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foto di Loredana Semantica
Alla vita
La vita non è uno scherzo.
Prendila sul serio
come fa lo scoiattolo, ad esempio,
senza aspettarti nulla dal di fuori o nell’al di là.
Non avrai altro da fare che vivere.
La vita non è uno scherzo.
Prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che messo contro un muro, ad esempio, le mani legate,
o dentro un laboratorio
col camice bianco e grandi occhiali,
tu muoia affinché vivano gli uomini
gli uomini di cui non conoscerai la faccia,
e morrai sapendo
che nulla è più bello, più vero della vita.
Prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che a settant’anni, ad esempio, pianterai degli ulivi
non perché restino ai tuoi figli
ma perché non crederai alla morte
pur temendola,
e la vita peserà di più sulla bilancia.
Siamo sempre col cellulare in mano, ma questo non sempre è un male, giusto qualche giorno fa eravamo in due in macchina su una provinciale ancor più a sud della mia città, avvolti dall’imbrunire suggestivo di un tardo pomeriggio siculo. Lui guidava, io cazzeggiavo al cellulare. Più o meno in prossimità di un passaggio a livello in sosta in attesa del passaggio del treno, vicino alla casa cantoniera, fermi a sinistra dei “pali di ficurinnia” piantati improvvidamente sul ciglio della strada, allora proprio allora, dallo schermo del telefonino è balzato fuori questo testo di Hazim Hikmet, come la poesia sbuca dal silenzio.
Lo leggo e lo trovo bellissimo, sento il bisogno di leggerlo al mio compagno che, a sua volta, lo trova bellissimo. L’esito dello scambio di opinioni è questa forma alchemica. “Forma alchemica” è la rubrica del blog Limina mundi nella quale rendo omaggio alle poesie che realizzano la perfetta alchimia di suono e senso, come spiego meglio qui.
Dal punto di vista formale il testo si compone di tre strofe, alcune frasi sono usate come un refrain “la vita non è uno scherzo” e “prendila sul serio”. Costituiscono il primo e secondo verso della prima e seconda strofa. “Prendila sul serio” introduce la terza strofa. Queste espressioni usate sono colloquiali, il poeta infatti si rivolge a un tu al quale parla, producono l’effetto di avvicinare il testo a una conversazione e di avvicinare l’interlocutore all’ascoltatore.
Nella prima strofa compare uno scoiattolo che non ci si attende dopo un inizio che promette una chiave di lettura della “vita”, ciò provoca un piccolo effetto sorpresa. Lo scoiattolo vuol essere un esempio, il riferimento a una creaturina che vive senza attese e pretese, un animaletto del bosco, ma avrebbe potuto essere un pesce nel mare, un uccello nel cielo, un giglio del campo. Esseri che non vivono nell’ansia del domani dell’oltre o del dopo, ma nel presente e semplicemente.
In questo pensiero poetico si avverte una singolare sintonia con il pensiero cristiano. Sovviene il passo del Vangelo Mt 6,25–33 nel quale le parole di Gesù sono un invito ad affidarsi alla benevolenza celeste, alla grazia che soccorre sempre anche qui chiamando in causa le piccole creature. Parole che sono di speranza nell’ansia e nell’affanno.
«Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? 31 Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” Mt 6,25–33 |
Ora siamo dentro una pandemia che spegne entusiasmo, iniziative, socialità. Leggere questo inno alla vita produce un particolare effetto di apertura e libertà. Regala un respiro di sollievo. Tocca le profondità.
La seconda strofa è dedicata al sacrificio estremo di quegli uomini che muoiono per altri uomini, per la loro libertà, davanti a un plotone d’esecuzione, o in un laboratorio di ricerca, gli occhi sui vetrini e provette a consumare la vita o a perderla per la salvezza di altri.
Anche questa strofa in questo momento storico assume un significato particolare, perché omaggia il sacrificio degli uomini di scienza, e ce ne sono, ne abbiamo visti, ma molti di più sono quelli che non vediamo, quelli dei quali non sappiamo, che i giornali non mettono in prima pagina o in un articolo per ottenere visualizzazioni, che non sono figure da copertina o disponibili all’esposizione, ma piuttosto esseri autentici e sconosciuti, sofferenti e determinati. Coraggiosi. Per tutti penso alle decine e decine di operatori sanitari morti sul campo di questa infausta pandemia. Di certo non l’avrebbero voluto. Come uomini e donne messi al muro.
