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 E C U A D O R

CHUMBOTE

(1931)

José de la Cuadra (1903-1941)

Traduzione di Emilio Capaccio

È considerato uno dei più importanti narratori del suo paese. Studiò diritto, fu docente universitario, membro del partito socialista ecuadoriano e scrittore, appartenente al gruppo Guayaquil, il più importante movimento culturale del XX secolo, in Ecuador. Il suo stile di scrittura si distacca dai canoni del modernismo per tendere verso le tematiche del realismo sociale. Nei suoi racconti, caratterizzati a volte da una crudezza espressiva a cui si accompagna un’attitudine all’uso dell’ironia, si pone l’attenzione sulla natura dell’uomo comune, del “montuvio” che abita la costa e in generale si enfatizza la ricchezza culturale dei personaggi nell’ambito del loro contesto rurale.

Si diceva che Chumbote (1) fosse mezzo scemo. Chissà che alla fine, non fosse probabile.

Il padrone, don Federico Pinto, che si spacciava per studioso di etnologia, ripeteva:

— Molto naturale che questo ragazzo sia una bestia! È cambujo e dai cambujos non ci si può aspettare altro. La scienza lo dice.

Tuttavia, don Federico Pinto, e sua moglie, la corpulenta Feliciana, detta “la otella” o “la maiala” come alle sue spalle la chiamavano le amiche, legnavano Chumbote ogni santo giorno, forse con lo scopo segreto di dirozzarlo, anche quando farlo avrebbe significato andare contro le pretese della scienza.

Chumbote, da quando aveva dodici anni, si masturbava in luoghi “solitari”, come aveva visto fare al ragazzo Jacinto, il figlio dei suoi padroni. Tra le masturbazioni e le perticate che riceveva, la sua carne si era rinsecchita. Era diventato mingherlino, flaccido, giallastro, come se fosse stato consumato da una malaria perenne. Del resto, non sarebbe stato insolito se fosse stato malarico: il suo corpo serviva da banchetto per le zanzare, nelle notti roventi, disteso a dormire sui tavoli sporchi della cucina.

Chumbote nacque nella tenuta di don Federico Pinto, dalle parti di Colimes. Lo avevano sempre chiamato con quel appellativo perché quando viveva nella tenuta si cresceva forte e ben piantato come un vitellino. Nessuno lo conosceva con un altro nome se non come Chumbote. Ma il suo vero nome era Federico, come quello del padrone. Federico di Prussia Viejó. Suo padre, Baldomero Viejó, che era stato mezzo azzeccagarbugli e mezzo farabutto a Colimes, mentre faceva il guardaspalle di un cacicco; lo chiamava ora Federico ora Prussia. Quando si ubriacava aggiungeva, il titolo, “figlio di puttana”. Però (si dice fosse in onore della defunta, che dormiva da molto tempo nel lotoso cimitero di Samborondón) la madre di Chumbote aveva ricevuto in amore, sotto il tendone di chintz rosso del suo pagliericcio, solo pochissimi uomini oltre al suo Baldomero Viejó, che se la prese da piccola.

Quando Chumbote ebbe dieci anni, suo padre lo diede al padron Pinto perché lo mettesse a fare lo sguattero nella casa di Guayaquil.

Donna Feliciana lo ricevette con un sorriso, l’unico che abbozzò per quel ragazzo. Appena lo sentì dire che si chiamava Federico, il sorriso si trasformò in una smorfia.

— Che insolenza! Federico! – Non sai che questo è il nome del signore?

Il povero ragazzo, ingiuriato e timoroso, dovette convenire che aveva mentito e che il suo nome non era Federico, ma Chumbote, soltanto Chumbote.

Nel suo intimo però aggiunse qualcos’altro che il suo visino bruno non lasciava trapelare.

Fu un mal comincio. Donna Feliciana armò un orrendo arruffio sul nome del ragazzo.

— Federico! Come te! Niente di meno che come te! — rimproverò il marito quando fece ritorno per lo spuntino pomeridiano. Può darsi che sia figlio tuo… sì; figlio tuo, senza dubbio… Un figlio che avrai fatto con una di quelle selvagge montanare della tenuta, e che ora hai la terribile sfacciataggine di portarlo nella tua casa, nella tua dimora che è sacra! Affinché diventi uomo da pari a pari con l’altro tuo figlio, quello legittimo, quello autentico, quello che è uscito dalle mie viscere! Canaglia!

