
‘Escape from reality’ by Julie de Waroquier.
«Chi non ha sofferto non sa niente; non conosce né il male, né il bene, non conosce gli uomini, non conosce se stesso.», in Le avventure di Telemaco
François de Salignac de La Mothe-Fénelon
(Sainte-Mondane, 6 agosto 1651 – Cambrai, 7 gennaio 1715)
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«Molti sventurati furono fatti poeti dall’ingiustizia patita. Impararono soffrendo quanto insegnano cantando.»
Percy Bysshe Shelley
(Field Place, Sussex, 4 agosto 1792 – mare di Viareggio, 8 luglio 1822),
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«Io ricevetti il dono della sofferenza e divenni poeta.»
Henrik Ibsen
(Skien, 20 marzo 1828 – Oslo, 23 maggio 1906)
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«Il dolore è una di quelle chiavi che servono ad aprire non solo i segreti dell’animo ma il mondo stesso. Quando ci si avvicina a quei punti in cui l’uomo si mostra all’altezza del dolore, o superiore ad esso, si accede alle sorgenti della sua forza e al mistero che si nasconde dietro il suo potere.»
Ernst Jünger, Sul dolore, Foglie e pietre
(Heidelberg, 29 marzo 1895 – Riedlingen, 17 febbraio 1998)
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«Le sono successe più cose di quante ne accadano a molti. Non ha reagito a tutto ciò con rabbia e neanche con tristezza. Però c’è in lei uno sguardo forte, duro, che sconfina con l’ira. L’oscuro universo di una donna in cui il risentimento per essere stata presa di mira dal destino si mischia con l’orgoglio per essere riuscita a passarci dentro senza annegare.»
Banana Yoshimoto, in Amrita
(Tokio, 24 luglio 1964)
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Nel cercare un aggettivo da apporre al sostantivo “esperienza” ho ritenuto efficace numinoso, poiché il termine è sia sostantivo sia aggettivo: il lemma tedesco numinos derivato dal latino numen –con il quale si intendeva la presenza del divino e un cenno espressivo del capo – è stato creato nel 1917 dal teologo e storico delle religioni tedesco Rudolf Otto e si riferisce «all’esperienza peculiare, extra-razionale, di una presenza invisibile, maestosa, potente, che ispira terrore ed attira: tale esperienza costituirebbe l’elemento essenziale del “sacro” e la fonte di ogni atteggiamento religioso dell’umanità».
Vi è qualcosa nel dolore – sia fisico, sia psichico o nell’associazione di entrambi –, nella percezione di esso, che incute spavento, richiama e concentra l’attenzione, incrina la speranza o l’esalta in un atto di volontà straordinaria a superare il perimetro della sofferenza, ad appropriarsi della guarigione, a creare immagini mentali, inventare abitudini di vita inconsuete, svestendosi delle acquisite per raggiungere lo stato di benessere, ritrovare la salute. Se il dolore del corpo richiede interventi, terapie, riabilitazioni, modifiche di regimi alimentari e comportamentali, i segni del dolore – ciò che esso comunica degli organi –, la diagnosi, sono gli elementi necessari indispensabili per la ricerca della guarigione o di uno stato di equilibrio che affranchi dal dolore: questo è un processo creativo cui sono sottesi sia l’osservazione scientifica, sia il pensiero immaginale, ossia quella scintilla dell’intuizione più alta – l’analogia – che induce a individuare sia la causa, sia la terapia del dolore: questo processo di guarigione avviene nell’appropriazione dell’alfabeto della creanza: ho preferito questa espressione poiché, se il dolore ha in sé gli elementi indicativi per la trasformazione di esso, il termine poetico “creanza” esprime il fluire dell’ingegno e il riguardo che si pone nella cura, più del termine “creatività” che risuona come qualcosa di concluso, recintato, definito.
Il poeta e critico d’arte Gian Ruggero Manzoni, qualche anno fa, scrivendo del dolore, consegnò una frase che nella sua essenzialità individua il senso di quanto cerco di chiarire: «Il dolore fisico ci ricorda che siamo materia, ma quello morale che siamo spirito: energia cosciente, divenuta materia». Dunque, l’Autore vuole significare l’esistenza di una sola energia – energia cosciente – che informa la complessità del vivente e si manifesta sotto la forma che attiene all’organismo interessato: il soma la manifesta come materia fisica attaccabile dalla malattia e dal tempo, la psiche come materia di pensiero che a sua volta può incontrare, conoscere gli abissi della sofferenza.
