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«Lorenzo Pataro è nato nel secolo sbagliato, o migliore di tutti a seconda dei punti di vista, per offrire la sua voce di poeta radicale. La sua è una parola di luce e vertigine, di visione e tragedia. È poesia. Autentica. Che se ne frega dei secoli e dei regnanti». Daniele Mencarelli

Potremmo dirci salvi soltanto
tra il freddo delle mura nella casa
di campagna, nell’aperto grido dello spazio
salvi soltanto nel vecchio pagliaio
diroccato incontro alle tele impolverate
nella luce sotto il melo o fra le tegole
spostate, umidi sui greppi o tra le fronde
pronti a gettarci come semi nella terra
salvi come scarti – come la scorza del frutto
spellata dalla lama.

Insegnami la quiete delle gazze
di vedetta sui cipressi
e recita al contrario rovesciati
tutti i salmi che conosci
come fosse un cifrario per il volo,
impara dal silenzio tra i richiami
il segreto di ogni correre in picchiata,
posa la tua insonnia e la tua febbre
– di pane che lievita la notte –
sulle tegole spostate dalla pioggia
e aspetta che ogni passero
spezzi l’ala come un’ostia contro il vento
che ripeta in ogni verso
il miracolo dell’uva che fermenta
ciò che ha visto da lontano
ciò che brilla tra la rena del torrente
e nel raduno dei frammenti nel suo nido
scopre qualcosa che non sai, che non cerchi,
che punge quando dormi nelle scapole
ferite dal respiro troppo umano.

Una fibra di legno rovente tra i passi – la senti? – fa eco ai resti dei merli sotto la terra, chiama e spalanca o dilacera un nome, lo gira sciamanico leggero sul palmo, batte il tamburo, evoca uno spirito antico, il canto lacero delle balene – l’amu leto di pietra che pende dal collo stacca la pelle, scopre il magma perduto, la punta sottile che riga e spolpa le ossa da gli ultimi resti di carne e si macera il gelo (o la nebbia) coi fuochi accesi dai ragazzi a notte sulla riva del fiume e il tonfo di qualcosa che cade dai rami del pioppo nero lucente sveglia un bambino scomparso che dorme nella tana viscerale dei tassi e il tuo occhio che pulsa caldo di febbre è il richiamo del bosco alla fuga o alla resa.

Se dico casa, non avrai riparo. Se dico pane.
Se dico grano tu lieviti e ti spalanchi nel mio nome.
Siamo nati. “Alberi case colli per l’inganno consueto”.
Se dico àncora, mi abissi. Siamo nati.
Gettati in un nome verso un nome.
Se dico tetto mi scoperchi, se dico cielo
mi nevichi e mi scardini dal corpo.
Con la grazia dei vulcani. In quello
stare delle cose illuminate per sé stesse.
Se dico sillaba, fonemi si sparpagliano
e poi il gelo li ricuce, li spoglia
e fa nuda la parola, esposta
e divina come un barbaro in esilio.
Adesso. Se lo dico, già è passato.
Siamo nati. Gettati in un nome verso un nome.

Stella di grafite, ti ho gettato
tra le onde, lieve combustione.
Luce primitiva, fammi iena
fammi aratro, braccato
nella nebbia. Luce-grembo.
Ti ho gettato in tutti i pori
nascita ulteriore, dono dei relitti,
fatica del restauro, sapiente oro.

Entriamo nella nebbia dei corpi,
siamo fari, ci arriva fino al petto, tutta
intera proprio adesso la nostra
debolezza scorticata come i lupi
dell’inverno insieme a quello stare sulla soglia
dove ognuno è la propria nostalgia, quel
momento proprio quello in cui tutto arriva
allo scoccare delle ore, quella voglia
quella furia che divide le frontiere,
ci arriva al midollo e ci attraversa
ci unge della fame che hanno i cani,
ci arriva improvviso come il sale
nell’arteria di uno scoglio quel respiro
che solleva la marea e ci battezza.

Capire che l’Altro è una fiamma:
se la tocchi col dito
o la spegni o ti bruci.

Dicono che ci passerà, questa pigrizia viscerale, il male è ovattato nella stanza, non sentiamo aria respirare nemmeno da una mosca, dicono che il seme disperso ha causato nascite improvvise, lì fuori, la finestra ha favorito il passaggio dei cromosomi, abbiamo bevuto tutto il nettare dai seni sospesi di Madre-Noia, dicono che non resta altro se non piangere, spingere fuori la gioia dalle zampe – come un animale – e dargli un nome, sentirla urlare.

Quanto siamo transitori. Da un buio
verso un altro, piccoli graffi di luce.
Ferite che brillano, schegge nell’aria.
Braccati, con le fiaccole spente
dal vento. Piccole scie. Di una parola
soltanto, dilla adesso, adesso che hai
un altro nome. Benedetto il tuo bacio,
benedetto il tuo fuoco, benedetti gli astri
del corpo, benedetto il grano nel capo,
benedette le mani, le braci negli occhi,
benedetto il tuo passo di neve, benedetto
ogni singolo soffio, ogni gioia che arde,
benedetto ogni sguardo lasciato, benedetta
ogni ora negli anni a venire, benedetto
il nome che hai ora, benedetto sia
tutto il creato celeste in cui voli,
benedetto il tuo amore che è sparso
nel cosmo, benedetta ogni fibra leggera,
ogni spina, ogni graffio, ogni fiamma
riaccesa, splendore di quarzo, miracolo
d’acqua, benedetto ogni seme gettato,
benedetti i germogli, il miracolo, il dono
di esserci stata.

Lorenzo Pataro (Castrovillari, 1998) ha pubblicato la raccolta di poesie Bruciare la sete (Controluna, 2018). Sue poesie sono state pubblicate su ri – viste e blog come Atelier, Interno Po – esia, Poesia del nostro tempo, Clan – Destino, Il sarto di Ulm – bimestrale di poesia, sul sito ufficiale di poesia della Rai (Poesia, di Luigia Sorrenti – no), sul quotidiano La Repubblica. Ha vinto i premi “Ossi di seppia” (2021) e “Poeti oggi” (2022)