
photo by Trini Schultz
Maccare
Quando l’aria degli alberi fu finita
gli animali della terra, del mare e della guerra
si trovarono una stanza infossata e inabitata
“Siamo un solo spirito” – disse il soffio
“Siamo un solo ritmo” – disse il battito
“Siamo un solo nodo” – disse il cappio.
Una sola stanza non bastò a contenere il tumulto rimasto,
lo scarto ammassato volle da subito definirsi distante,
i corpi s’allontanarono, s’infrattarono fino al costituirsi dei limiti.
Alloggiati in stanzette con serrature senza mandate, senza guardiani,
non insegnavano lo spavento dell’agguato ai teneri piccoli,
s’aspettava che l’ispezione cogliesse gli infatuati ansanti e indaffarati,
nulla si sa, nulla s’impartisce, la lezione è “Ci si nasconde”.
Ci si frantumerebbe in briciole per nascondersi meglio
“Io non so di te. Tu non sai di me”
Sussurravano i corridoi
S’impara velocemente, sì, ma tu, lettore caro, sai competere con la trasparenza?
Tu che hai un corpo che sarebbe intero anche senza pelle,
che potresti vedere anche senza muscoli,
con cui potresti ballare anche col solo pulsare delle vene,
le cui ossa resistono al secolare mangiare della terra,
competi tu, essere integro, con l’assuefazione.
Rifletti, carcassa pesante, e cammina fino all’ingresso della fossa,
li vedi? Si coprono di nero con un manto, intanto che aspettano la sorte,
dal muso alle zampe appannaggio di una sola nuvola priva di pensiero,
paiono covare essi stessi la propria attesa, come non volessero mollare la presa
di quella corda umida su cui siedono. I piedi penzolano lenti
su un ampio spiazzale che ha colore e consistenza di polvere,
il cui solco nel centro risuona come la cassa di uno strumento
monocorde. Sul filo erano in troppi, delle volte,
qualcuno cadeva, avrebbero dovuto legare altre corde,
ma il Bugiardo chiedeva il progresso, e questo s’identifica con lo spreco
che riempie le sue dita di gemme di plastica,
che permette ai suoi denti di cariarsi,
che leva ai pesci le alghe incontaminate,
che occlude anche ai sassi le radici.
Egli aspira ad un assoluto convesso che lo copra come in una bolla,
che lo sleghi dalle contingenze, un cielo di plexiglas, insomma,
per avvicinarsi alle forme mutate in velocità,
per avviarsi all’ordine del cerebrale,
alle liturgie del sé contenitore di statica sacralità.
Allora giù, dov’è freddo, strisciando per canne robuste dai suoni delicati,
per finire lontano dalla casa, ormai abitata.
La casa del sospetto ha stanze di colpa e di punizione:
come fossero chiavi della cintola di dio
gli inquilini scuciono la toppa per disporsi gelosi
ad origliare gelide presunzioni di fede
“Si discute di un temuto mercoledì delle ceneri”
“Ma mai arriva”
Intanto accumulano grasso e menzogne da disporre sotto i tappeti
perché l’assordante passo di dio non li colga dormienti
seppure non vissero che accumulando riserve e mai grazie,
riserve di chiassoso peccato, che li consolassero
dal bianco divino che appanna lo sguardo, ma non placa la voglia
di esser rovesciati ancora, e sporcati ancora.
Il bianco non sazia, il bianco lascia che il languore frema,
che il piacere aumenti finché
la porta si spalanchi
e dal grigio del lungo corridoio il pallore ansante invada gli anfratti
dov’è nascosto il marcio. Le sentinelle s’impuntano dritte
coi talloni sui bordi dei tappeti, perché a sbucare non sia la loro colpa
ma quella di chi, imperfetto truffatore, non ha saputo esser svelto.
E che scoppi la rivolta, che un capro deve sempre essere sacrificato,
che i virtuosi predicano ma disdegnano le suppliche,
quindi che il matto sia gettato giù
dal dirupo, come gli antichi
dalla forca, come le streghe
dalla piazza, come i lebbrosi
dall’Eden, come gli uomini.
Le chiavi
credono nella perpetua discendenza della creazione,
ricordano che tra chi fu generato, tu fosti posto nell’angolo del fosso
costretto in un basso putrido, i cui segregati non prestano servigio,
intanto i ciechi penitenti abitano in bilico nella fosca nebbia
che lo sfiatare di dio caccia,
egli appanna il cielo e i ciottoli
da cui gli obbedienti si coprono i piedi e le orecchie
perché i predecessori non li riempiano di graffi
richiamando all’attenzione gli spirti odierni:
Bisogna che ci sia un piccolo insetto,
magari deforme o magari pensante,
qualcuno che raccolga il peccato senza nasconderlo,
qualcuno cui non può essere rimesso il male
perché non cosparse la propria testa di ceneri.
Finì col racimolarsi di un uomo solo,
uno piccolo, dalla voce bassa e dalla testa china,
era spietato il suo dissenso ma inerme la sua pratica,
sicché lo presero senza che strillasse l’ingiustizia del torto,
“Non si urla a un dio bugiardo che mente.
Io gravito impermalente tra le orbite altrui,
mi sottraggo al verso, esattamente come il nero è tale
perché rifiuta in apparenza gli altri colori.
Io non chiesi mai di aprire la serratura,
non si può chiedere una quiete che non si è provata…
ma capitò di spiare, e la delizia fu troppa,
al di là lo squallore si annulla e il declino si spiega.
Io non saprò, so che non saprò, distanziarmi da chi mi tarpa,
per ingordigia, per timore, o per devozione alla sottomissione,
io starò qui perché i cretini possano vedere nel mio sacrificio
il Bugiardo che si nasconde”
Che si sa –annuncia uno squilibrato- il male è male,
va fatto, ma che non si dica, che non si sappia.
La perversione non è degli atti ma della parola
di chi la professa con la lingua linda dallo squallore,
che fu solo di chi, bugiardo, disse no,
che si sa:
chiudono gli occhi nell’aldilà.
Zahira Ziello
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