedente Primavera, stagione, qui portatrice di nostalgia:
Primavera, stagione
più di altra leale
celebri la nostalgia
ogni casa che ho abitato
et brevitas d’amore tornato.
Leale (quindi opposto all’astro) se celebra appunto la nostalgia delle case abitate e l’amore. E di nuovo:
Creanza d’aprile
riparata sui racemi dei lillà
effondi pulviscoli odorosi
lacerti di ere turbinanti…
lasciando percepire la preferenza per le stagioni dalla natura rinascente e calorosa con i loro profumi. Nella poesia dedicata a Vittorio Sereni, leggiamo: «Di vago fragrante si diffonde/ l’osmanto tra il duro verde// d’amaritudine pungendo/ aereo il destino d’ottobre» e di nuovo, con le echeggianti sonorità di aria : scarna (contrapposto all’estiva, pesante e piena) zoomorfo : frusto…
Basterà l’aria levantina
selvatica e scarna di oggi
sull’iperbole stesa del prato
il cielo di nubi zoomorfo
a specchiare l’incerta
profusione vegetale
imprimere cesura al frusto
mentre ad agresti lunari
ascendono canti alati.
Assieme alla primavera, all’aria e al celeste (dieci ricorrenze, con le sue variazioni cromatiche) in queste poesie domina la luce fin dalla prima: «nella luce il momento esalta» – «pura chiarità di salmo arioso» (sedici ricorrenze allargate a “chiaro” “luminanza” “splende” “oro”… “vennero corsiere di luminanza” – “tutto il foliage mi splende addosso” – “ora di fitto oro in festa” – “Flette il silenzio la misura dell’oro” […] L’orazione del fuoco in crepitio/risolve la brama ottusa/ gemma l’estrosa ora fausta”)…
Tutto coincide nella luce
occidua di ottobre fiammato
di nuovo al turbinante capriccio
sua specifica natura garante
la fratellanza dei mesi,
onore a loro sostanza
secondo agnizione
fine di circostanza.
I due versi finali lasciano supporre, che se l’elemento contingente richiede un’analisi, l’agnizione porta con sé – al contrario – un improvviso riconoscimento o la sorpresa, come abbiamo già visto per “l’abbaglio bianco di rosa canina” il cui verso è opportunamente staccato dai precedenti. Che qui non si tratti quasi mai di oscurità (“notte” o “notturno” e “sera” sono, mi pare, presenti solo due volte) bensì di luce, aria e vento, quest’ultimo con sette occorrenze, compreso Favonio… “vele nella squillante ora del vento” lo indica la poesia
Istruisce il chiaro
la scurità petrosa,
dispone la terra alla vela
risolta al viaggio per acqua –
tornata oggi la minuzia ventosa
da smisurato lontano.
L’ora misteriosa di gennaio
scollina lucentezza di stelle –
vezzo del primo Favonio
che arrischia in cielo e in terra
la virida voce errante,
pazzia delle rame gemmifere.
Perché anche dove compare, l’ombra è seguita dalla luce:
Sbriglia Mergozzo giù dalle cime
lusinga di ombre plananti
sulle morene dove la città
affonda sereni suoi romitaggi
d’incorollata luce aspersi.
Riguardo all’autunno con la sua profumazione, in “Di vago fragrante si diffonde” abbiamo:
Depreco ottobre
il darsi occiduo
appena la luce si fa bella
specchia vigori vegetali
la vocazione alle nostalgie
più remote dei tuoi passi.
ma anche:
Ora l’equinozio di autunno
colmerà di vaghezza incendiata
ogni foglia dell’albero amante
l’ispirata vaganza dell’aria
l’offerta corona della sera
caduto il regno dell’astro assoluto
nell’idioma stordito dei fiori.
D’altra parte, se oro e rosso (assieme a “ruggine”) hanno occorrenze ridotte in confronto a luce, foglie, rami e fiori legati ai mesi in ascesa, l’autunno è l’unica stagione in cui il declino sa incendiare le foglie dell’“albero amante” (cioè dei propri organi vitali) l’“ispirata vaganza dell’aria” e “l’offerta corona della sera” anche se gli ultimi due versi – distanziati per l’irrompere di un pensiero critico – introducono l’idea della caduta (l’astro declina) e la lingua stordita dei fiori dovuti al passaggio dalla piena solarità a quella riflessa dalle foglie d’oro.
Benché Adriana Gloria Marigo sia donna di mare, ha insomma saputo riconoscere i doni del lago, rendergli omaggio, offrirgli le corone delle sue complesse composizioni e farlo a sua volta esprimere. Un omaggio ha desiderato anche rendere al pittore Franco Rognoni con la figura in copertina: La donna del lago, gentilmente concessa da Stelio Carnevali.
Silvio Aman
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