
Dorotea conobbe Lucy nel 1969 alla colonia estiva montana di Gambarie in Aspromonte. Gemma, la mamma di Gisella e Dorotea preparò i bagagli delle figlie in vista della partenza per la Calabria. Gemma aveva cucito per loro freschi completi da viaggio. Comodi bermuda azzurro cielo e camicette a fiori pastello primavera. Il bagaglio era tutto in una sacca di tessuto, secondo le istruzioni. Sulla sacca erano applicate tessere di tessuto bianche, ciascuna con una lettera ricamata sopra in filo rosso, accostate a comporre i rispettivi nomi. Su ogni capo di intimo, asciugamani e magliette erano cucite simili tessere che componevano il numero di matricola assegnato. I numeri erano assegnati nella raccomandata con la quale l’E.N.P.A.S. comunicava ch’era stata accolta la domanda per l’ammissione alla colonia estiva e servivano ad associare l’indumento alla persona titolare di quel numero per non disperdere i capi al momento in cui venivano lavati insieme a quelli degli altri compagni. La partenza avveniva da Piazza Adda in pullman gran turismo. Un cinguettare festante di bambini riempiva l’aria dalla prima mattina. Nel momento in cui i pullman si avviavano, tutti a salutare con la mano, a mandare baci. Qualcuno si commuoveva.
Cominciava la vacanza vera. Già il viaggio era un divertimento. Canti, senso di avventura e libertà, giochi e risate. A Dorotea piaceva affacciarsi al finestrino e sentire l’aria schiaffeggiarle il viso, spettinarle il capelli. Il fiato mozzato dalla forza del vento.
Arrivavano a Gambarie all’imbrunire. Spesso completamente afone per aver speso tutta la voce possibile. L’edificio che le accoglieva era grande, su tre piani, aveva muri esterni giallo chiaro, elementi in rilievo col color crema e grandi finestre. Un aspetto architettonico indeciso tra un castello e un albergo. Il corpo dove si apriva l’ingresso, con le sue scale semicircolari e gli infissi in legno e vetro, sporgeva sul grandissimo cortile ricoperto di pietrisco.
A destra e a sinistra, come ali, i restanti corpi dell’edificio. Tutto intorno alla costruzione e al cortile alberi. Ai piani superiori le camerate dove i ragazzi sistemavano le proprie cose: un comodino ciascuno, un armadio in comune a gruppi di due o tre. Maschi a sinistra femmine a destra nelle due ali dell’edificio. Rigorosamente separati. Poi c’erano il grande salone mensa, lunghi corridoi, seminterrati con le docce, infermeria, cappella e cucine. In un edificio più piccolo aggregato c’era la lavanderia. Tutti i ragazzi della colonia venivano forniti di una sorta di divisa: una gonnellina di tessuto tipo jeans leggero per le bimbe, pantaloncini per i ragazzi, per entrambi camicia azzurra, un maglione di lana blu, un cappellino modello marinaretto blu. All’interno del cappello, foderato di garza, occorreva scrivere il nome per evitare di perderlo o confonderlo con quello di altri.
All’inizio dei venti giorni di vacanza i bambini venivano controllati nel caso avessero i pidocchi. Era il momento in cui Dorotea aveva la sensazione d’essere un vitello da ingrassare. Uno per uno, dopo l’attesa in fila ordinata, entravano in infermeria, lì erano pesati e misurati in altezza. Un altro controllo veniva fatto a metà della vacanza e l’ultimo prima di tornare a casa.
Gambarie era immersa nei boschi di faggio, larice, abete bianco e di tutta la vegetazione montana dell’Aspromonte, il centro abitato di poche case disposte attorno alla piazza, dove c’erano pochi negozi, tra i quali uno di souvenir dove acquistare le cartoline da mandare ai genitori e parenti.
Anche in piena estate il clima era fresco, la sera occorreva una coperta leggera. La mattina suonava la sveglia alle 7,30. Nei bagni i lavandini erano bianchi ampi e circolari, vasche rotonde di ceramica con un cilindro centrale dal quale sporgevano i rubinetti. Da questi usciva un’acqua fredda da far rabbrividire. L’acqua calda c’era e non c’era, nel senso che prima che arrivasse ai rubinetti percorrendo i tubi, i più avevano già finito la toilette. I gabinetti alla turca erano quanto di più scomodo per i bisogni e inquietante per lo spirito, con quel buco grosso al centro che s’affossava nel nero profondo e finiva chissà dove. La giornata iniziava con tutte le squadre, così come si erano formate all’arrivo, distinte per sesso, schierate in ordine nel cortile per l’alzabandiera e l’inno. Una cosa piuttosto militare, ma che aveva un suo fascino. Composto e suggestivo Dopo, sciolte le righe, sempre sul posto un po’ di ginnastica del buongiorno.
