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Passiamo una vita intera a cercare il senso”, risponde sdegnata “Io non perdo il mio tempo / d’eternità in ricerche impossibili”, e poi sprezzante aggiunge “Solo gli uomini si ribellano / all’appartenere alla stirpe / di coloro che non sanno

La poesia non cerca significazioni, ma senso, il senso che c’è a vivere dice Bonnefoy. E sia è il libro a cui Grazia Procino ha affidato il senso della ricerca e della conoscenza. Come Ulisse del nostos, uno dei miti più attuali tra tutti quelli ereditati dalla cultura antica, simbolo dell’umanissimo desiderio di ritorno alla casa e di quiete, l’autrice esprime la ricerca intellettuale che spinge l’uomo a procedere sul cammino della storia o su quello più strettamente individuale dell’esistenza personale come esperienza di sé e come scoperta di nuovi orizzonti umani. Un progetto artistico preciso e coerente che si propone e si sviluppa in tutta la sua complessità sulla spinta di una straordinaria capacità immaginativa e di un personale impulso visionario al senso dell’esplorazione che può e deve vivere dentro di noi, orientato sulla concretezza del presente e sulle dinamiche che inglobano anche valori e i sentimenti privati di tutti. “Siamo uomini in preda all’abisso / dell’angoscia, nuovi Odisseo, che / rinunciamo all’immortalità”(p.17). È incontestabile non solo la singolare capacità dell’autrice di esplorare il mondo antico facendoci penetrare in quel luogo dello spirito dove l’autrice evoca Itaca e personaggi mitici (Penelope, Sirene, Ciclopi, Circe, Nausicaa, Odisseo) tutti rimasti nella memoria della Procino, restituendoci l’andamento musicale anche della lingua di Kavafis in un gioco di interscambio tra passato e presente sul filo comune che salda la vita nel suo insieme. Ma spesso vivere è anche doloroso per le insidie, emblematicamente rappresentate dalle sirene e il viaggio è solitudine dell’individuo in una società alienata dove a molti non è garantita sicurezza e stabilità ma incomunicabilità e immobilismo assoluti rimarcati dal netto contrasto che si stabilisce in chi cura l’interiorità oltre la superficie dei gesti e delle parole. «Non mi ha mai sfiorata/ il desiderio di essere come tutti/ io papavero ai bordi/ di un asfalto al catrame» (v. 11). Non passa sotto silenzio l’amore, una realtà dell’esperienza qui collegata al mito di Orfeo indocile al divieto, che fallirà nella sua prova per la scelta di voltarsi e perdere per sempre Euridice che considera solo “uno squarcio di passato “così la Procino: “La carne sente brividi / di freddo”. / “Non ho più mani. Le ho perdute / stendendo carezze e non sono ritornate” (p. 65), un chiaro intento dell’autrice di affrontare la visione e la cultura dell’amore che ieri come oggi, nonostante le profonde trasformazioni del costume, fa dell’amore l’espressione più autentica dell’individualità. È un lavoro faticoso questo, spesso la parola manca, “è assenza”, ma la parola è restituzione e così deve essere. Una chiave interpretativa che permette una maggiore comprensione della raccolta è quella della ricerca, che l’autrice compie infaticabilmente della struttura rigorosa del libro e questo modo di procedere è ben presente secondo i canoni della tragedia greca. Comprende infatti un prologo, la partitura in “stasimi”, la distonia del Coro (il livello dell’accadere e del riflettere) che dilata la più svariata gamma possibile di tonalità e di accenti corrispondenti alle più diverse connotazioni emotive e infine l’epilogo.

Nessuna catarsi dunque per noi oggi, della tragedia classica. L’ autrice coglie lo smarrimento di un’umanità sempre più povera di certezze e incapace di trovare risposte adeguate ai problemi che più le stanno a cuore, tuttavia “si domanda se sia possibile rinascere. La sua risposta è affermativa, scoprendo la potenza delle divinità ctonie, “Le viscere del Sud”: “Accolgono riti di nascita che non vogliono sparire / – la grazia della resurrezione – / come serpi danzanti / al calar della notte”(p.42). Il che fa del suo libro E sia un’opera estremamente attuale e degna di essere continuamente riscoperta “Lo so. Ci si aggrappa a tutto/pur di non sprofondare/anche alla notte (p-41).

Radici (p.14)
Fortunato chi ha radici.
Un’Itaca e una Penelope dove ritornare.
Le Sirene a impedire il viaggio,
i Ciclopi a mostrare che un altro mondo esiste,
Circe a cospargere di lussuria il corpo
già madido di sudore,
Nausicaa a ricordare il tempo che fu,
i Proci pronti a portar via
quello che è tuo di diritto,
ma tu sei Odisseo, un padre e un marito,
un uomo che sa piangere

Orizzonti (p.66)

Io non so dell’amore che le onde alte
e Odisseo che ritorna
a un’Itaca piena di sassi
sterposa e brulla
il profumo del mare lieve che
intona nostalgie e robusti desideri.

Insegnamenti da Kavafis (p. 24)


Ho vissuto troppo dolore
per non intuirlo negli altri.
Ho dovuto accogliere troppe rinunce e
le ho trangugiate, amare, insieme agli strascichi
di denso fastidio. Ho capito che la tua felicità
può procurare nell’altro dolore,
non puoi farci niente.
Tu puoi solo decidere di viverla o di rinunciarvi.
Se la vivi, guarderai all’altro che è in pena,
se vi riunì, nessuno
avrà cura del tuo nobile gesto.

Amore e mito (p.38)

Ci sono anche quando
sono assente. Mi inchino
mansueta alle tue parole
che sanno addomesticare
la mia anima zingara.
Mi volto come Orfeo
in attesa di squarci nitidi dal passato.
Come Euridice mi inoltro
nel futuro e mi smarrisco
in isole senza pace. Sono qui,
in spazi di compassione
con il vestito a fiori
leggero di vento.
Mi rifugio in libri pesanti di vita
per tessere come Penelope
la trama del giorno che viene.
Perdo l’amore,
lo riconquisto come guerriera ostinata
nell’universo sbandato
trovo anche io confini entro cui lavarmi
dalla polvere che fatica ad andar via.
È tutto uno scendere e un salire
pietre su pietre
nel commercio con la gente.
Amo il mondo anche quando mi viene contro.
Lo devo a te.

Le stagioni dell’amore (p.36)

Di te
ho amato ciò che si vede – lo amano in tanti.
Di te di più
ho amato ciò che non si vede, residui
di irrisolti tormenti e inconfessate ferite.
Le stagioni che passano
con la fretta di chi al mondo sta poco tempo
lasciano sapori di
dolce e amaro miele e fiele.
Hanno concesso lo stupore
di un amore che non sta fermo.

Epilogo (p.78)

Finiremo, finiremo

di stancarci per questi giorni magri,

smunti, per queste ore

che indeboliscono gli ardori,

per questi individui – spettri, che mai

risorgono alla sveglia dell’impegno,

pigri – ahi, ma quanto pigri! – e

guardano sempre dove Circe

sedusse i loro stupidi compagni e

si indignano senza conoscere il perché.

Ameremo senza stancarci

in stanze grandi a contenere cieli

neri come la pece

per confondere il mio dal tuo

ed essere nostro.

Torneremo a godere di vita.”

©Maria Allo