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omaggio a un poeta, Giorgione, 1505

Col titolo “Una vita in scrittura” Limina mundi avvia un’iniziativa partecipativa che, come dice lo stesso titolo, vuole mettere in luce quanta dedizione richiede la scrittura e quanto lega a sé diventando fulcro di un’esistenza, compagna di vita

L’iniziativa è rivolta ad autori che scrivono da tempo, che hanno quindi un’ampia esperienza in scrittura, una carriera letteraria alle spalle, possono testimoniare l’atto di fedeltà alla parola. E’ quindi  un invito, ma nel contempo un omaggio.

L’invito è a raccontare, non con le parole asettiche e sintetiche usualmente richieste in una biobibliografia, ma in libertà, l’ingresso della scrittura dentro la propria vita, la chiamata o vocazione, la sua permanenza, l’evoluzione, l’intreccio con le proprie vicende personali, spirituali, una storia quindi fatta di inizi, trame incontri, episodi, traumi, delusioni, soddisfazioni, concorsi, premi, scoperte, emozioni ma anche, se si vuole, raccontare tutto ciò di cui lo scrittore è “fatto”, il suo saper fare anche oltre l’atto della scrittura in qualunque ambito sente appartenergli: professionale, creativo, artigianale, degli affetti… senza limiti, in linea con lo spirito del sito.

Libertà anche nella forma: un racconto autobiografico romanzato, un “automatismo ritratto”, cioè un proprio ritratto in scrittura automatica, un flash su un episodio o persona importanti o significativi del proprio percorso,  un’intervista nella quale le domande sono formulate e le risposte sono date sempre dallo stesso autore, persino una singola poesia o raccolta di poesie che l’autore riconosce come “autobiografiche” sono modi possibili con cui cor-rispondere oppure rispondendo semplicemente alla domanda: Ci racconti la tua vita in scrittura?

L’invito è stato rivolto da Antonella Pizzo a Marco Ercolani che l’ha interpretato come segue.

Grazie infinite, Marco e grazie altrettante ad Antonella Pizzo

Autointervista (2022)

Mi chiedi quale sarebbe il mio compito. Il mio compito è guarire la mente inguaribile: una fatica senza senso, come per ogni psichiatra. Per questo scrivo, irrefrenabilmente: almeno le parole non fuggono e possono, se non guarire, accompagnare e consolare, come quando leggiamo i versi di Alcmane che rimpiangono la luce del giorno.
Non ho mai avuto intenzione di scrivere nessun libro, almeno non nella forma in cui sono scaturiti. I miei sono sogni in presenza della ragione, temporali che prevedono un sole che soltanto in un secondo tempo illuminerà il paesaggio. Sono proprio vertigini. Chi è in grado di prevedere quale sarà la vertigine successiva? Smarrimenti, lipotimie, assenze: non c’è nulla da fare, sono imprevedibili. Devo fermarmi, sedermi, vivere la mia ansia. Quando ritroverò un momento di quiete riprenderò in mano la materia, la dipanerò, troverò le giuste parole. Io non trascrivo solo sogni ma anche idee sconfinate, orgogliose, illimitate. All’inizio, quello che conta è esserne invaso e non sapere dove si andrà, come manovrare una nave senza timone e non farsi prendere dal panico.
Camminando a piedi spesso mi perdo. Ma alla fine un qualche luogo mi accoglie sempre, nella superficie della terra come nelle pagine dei libri, e torno a essere chi trova storie antiche, di pittori, falsari, suicidi, superstiti, ossessi, vittime, assassini, persi in qualche nebbia lontana, e quelle storie le svolgo con calma nel foglio. Ripeto: con calma. C’è bisogno di affrettarsi quando si va cercando la verità vissuta dai morti? Ho bisogno di tempo perché tutto il dolore di cui parlerò non si risolva nel lampo precario di una poesia ma si sviluppi come una progressiva, inarrestabile, sconfinata marea. Io ho voluto descrivere spesso i dettagli di stermini e di soprusi perché l’uniforme silenzio della storia, scritta sempre e soltanto dai vincitori, non riducesse migliaia di dolori reali a miseri resoconti anonimi, destinati a essere ammassati in biblioteche deserte o centrifugati nel vortice di pale di una trituratrice ecologica in qualche fatiscente quartiere della periferia di una città abbandonata. Un film inglese che mi commosse, quando avevo forse 40 anni, fu Voci sempre vicine, voci sempre lontane, di Terence Davies, che del pulviscolo nebbioso dei ricordi faceva la colonna sonora portante della storia. L’empatia con il dolore umano, se non esiste, è una mancanza irrecuperabile, come la mutilazione di un arto. Ma, se esiste troppo, è un veleno che paralizza e sprofonda nell’impotenza per ogni dolore che non riusciamo ad alleviare. Qui si gioca la differenza. Un medico pervaso dal dolore non è forse il primo dei suoi pazienti?