Per l’ultima strofa ritorno per un attimo alla premessa raccontata sopra, chiarisco che quella raccontata non è la prima volta che leggevo questa poesia di Hikmet, già in passato l’avevo apprezzata, ma le circostanze erano diverse.
Quella sera di cui racconto avevamo lasciato alle nostre spalle un rettilineo che attraversa distese di uliveti. Ulivi annosi e contorti. Le foglie luccicanti d’argento. I polloni rigogliosi. Alberi fruttiferi e maestosi. In cima a questo post la foto di uno di essi. La chiusa del testo è un focus su vita, morte e ulivo. Quest’ultimo è un albero di alta valenza simbolica. Innanzitutto per le sue caratteristiche. La sua longevità fino a diventare albero secolare. La duttilità del tronco che si contorce per l’azione del vento, diventando una sorta di scultura viva. La capacità di sopravvivere in terreni aridi, sassosi e scoscesi, aprendosi la strada con le radici verso il suolo. Quella ancora più sorprendente di resilienza. E’ capace, distrutto da un’incendio, di gettare ancora polloni dalla ceppaia. Ama la luce, il sole, soffre il freddo e l’ombra. Il frutto che regala, buono in sé da mangiare (opportunamente trattato), è utile per produrre l’olio, prezioso nella cucina e nell’alimentazione. L’olivo era considerato sacro dai Greci, è simbolo di pace e rinascita. Dopo il diluvio per segno dell’emersione della terra una colomba porta a Noè un rametto d’ulivo. E’ simbolo di riconciliazione tra il divino e l’umano. Lo stesso olio che si estrae dall’oliva per la religione cristiana, una volta benedetto, è il crisma con cui si segna il cresimando, che si somministra agli infermi nell’estrema unzione.
Piantare ulivi a settant’anni è un gesto di resistenza alla morte, è la speranza di vederli crescere, il segno della continuità della vita, la consegna di questo spirito combattivo e anelante a una pianta che con ogni probabilità ci sopravvivrà.
L’ultimo aspetto che intendo rimarcare nella poesia e del suo legarsi singolarmente al nostro tempo richiede di riportare in breve gli aspetti salienti della vita dell’autore.
Nazim Hikmet viene detto spesso poeta turco, ma non mi sembra che questa nazionalità turca lo vesta perfettamente. Egli nacque a Salonicco, in Grecia, nel 1901, il padre era un diplomatico turco, la madre era una pittrice di nazionalità polacca. Nazim appena ventenne dovette lasciare la Turchia per ragioni politiche avendo pubblicamente denunciato il genocidio armeno. Si recò a Mosca dove maturò la sua formazione politica comunista. Tornato in Turchia nel 1928 per le sue idee comuniste, antinaziste e antifranchiste fu carcerato per cinque anni, poi liberato e nuovamente perseguitato, torturato e carcerato come sovversivo dal governo turco nazionalista.
La condanna inflitta era a 28 anni di detenzione, Hikmet ne scontò 12, dal 1938 al 1950. Nel 1950 fu liberato a seguito di uno sciopero della fame di diciotto giorni che compromise la salute del suo cuore e grazie a iniziative di solidarietà internazionale da parte di artisti e intellettuali.
Una volta libero, scampato a due attentati, fu costretto all’esilio, separato da moglie e figlio, in quanto il governo turno non permise loro di seguirlo. Nazim rinunciò alla nazionalità turca nel 1951, e, come rifugiato politico, acquistò quella polacca, la stessa della madre.
Egli visse poi soprattutto a Mosca, dove fissò la sua residenza e dove morì il 6 giugno del 1963, stroncato da una terza e fatale crisi cardiaca.
Hikmet scrisse la poesia “Alla vita”, proposta in questa forma alchemica, nel 1948, mentre era in carcere. Anche lo stato di prigionia del poeta aggiunge valore al testo. Nel leggerla proprio adesso non si può non correlare lo stato di costrizione in prigionia dell’autore alla particolarità del momento che viviamo e che ci costringe nelle case molto più di quanto desidereremmo. Anche se la detenzione è su basi diverse, lì imposta dalle sbarre punitive, qui dalle disposizioni e sanzioni, ma in sostanza dal buon senso a tutela della propria e altrui salute, sentirla risuonare come un canto di profonda libertà, pensare alla prigionia del suo autore, legge e rilegge in qualche modo il sentire del nostro tempo, lo rielabora, lo distende.
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