Si gettò in faccia al marito e lo scorticò ben bene con le sue unghie affilate da gatta, che era l’unica peculiarità che la differenziava dai maiali pasciuti. Poi fu scossa dal pianto.

Dopo questa scena, don Federico Pinto comprese che per convincere sua moglie che Chumbote non era sangue del suo sangue, la cosa migliore da fare era trattarlo come un cane odioso.

Quella notte stessa lo pestò come Dio solo sa. Un piccolo pretesto fu sufficiente per infliggergli le bastonate.

Quando Donna Feliciana sentì ululare il ragazzo, si rifocillò beatamente.

Le sembrò sostanzialmente giusto; però mantenne il silenzio. Un silenzio di dea propiziata. E abbozzò persino un gesto di incredulità che suo marito percepì e comprese.

Da quel momento in avanti, don Federico legnò duramente il ragazzo. La cosa lo ripugnava un po’, ma stimava che la pace coniugale fosse la cosa più importante.

Donna Feliciana collaborò con suo marito alla gragnola delle percosse. Il bambino Jacinto, che era un insolente presuntuoso ed effeminato, seguì i suoi genitori.

Anzi fece di peggio. Con l’esempio gli insegnò a masturbarsi.

Se avesse vissuto nella tenuta, Chumbote non avrebbe mai pensato a simili porcherie. I meschini vizi solitari, tenebrosi e sordidi come sono, prosperano come la muffa negli angoli bui; non attecchiscono negli spazi aperti. Naufragano in un mare di sole.

Chumbote trascorreva le ore morte del tardo pomeriggio, dopo aver lavato i piatti sporchi del pranzo e prima di accendere il fuoco per la merenda, seduto in un angolo del solaio, all’amore della canicola, divertendosi a strappare le ali delle libellule e dei moscerini e a organizzare la marcia delle formiche.

Pensava vagamente a una moltitudine di cose senza un senso preciso, non riuscendo a fare un ragionamento completo. A volte, questo sì, si fissava in lui il ricordo della tenuta, e gli occhi scuri gli si annebbiavano di futili nostalgie.

Era quando lanciava all’improvviso quelle grandi grida che faceva più credere a tutti che la testa non gli funzionasse bene:

— Melarosa! Cassia fistula! Amaranto ! Tettona! Uhj… jah… jah… jah… jah…!

Nessuno sospettava l’umile verità. Che Chumbote potesse avere dei ricordi. Che Chumbote potesse risuscitare miracolosamente, nella sua memoria, quei pomeriggi assolati o piovosi lontano, laggiù, nel campo sconfinato, quando, piegato in avanti a pelo del suo ronzino gialliccio, fischiava al bestiame del suo padrone.

Al sentirlo di sopra, donna Feliciana la si vedeva comparire con la frusta in mano.