Il poeta Evaristo Seghetta pubblicò un interessante libro dal titolo Morfologia del dolore: impiega due termini che sono della lingua comune e, al contempo, uno di essi, della lingua specialistica: “morfologia” è la parola coniata nel 1785 da J. W. Goethe per indicare l’anatomia comparata: ora noi l’usiamo tanto in biologia, quanto in geografia fisica, quanto in linguistica. Non è un caso dunque che sia l’uomo di scienza, sia il poeta, possano impiegare la stessa parola con medesima significazione, pur in ambiti diversissimi: ciò suggerisce l’idea che esista un aspetto essenziale, un elemento primo, una sorta di frattale che accomuna tutte le discipline, le pone in dialogo e dal momento che l’uomo intuisce, analizza e accoglie questa intrinseca natura può dare avvio alla creazione di una realtà che modifica o supera la precedente.
Il dolore quindi mostra questo volto grandioso che guarda sia alla dimensione “sensoriale”, sia alla dimensione “spirituale” e come un ponte congiunge le due rive che sostengono lo scorrere della vita, la struttura umana: il soma e la psiche, e in virtù delle loro funzioni possiamo dire con Claudio Widmann che «Al di là del sensoriale s’estende l’immaginale».
Chi attraversa i territori oscuri, carichi di presagi indecifrabili, sconfortati, sconfortanti del dolore, non di rado parla di tempo straziato in termini di impotenza o di sfida contro un inaccessibile nemico, o sente di essere immerso entro un sovramondo di cui non conosce l’accesso, né l’uscita, sentendo il mondo reale senza possibilità, distante, dissolto da ogni certezza conosciuta, da ogni riferimento e paradigma di sicurezza, perduto l’orientamento abituale e tutto da costruire intorno al nucleo dirompente del dolore. Il poeta e l’artista conoscono bene questa atmosfera, poiché vivono come se la sensibilità neuronale fosse al grado esponenziale e la struttura sentimento – ragione programmata per raccogliere il discorso analogico che il dolore fisico o psichico o entrambi, tenta di inviare alla comprensione, alla creanza, come se essa fosse la sola e sovrana natura capace di trasferire in parole o immagini i contenuti del dolore. L’arte in genere, la poesia in particolare, poiché si fonda sulla oralità e sulla grafia – le espressioni prime e immediate degli umani – sono i campi prediletti in cui il dolore può emergere in tutta la sua forza comunicativa, poiché trova colui che di esso può dare testimonianza.
Anna Rice non è una poetessa, è una scrittrice statunitense, ma da lei giunge una riflessione chiarificatrice sulla potenza del dolore: «Si tratta di una verità spaventosa: il dolore può renderci più profondi, può conferire un maggiore splendore ai nostri colori e una risonanza più ricca alle nostre parole. Questo avviene se non ci distrugge, se non annienta l’ottimismo e lo spirito, la capacità di avere visioni e il rispetto per le cose semplici e indispensabili.»; «una risonanza più ricca alle nostre parole»: questo è sia il modo in cui il poeta tenta di consegnarci la connotazione tragica del mondo, sia il risultato della creanza che trova la materia indispensabile nelle zone in ombra della psiche, laddove s’accumulano le scorie delle esperienze, ossia i resti dolorosi, ambigui, irrisolti, nodi drammatici o angosciosi della vita che nega sottrae o non riconsegna il dovuto, l’atteso, il bene che ci spetta.
