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omaggio a un poeta, Giorgione, 1505

Col titolo “Una vita in scrittura” Limina mundi avvia un’iniziativa partecipativa che, come dice lo stesso titolo, vuole mettere in luce quanta dedizione richiede la scrittura e quanto lega a sé diventando fulcro di un’esistenza, compagna di vita

L’iniziativa è rivolta ad autori che scrivono da tempo, che hanno quindi un’ampia esperienza in scrittura, una carriera letteraria alle spalle, possono testimoniare l’atto di fedeltà alla parola. E’ quindi  un invito, ma nel contempo un omaggio.

L’invito è a raccontare, non con le parole asettiche e sintetiche usualmente richieste in una biobibliografia, ma in libertà, l’ingresso della scrittura dentro la propria vita, la chiamata o vocazione, la sua permanenza, l’evoluzione, l’intreccio con le proprie vicende personali, spirituali, una storia quindi fatta di inizi, trame incontri, episodi, traumi, delusioni, soddisfazioni, concorsi, premi, scoperte, emozioni ma anche, se si vuole, raccontare tutto ciò di cui lo scrittore è “fatto”, il suo saper fare anche oltre l’atto della scrittura in qualunque ambito sente appartenergli: professionale, creativo, artigianale, degli affetti… senza limiti, in linea con lo spirito del sito.

Libertà anche nella forma: un racconto autobiografico romanzato, un “automatismo ritratto”, cioè un proprio ritratto in scrittura automatica, un flash su un episodio o persona importanti o significativi del proprio percorso,  un’intervista nella quale le domande sono formulate e le risposte sono date sempre dallo stesso autore, persino una singola poesia o raccolta di poesie che l’autore riconosce come “autobiografiche” sono modi possibili con cui cor-rispondere oppure rispondendo semplicemente alla domanda: Ci racconti la tua vita in scrittura?

L’invito è stato rivolto da Antonella Pizzo a Lucetta Frisa che l’ha interpretato come segue.

Grazie infinite, Lucetta e grazie altrettante ad Antonella Pizzo

La vita in scrittura

Sans passion il n’y a pas d’art – ha scritto Henri Matisse. La poesia è libertà dello spirito, l’unica libertà che ci resta in condizioni di prigionia, fisica o morale. Forse la poesia mette radici e ali proprio in questa condizione. Un esempio per tutti: Osip Mandel’stam che, esiliato, scrive i suoi Quaderni da Voronez. La poesia è un lavoro duro e ostinato perché la parola poetica voli oltre ogni tipo di sbarre. Ogni esercizio poetico, fin dall’adolescenza, corrisponde specularmente a un esercizio di conoscenza, di approfondimento della realtà, di conquista di un’altra vista. Una sorta di veggenza, simile a quella del mistico. Si può essere mistici religiosi come mistici laici, anche atei, e cercare comunque conoscenza, vivere “in stato di poesia”. Scrive il poeta catalano Gabriel Ferrater: “scriviamo poesia per il desiderio di vedere fin dove possiamo elevare l’energia emotiva della lingua.”

Fin dall’inizio la poesia era, per me, un “qualcosa” fatto di parole che nasconde un messaggio misterioso e desta uno stato di allarme,  di stupore. Il suo ruolo è quello di mantenere viva e accesa la ribellione allo status quo, la resistenza alla superficialità dilagante, nella lingua come nel pensiero come nel modo di porsi nella vita e nella società. La poesia contiene in sé, come osserva Novalis, tutta la realtà nella sua interezza simultanea e contraddittoria. E arriva da un’emozione, di qualunque natura essa sia: certe emozioni non colpiscono solo il cuore ma la mente. Può essere la parola letta e ascoltata, un concetto filosofico, un’immagine quotidiana o imprevista, un’immagine d’arte o della natura. Dall’esterno penetra – a nostra insaputa – nella nostra interiorità, che la rielabora e traduce in parola. Tutto può diventare poesia. Siamo noi gli alchimisti, noi i ribelli controcorrente, noi che dobbiamo preservarne lo spirito dalle aggressioni che continuamente la minacciano. Per me un punto di partenza dello scrivere versi è una  malinconia accidiosa, mista fra pensiero nomade e magico stupore, che crea dentro di me uno stato di malessere, di torpore, dal quale mi devo liberare scrivendo. Ed è il ritmo, naturalmente, la struttura vertebrale di una poesia, la caratteristica principale che la distingue dalla prosa, oltre che l’impasto sonoro, timbrico, di cui era maestro insuperabile Gerard Manley Hopkins,  Hopkins diceva che la sua metrica si adattava strettamente al suo tempo emotivo. Da parte mia, concepisco la poesia come uno spartito musicale. In poesia non c’è una qualità separata dalle altre. Tutte dovrebbero coesistere (parlo al condizionale, che è la forma verbale del desiderio): il senso del mistero, la sua intensità, la visionarietà, l’asciuttezza. E naturalmente, il ritmo, che è la mia ossessione principale. Dopo averla letta o scritta, la poesia deve lasciarmi lì, con le orecchie che ronzano, e la sensazione di avere capito poco ma di essere turbata da quanto non ho capito: Quell’istante, rigoroso e vertiginoso, è la mia esperienza poetica.

È dal buio che scrivo.

Le parole ad una ad una escono alla luce, prendono un corpo,

sfavillano. Legano te a me.

Se le cancello

rientriamo nel buio.

Ma il ponte crollato

non esiste più.

Ne rifaremo un altro, dicono.

Comporre un verso o un ponte

è strutturare

la vibrazione di una colonna vertebrale

sognare

ancora un nesso

perché le parole con le macerie non restino

inerti strumenti sul fondo.

Ciò che è compiuto appartiene subito al regno dei morti.

Solo quello che è ancora da fare è eterno.