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Postfazione di Ilaria Triggiani

Cosa fa di un verso, una poesia? Cosa rende un uomo, anche un poeta?

Sono queste le domande da porsi al termine di Affreschi strappati, terza pubblicazione di Giuseppe Settanni, arrivata un po’ insieme alla stessa maturità anagrafica dell’autore. Forse perché, già dal titolo, si avvertiva un senso di rottura, un piccolo momento – o motivo? – di ribellione, un’inquietudine non ancora risolta, ma finalmente rivelata. Come fece l’immenso Montale negli ultimi anni di vita e in risposta a coloro che incessantemente chiedevano cosa la poesia fosse, quale atto – umano o divino – la rendesse tale, dopo questo libro è lecito ancora domandarselo. Se lo chiede il lettore, ma ancor prima l’autore. Poiché è l’autore il primo destinatario del suo stesso poiéin. Poiché la riflessione sul linguaggio, determinante nella poesia di Settanni, qui diventa umanamente urgente. Poiché da questi versi emerge prepotente una curiosità nuova, rinvenire chi si cela dietro la poesia, e poi ancora dietro il poeta. Come in un gioco di scatole cinesi. Come se la poesia, l’arte, si potessero spiegare empiricamente. O psicanaliticamente. Ma il poeta ha la straordinaria dote di affrontare tutto con naturale leggerezza. Anche ora che la materia prende corpo, che il pantone lascia spazio alla scala cromatica, l’ansia non prevale sulla ragione. Il linguaggio si fa più asciutto, quasi tagliente. Il senso metafisico permane, nella forma e nella sostanza, ma questa volta, purezza e misticismo si alternano a modi crudi, talvolta indelicati, quasi l’autore avesse trovato coraggio. Coraggio di squarciare il velo classico della perfezione e gridare al mondo istanze nuove e potenti. Ecco che allora la celestiale geometria piana dei pensieri si concretizza, lasciando trapelare un umanesimo talvolta sconosciuto. L’inconsistente fluttuare delle prime poesie si sporca un poco di terra e sangue, rendendo l’atmosfera più carnale, esiziale. Pur continuando a giocare abilmente tra sa- cro e profano, ora il poeta sceglie di stare nel mezzo, in un interstizio corporale fino a oggi inesplorato. Sicuro solo all’apparenza, il poeta procede in una sorta di “dialogo allo specchio”. Talvolta insorge, a volte ripiega, illudendo il lettore di aver smarrito la via. Sempre più la lirica di Settanni si fa qui ricerca e non risposta. Stupore e disturbo insieme. Verso il mondo e verso se stesso. Come a evocare una verità, ma allo stesso tempo rifiutando di volerla ascoltare. Che sia questo il momento della maturità, anche artistica, dell’autore? Settanni sembra ancora non curarsene, perché sa che l’arte è libertà e la libertà è da assecondare. È questa la sua sicurezza, sicurezza della maturità dell’artista: sapere, appunto, che non esiste sicurezza. Così come non esiste risposta. O forse sì. Dietro la poesia c’è il poeta e dietro il poeta c’è l’uomo! È l’uomo che fa dell’uomo stesso un poeta. Inutile nasconderlo! Nasconderlo mai. Confonderlo a volte.

la ragnatela appesa al ramo del castagno

e i capelli genuflessi

il passaggio è aperto ma

sembra un’arpa in decomposizione

ammutolita dal troppo rumore

la bocca si è sciolta tempo fa

nei vigneti di mio nonno

bruciati dalla fatica

un invito

a cui ora non so più rispondere

gradazione di tonalità velenose

e io assaggio con piacere

sperando di farmi decapitare

per mano di una radice

non è un bosco quello dove passiamo

forse più un sarcofago

di quelli che nascondono il silenzio

per non tradire le chiese

filtra un po’ di tepore

non è ancora tempo di tornare

lo era prima di partire

ora no

provo a togliere

le scarpe

per non precipitare

feriscimi

prima che sia tardi

voglio uno sfregio da te

sulle ciglia

per marchiare

il segno dell’offesa

anche nell’oscurità

una piccola fenditura

al massimo un disturbo

è solo un momento

passerà

tutto

pur di non dire

che vuoi solo

uno spicchio d’amore

seduti

in attesa di fiducia

gli anni andati,

l’affetto

e le distanze

mai riempite

parallele

con le traversine gracili

ma il treno non deraglia

e docilmente

se ne va

anche l’ultimo cigolio

di un’apparente grandinata

con la leggerezza

della quiete