La colazione di pane, burro, marmellata, caffelatte. I pranzi alla mensa erano niente male. A Dorotea piacevano in particolare le sogliole fritte in pastella e il pollo al forno. La cena era meno appetibile, spesso c’era pastina in brodo vegetale, per secondo un bel pezzo di svizzero o qualche fetta di prosciutto, verdure cotte e pane.
Dorotea dunque conobbe Lucy alla colonia estiva, non ricordava il momento preciso dell’incontro, ma nel corso della vacanza si accorse che la preferiva a tutte le altre compagne, non solo per giocare, ma perché sentiva ch’erano della stessa pasta, avevano gli stessi gusti, gradivano gli stessi cibi, gli stessi giochi.
Lucy aveva una sorella più grande Elena. Elena aveva gli stessi colori di pelle, capelli e occhi della sorella minore, un naso affilato, i capelli nella parte più alta aderenti alla testa, ondulati in punta, erano divisi da una riga centrale e sulla fronte tagliati a frangia. Elena era più grande, più alta, aveva già le forme di una donna e, ovviamente, altri interessi, i ragazzi innanzitutto e molti ragazzi s’interessavano a lei.
Lucy aveva anche un fratello Piergiorgio più grande di Lucy e più piccolo di Elena.
Piergiorgio era il ragazzo più corteggiato della colonia. Bruno di pelle e di capelli, un sorriso accattivante, denti bianchissimi, un bel fisico atletico, inoltre gentile, sorridente, disponibile anche con Dorotea.
Dorotea avrebbe potuto interessarsi a Piergiorgio ma per qualche ragione vederlo così desiderato e sentirlo, rispetto a sé, più grande, le faceva pensare che fosse del tutto fuori dalla sua portata. Anzi ancora più profondamente, Dorotea tendeva a stare lontano dai ragazzi. Li trovava strani, diversi. Lucy invece no. Lucy era bellissima. Una pelle ambrata perfetta, liscia compatta senza un difetto, gli occhi grandi verdi, due smeraldi nel viso. I capelli erano una danza di onde bionde. Del colore del sole, delle spighe dorate, accendevano il volto, splendevano di giorno, illuminavano la notte.
La vacanza in colonia scorreva in modo alquanto monotono, la mattina dopo la ginnastica e la colazione, passeggiata tra i boschi nei dintorni, tutti in fila per due ben accosti al bordo strada, alcune giovani maestre erano incaricate della sorveglianza e vigilavano ciascuna sul proprio gruppo composto da venti persone circa. Si cantava per ingannare il tempo durante il cammino, spesso i canti della resistenza oppure “Lo sciatore” o “La macchina del capo”, le preferite dai ragazzi. Sosta in qualche punto spianato e circoscritto per permettere il gioco. Ritorno agli alloggi. Dopo il pranzo e il riposino, altra passeggiata più breve, oppure visita a Gambarie o giochi nel cortile. Occasionalmente i Capigruppo organizzavano una giornata di giochi a squadre, tornei di ruba bandiera, partite di pallone per i maschi, la visione di un film nella sala di proiezione, gare canore nelle quali Lucy mostrava le sue doti perché era intonata e aveva una bella voce. Un giorno le chiesero di cantare il suo cavallo di battaglia, un successo del momento: “Un mondo d’amore” di Gianni Morandi.
C’è un grande prato verde
dove nascono speranze
che si chiamano ragazzi
Quello è il grande prato dell’amore
Uno : non tradirli mai,
han fede in te.
Due : non li deludere,
credono in te.
Tre : non farli piangere,
vivono in te.
Quattro : non li abbandonare,
ti mancheranno.
Quando avrai le mani stanche tutto lascerai,
per le cose belle
ti ringrazieranno,
soffriranno per li errori tuoi.
Grande interpretazione. Gli ascoltatori disposti tutt’intorno in cerchio applaudivano.