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Grazie della tua domanda: ti risponderò che amo più il vento della terra. Io sono un uomo metodico, dovrei sapere cosa mi accadrà domani ma invece… So il vento che mi aspetta mentre scriverò ma non so cosa scriverò. I miei non sono romanzi, saggi, aforismi, poesie, ma divagazioni sulla memoria; la memoria la trovo e la perdo giorno dopo giorno; magari scriverò un diario per annotare ciò che la mente continua a dimenticare e di cui dimenticherò progressivamente tutte le pagine, lo scriverò solo per il lettore e non lo leggerò mai. Arrivato in fondo all’ultima pagina lo firmerò col mio nome e in pochi secondi lo scorderò come tutte le altre cose che ho appena scritto ma sempre provando un brivido di gioia, sempre iniziando. Ci sono porte rese invisibili dalla luce del tramonto; ci sono tramonti, da qualche parte del mondo, di cui non riesci neppure ad immaginare la luce.
Trasformare la paura. Munire la notte, come scriveva Paul Celan. Munire di armi lei, indifesa. Ecco il progetto di ogni scrittore: ricordare, creare. I ricordi non appartengono solo alla memoria: ti nascono dentro per una frenesia altra, per speranza, utopia, amore, perché ci smascheriamo leggendo. Viviamo liberi quando leggiamo, ipnotizzati dalla scrittura. In fondo a ogni libro letto c’è la libertà, il desiderio di rompere la rete, di essere qualcosa di non pensato, di alieno, sospesi fra autore e paesaggio, fra attore e regista, dentro e davanti alle quinte. La vertigine della scrittura è scommessa contro le tenebre, nostalgia di cose che non sono mai state dette, desiderio che siano dette e scritte ora, inventando un passato gravido di futuro. Ogni passato è futuro. Ogni forma genera il suo opposto/ con un soprassalto, ne è traversata in un senso e nell’altro, si rispecchia ovunque. Nulla, più delle rifrazioni dello specchio, rimanda al mistero della soglia, alle ragioni della notte. Se mi chiamassero per una conferenza, so già su quale tema parlerei: farei lezioni di vento. I tessuti della memoria, la rete neurale, sono l’aria che connette i nostri corpi; tutto si prosciugherebbe se lei ci mancasse, se non leggessimo o scrivessimo, se non mettessimo aria fra le pagine. Le risposte vengono dall’aria, come tutte le domande, oppure avremmo a che fare con sassi aridi, circondati da alberi morti.

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Quale sarebbe il mio ruolo? Non sono un uomo che serva a qualcosa. Di certi esseri umani si dice che siano come buche d’acido nella vita sociale addomesticata: li si evita, come si evitano gli artisti, i delinquenti, gli schizofrenici. Forse io sono uno di quelli.
Tu sai quale analogia lega la sindrome di Stendhal – lo smarrimento che un’opera d’arte di eccezionale intensità genera, in determinate condizioni emotive, in un soggetto ricettivo – e certe esperienze estreme di detenuti richiusi in celle d’isolamento e indotti, dalla deprivazione sensoriale, a vivere fenomeni allucinatori? L’analogia è sentirsi prigionieri. Come i personaggi dei miei racconti, io ho orrore della prigionia e mi smarrisco nella libertà. Così continuo, ossessivamente, a rappresentare l’atto del mio liberarmi, indugiando sui dettagli, rallentando il tempo, non permettendomi di tornare all’orrore precedente e non affrontando lo smarrimento futuro. Sono costretto alla solitudine e all’ascesi da una spaventosa chiaroveggenza. So tante, tantissime cose, ma non ho davvero nulla da dire. L’abisso è senza alcuna forma e nessun occhio può afferrare ciò che rappresenta.
Ma una via c’è: non essere mai in un solo luogo. Camminare dentro e fuori di te. Chiunque cammini non vede sempre la stessa parete. Chi vede sempre la stessa parete diventa carnefice o pazzo. Essere nomadi, o fingere di esserlo nei propri scritti non significa abitare nelle tende del deserto: significa vivere essendo pronti a lasciare tutto, in luoghi diversi della mente e del mondo. Avere un cuore che pulsa oltre i recinti della notte e scrivere di chissà cosa. Non chiedermi mai quali libri io abbia scritto: non ne ricordo un titolo.