Giuseppe Ungaretti, nella sezione poetica L’Allegria che accoglie i testi scritti in Carso durante la prima guerra mondiale, include una poesia che ha titolo Il porto sepolto: in certo modo è la sua dichiarazione di poetica, e indica il luogo in cui giunge il poeta e risale alla luce «con i suoi canti/ e li disperde». Ora, la metafora bellissima consta di un porto che però è sepolto: il poeta vuole significare un luogo fluido che tuttavia è seppellito e dunque contiene reperti, scheletri d’imbarcazioni e umani, tesori andati perduti in naufragi: è dunque il luogo dove consiste il dolore scaturito dal dramma del naufragio, dove la memoria dell’acqua conserva le vestigia dell’accaduto, gli oggetti che facevano parte della vita delle vittime dell’acqua, le merci del viaggio per mare: Ungaretti, con quell’immagine ci indica che è nelle profondità oscure fluide e tempestose che conservano e forse sono mentori del dolore che nascono i canti con cui risalire alla luce per disperderli, perché il canto della poesia, il suo sapere alchemico, deve diffondersi, andare lontano quasi dimentico di chi gli ha dato creanza, esistenza. La sezione che accoglie le poesie scritte tra il 1937 e il 1946 ha titolo esplicito Il dolore: nella poesia Tutto ho perduto i versi:
Disperazione che incessante aumenta
La vita non mi è più,
Arrestata in fondo alla gola,
Che una roccia di gridi
non hanno bisogno di commento, poiché il lemma disperazione ingloba e restituisce tutto il significante di un tempo in cui il dolore dello spirito, il dolore morale è parossistico.
Amelia Rosselli, poetessa tra le più alte del nostro Novecento, trasferisce in poesia la «scia di disperazione nata all’indomani dell’uccisione del padre Carlo e dello zio Nello nel 1937, in Francia, non lontano da Parigi, per ordine di Ciano e Mussolini.», «…un problema esistenziale profondo, ingovernabile, irrisolvibile. ( ) un tormento interiore che cerca di trasmettere all’esterno per averne un minimo di considerazione. Essa negò sempre di essere ammalata fisicamente (aveva, fra i molti acciacchi, il morbo di Parkinson) e rifiutò cure. La sua poesia è faticata, ripiegata su se stessa, orgogliosa e disperata. Sta in un labirinto, da cui non vuole uscire. Una poesia viva in sé, chiusa in sé, con lampi verso il cielo quasi involontari. È una poesia da leggere e rileggere per cercare di comprendere una autentica sofferenza.» (Dario Lodi).
La poesia di Amelia Rosselli si presenta come un «corpo poetico distopico, fatto di ridondanze, di lapsus», di parole «legate ad una pratica trilingue che non trova un baricentro.» (Rita Corsa) e specchiano perfettamente il «male irrimediabile» di cui è pervasa, di cui è consapevole e lucida attrice e spettatrice. In Variazioni belliche (1960-1961, p.317) scrive: «…/ Io pernottavo nel vuoto della mia/ribelle anima» e in La libellula da Serie ospedaliera, 1958:
E il delirio mi prese di nuovo, mi trasformò
stancata e ebete in un largo pozzo di paura,
mi chiamò coi suoi stendardi bianchi e violenti,
mi spinse alla porta della follia. Mi rovinò
per quell’intera durata e quel giorno intero.
Mi stese dispettosa a terra: incapace di muovere,
stanca all’alba, incapace a sera: e l’agonia
sempre più viva.
prima di compiere il gesto ultimo nel 1996, quando la speranza spiumata «…/ faticosa a mettersi insieme/ non ne vuol più sapere.»
Concludo citando un piccolo libro alla cui composizione partecipai nel 2013 in seguito al rinvenimento tutto casuale a opera del regista veneziano Daniele Frison mentre effettuava riprese sullo stato di degrado in cui versavano i padiglioni dell’ex Ospedale al Mare del Lido di Venezia di un quaderno contenente poesie manoscritte da pazienti psichiatriche. Il quaderno divenne il libriccino dal titolo L’isola senza età, ispirato dai versi anonimi:
In fondo, più in fondo l’isola senza età m’appare
sembra l’irreale isola che da tempo respiro nei miei desideri
so che sarei felice
fra le lievi ombre che s’alzano nella fonda notte
so che non avrei più età e più bisogno di farmi credere…
Curato da Antonella Barina e Daniele Frison con la collaborazione di alcune poetesse è un bene prezioso, poiché testimonianza della grande voce del dolore che sale dalle stagioni dimenticate a farsi parola, ritrovamento, restituzione. I testi che risalgono agli anni ottanta sono semplici, attraversati da errori grammaticali e ortografici, ma esprimono qualcosa di potente: il numen che presiede alla vita, la forza sacra e dirompente che rende ciascuno creatore della propria identità anche nello stato di esilio, un mondo interiore colmo di paesaggio che affiora mediante la parola, che non è solo manifestazione dolente della propria vicenda umana, ma significazione che tra il dolore e la persona che lo sperimenta esiste un nucleo creativo che urla per venire alla luce.
Adriana Gloria Marigo
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