L’amicizia tra Lucy e Dorotea intanto cresceva, non con episodi particolari, ma nel quotidiano farsi compagna delle giornate di vacanza, per semplice vicinanza. Dorotea tuttavia si era resa conto che l’affiatamento con Lucy rendeva quest’ultima la sua migliore amica. Quando le era vicina si rallegrava, aveva voglia di scherzare, si animava. Sentiva che insieme avrebbero potuto essere una forza, un’alleanza. Nessuno avrebbe potuto spezzare il cerchio magico che le univa. Forte, luminoso, capace di allontanare amichette dispettose, noia, malumori e pericoli. Come i serpenti che abitavano il bosco e potevano saltare su da qualche mucchio di foglie o pietra, come le bacche che non bisognava mangiare perché facevano venire il mal di pancia. Come le macchine che passavano vicine o il burrone oltre il ciglio della strada. Una specie di talismano contro i tanti pericoli dei monti.
Dorotea e Lucy giocando inventavano storie fantastiche dove l’immaginazione galoppava tra fate, cavalieri, draghi da sconfiggere, oppure di ordinaria quotidianità di genitori, figli scuola, cucina. Terra, foglie, pietruzze e fili d’erba erano d’aiuto per preparare le pietanze da impiattare. Con i grani che crescevano sulla pagina superiore della foglia di un arbusto montano fabbricavano bracciali e collane. Queste escrescenze vegetali avevano le dimensioni di un chicco di farro e la particolarità di diventare col tempo legnosi, un canale naturale nel senso della lunghezza li rendeva sostanzialmente cavi, si prestavano perciò ad essere inanellati in collane. Le ragazzine li chiamavano “coralli” e c’era tra loro un fitto scambio di questi “preziosi”.
Verso la fine della vacanza ci fu un colpo di scena. Arrivarono i genitori di Lucy. Erano venuti a trovare i figli, ma visto che mancavano due giorni alla fine della vacanza, avevano deciso di portarli via con loro. Dorotea si dispiacque molto di non poter fare il viaggio di ritorno con Lucy, ma avendo scoperto che proveniva dalla stessa sua città le chiese il numero di telefono e le scrisse il suo su un biglietto, con la promessa reciproca di sentirsi.
La cosa più singolare per tutti però fu vedere piangere Elena, davvero scossa da questa frettolosa partenza. Per intercessione delle vigilanti si ottenne che Elena al di fuori delle regole della colonia si recasse pochi minuti nel dormitorio dei maschi per salutare Marco. Dorotea non conosceva gli intrecci relazionali tra i ragazzi più grandi e non capì il perché di tanta commozione. Cioè non le sembrava possibile che qualcuno potesse affezionarsi così tanto a una persona da giungere alle lacrime.
Pochi giorni dopo il ritorno a casa dalla vacanza Dorotea decise di telefonare a Lucy. Dapprima al numero che Lucy le aveva dato non rispondevano affatto. Lucy pensò ci fosse un errore e volle controllare sull’elenco telefonico, senza esito. Doveva essere un numero segreto. Poi finalmente ad un successivo tentativo qualcuno rispose, era Piergiorgio, ma le disse che Lucy non c’era, un’altra volta rispose Elena, tuttavia Lucy non la richiamava, sebbene Dorotea lasciasse detto di farlo. Provò a chiamare un’altra volta, un’altra ancora, fino a quando sentì con le sue orecchie dall’altro capo del telefono proprio la voce di Lucy dire alla sorella di riferirle che era uscita.
Dorotea capì, o meglio non capì, fu la sorella maggiore Gisella a spiegarle che Lucy non la voleva più per amica. Dorotea continuò a non capire, ma imparò il rifiuto. Continuò a non capire per anni e anni. Si era convinta che Lucy fosse di una famiglia altolocata, che non poteva coltivare amicizie ordinarie. Una specie di contessina o principessa, la figlia di un agente segreto o di un altissimo funzionario.
Ogni tanto, mentre diventava una giovane donna amabile e graziosa e poi madre e poi adulta, mentre invecchiava, ripensava alla vicenda. Continuò a non capire, e nonostante il tempo passasse, non trovò risposte o soluzioni. Non incontrò più Lucy. Come se non vivessero nella stessa città. Gli interrogativi stagnarono nella mente senza risposte. Si chiedeva quale fosse la macchia, la mancanza o l’errore che aveva commesso, cercava un possibile perché, ma si rendeva conto che tutti poi convergevano in una sola domanda, come una spina: in quale universo si fosse disperso, in quale anfratto si fosse nascosto il suo “mondo d’amore”.
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