— Animale! Non mi lasci fare la siesta!
Lo frustava fino a quando dalla carne smagrita e tormentata delle natiche gli sgorgava il sangue, un sangue scolorito che sembrava più purulenza versata.
Allora lo lasciava.
Se ne tornava nella sua stanza maestosa, ondeggiando il grasso traboccante come un andare navigando in bonaccia.
Rosa, la huasicama , accorreva compassionevole. Gli calava i pantaloncini blu, sempre gli stessi, la cui stoffa aderiva ai lunghi solchi delle frustate, e strofinava su quelle gambe martoriate dell’acqua salata. Quando poteva rubarlo nella dispensa senza pericolo, gli cospargeva dell’aceto.
— Vita mia, ti ha ridotto a un Ecce Home .
Con la sua compassione, la huasicama faceva a Chumbote più male che bene. Tra il dolore acuto e pungente delle frustate e la vicinanza della ragazzona bianca, dalla carne soda, il cui profondo odore di sporco e di femminilità gli entrava nelle narici, le voglie di Chumbote si destavano.
E, al restare solo, si chiudeva nella latrina a imporsi sacrifici onanistici, con la sua piena immaginazione della ragazzona Rosa.
Era questo, quasi senza variazioni, il programma di ogni giornata…
Un pomeriggio, dovevano essere le quattro e Jacinto, il figlio del padrone, non era ancora tornato dalla scuola. Chumbote, come al solito, trascorreva il suo breve tempo libero sul solaio.
Giocava con Toribio, l’enorme gatto d’angora di donna Feliciana, che era fuggito chissà come, alle molli e sudaticce carezze della padrona.
Chumbote gli correva dietro, molestandolo con un bastone.
— Micio micio, piccolo Toribio!
Secondo le disposizioni di Donna Feliciana, il gattaccio doveva partecipare al rispettoso trattamento dovuto ai suoi padroni.
— Corri, piccolo Toribio!
La bestiola, che stava cercando di rifugiarsi in un angolo, passò sopra una tavola schiodata, di cui Chumbote non si era accorto, e che traballava su una corda di mangrovie con un movimento oscillatorio. La tavola muovendosi lasciava trapelare un varco attraverso il quale sarebbe potuto passare facilmente un corpo umano. Per di più, quella parte del solaio, destinata a contenere i vasi dei fiori di Dona Feliciana, era spiovente ed era quasi completamente marcia a causa dell’acqua che veniva adoperata quotidianamente per innaffiare i fiori.
Chumbote dovette soccorrere il piccolo Toribio per impedirgli di cadere violentemente nel patio. E restò lì, mentre il gatto rimesso sulla superficie solida fuggiva via.
Ma con il correre tutt’intorno c’era stato un gran trambusto; e, come ogni volta, donna Feliciana comparve con la frusta in mano.
— Che rumore è questo? Ah, mascalzone, te ne infischi del riposo della tua padrona!
Alzò il braccio, la cui mano brandiva la frusta.
— Adesso vedrai!
Inflisse la prima frustata.
Fu così grande il dolore, che Chumbote, per la prima volta da quando prestava servizio in quella casa, sentì la necessità di sottrare il suo povero corpicino dal quel supplizio e si mise a correre.
Mentre correva, ricevette una seconda frustata.
Allora, solo in quel momento, rapidamente considerò la vendetta. Tutto l’odio che aveva accumulato silenziosamente, ignorandolo lui stesso, scoppiò in un’esplosione insolita.
— Trippona maledetta! – biascicò.
Diede un grande balzo e si fermò all’angolo delle semine, evitando la tavola sconficcata.
— Farabutto, stai calpestando i miei fiori!
Addossato alla recinzione del solaio nell’atteggiamento di una bestiola alle strette, Chumbote attendeva.
Sapeva quello che stava per accadere. Quello che accadde davvero.
Donna Feliciana cercò di avvicinarsi rapidamente, facendo pesare tutto il suo grasso sui legni marci, poggiò il piede proprio sulla tavola smossa che al punto giusto traballò…
Fu un attimo.
La padrona sprofondò come dentro una pozzanghera. Fece appena in tempo a tentare di aggrapparsi ad una corda alla sua destra che le negò il sostegno.
— Ahi!
Chumbote reagì vivamente.
— Rosa! Rosa! È caduta la signora! Non è colpa mia!
Nessuno gli rispose. Senza dubbio, Rosa era andata a fare compere. Era quella l’ora, e la casa era solitaria.
Chumbote non sapeva cosa fare.
Si affacciò dal buco che aveva lasciato passare il corpo della padrona.
— Signora! Signora!
Donna Feliciana era distesa laggiù, nel patio… Precipitata su un mucchio di pietre spigolose. Chissà, forse era morta. Forse, no. Chumbote non capiva queste cose. Aguzzando le orecchie, giunse a percepire un grugnito lamentoso che usciva dalla gola della padrona.
Nella caduta a donna Feliciana le si era sollevata la gonna, e all’aria mostrava le cosce ampollose, di un osceno color latte e acqua.
Chumbote non poté resistere a quello spettacolo.
Senza distogliere lo sguardo dalle cosce della padrona, seduto lì sul bordo del buco, cominciò a masturbarsi un’altra volta. Era la quarta quel giorno…

1) Termine che significa in gergo: “torello”, “manzo”