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 C O L O M B I A

CARNE

(1925)

Efé Gómez (1867-1938)

Traduzione di Emilio Capaccio

È stato narratore, matematico, ingegnere e docente dell’Università di Antioquia. Insieme a Tomás Carrasquilla e a Francisco de Paula Rendón, ha fatto parte del gruppo degli intellettuali di Antioquia e ha collaborato a varie riviste, tra le quali: “El montañés”, “El repertorio”, “Alpha y Cirirí”. Il suo stile si discosta dal modernismo predominante alla fine del XIX secolo per anticipare un realismo critico e spietato, frutto dell’influenza esercitata soprattutto dagli studi fatti sulle opere di Nietzsche e di Schopenhauer. Spesso i personaggi dei suoi racconti, per una imprinting pessimistico delle condizioni esistenziali dell’uomo, conducono una vita senza scopo, senza porsi domande sul domani né fare niente per tendere a qualcosa altro che non sia al mero presente in cui intessere le loro trame ingannevoli, meschine, egoiste.

La notte era fredda e uggiosa.

Su quel picco sterile e inaridito le case del villaggio sembravano così raggruppate sotto il brandello di nebbia che quest’ultima dissolvendosi in pioggia sottile sopra di loro, faceva apparire quelle casupole come premute le une sulle altre, intirizzite e in cerca di calore per assopirsi.

Pedro, avvolto nel suo ampio poncho, appoggiato a un pilastro nell’androne di una casa abbandonata, si lasciava penetrare dalla pioggerellina, indifferente a tutto e immerso nelle sue tristezze.

Si udì il galoppo di un cavallo, attutito dal sentiero pianeggiante e molle, poi, la moltitudine rumorosa sul selciato, infine, la stropicciata ruvida della frenata.

— Che succede? chiese Pedro con ansia all’uomo che stava arrivando.

— Le cose si mettono male.

— Hai parlato con mio padre?

— Dice che non può fare niente. Che ti abbandona alla tua sorte. Che ha già fatto tutto quello che poteva fare.

— E i creditori?

— Sono infervorati. Ho parlato con uno di loro questo pomeriggio e mi ha detto che il debito che hai accumulato ammonta a oltre cinquemila pesos; che quello che hai fatto è stato un abuso della loro fiducia e che ti vogliono pestare.

— Che cosa potresti fare di più per me?

— Niente! Le banche non rilasciano mezzi né con la firma, né con le ipoteche. Dicono che non hanno denaro… Non c’è altra scelta che fuggire.

— Andare via! – disse Pedro, assorto.

— Non si può fare altro. Questa notte stessa l’alcalde di qui potrebbe ricevere l’ordine di trattenerti. Ecco, fuggi con il mio cavallo – disse, smontando da esso. — Ti porterà fino all’inferno.

— Andrò a dire addio a Ventura.

— Sarebbe meglio che non lo facessi – disse l’amico di Pedro, mentre si toglieva gli speroni. — Ad ogni modo, fa’ quello che vuoi. Che diavolo! Questo mondo!…

Non aggiunse altro.

Se ne andò nell’ombra, senza salutare, perché la sua rudezza era quella di tanti uomini: la corazza di un cuore tenero, le cui ondate di commozione lo prendevano già alla gola.

Pedro rimase da solo.

Con i gomiti poggiati sul pomolo della sella, la fronte tra le mani, sprofondò in quella tenebrosa e oscura sofferenza delle grandi crisi della vita.

Aveva amato. Amava ancora con una passione immensa e folle. Il suo errore era stato non aver compreso che le grandi passioni sono impossibili nelle nostre società; che il segreto per vivere in queste società consiste nel far credere alle persone che si ama molto, anche quando non si ama; che si gode tanto, anche quando non ci si diverte; che si soffre profondamente, anche quando si è incapaci di soffrire. Quel puerile vanto di far credere che l’esistenza sia stata sentita in tutte le sue sfumature; di mostrarsi disilluso da tutto. Prurigine che porta a insultare la vita con strofe infelici, da persone che non meritano neppure di viverla.

Si dibatteva in una rete che cedeva senza spezzarsi, attutendo i suoi sforzi, senza presentargli una resistenza contro cui indirizzare le energie della sua virile volontà; spossato, accanito, crivellato di voluttuosa sofferenza. Ogni giorno assaporava quei crudeli piaceri in cui le lacrime si mescolano alle risate; in cui la sensibilità si tende fino alla dimensione spirituale e il piacere fa vibrare i nervi fino ai limiti del dolore; in cui si bacia tristemente e si gioisce nell’amarezza. Conosceva quelle febbri, quelle pazzie, quegli attaccamenti morbosi e ottusi a una creatura di carne, che ci rendono impotenti davanti all’impulso che ci spinge a toccare quelle mani, a baciare quegli occhi, a singhiozzare su quel grembo. Gravitava in quei limbi in cui forse non si è più responsabili quando si aggiunge un anello in più alla catena che ci lega. E gli era capitato tante volte, mentre girovagava solo per il villaggio, maledicendo la propria debolezza, di sorprendersi a bussare alla stessa porta.

Così accadde quella notte.

Eccola. Si mise a spiarla attraverso il buco della serratura, ammaliato, palpitante; divorandola e soffocando il grido della sua coscienza, che gli ordinava di fuggire senza salutare, con la fruizione che scaturisce dalla vista della persona amata, goduta per l’ultima volta. Eccola: seduta su una sedia bassa: il suo piede sinistro, audace e aggraziato, piantato sul pavimento; la punta di quello destro, che pende appena sopra l’orlo del vestito; in grembo un tamburo per il ricamo; incurvata, intenta al proprio lavoro, il viso dolce e severo.

Mille volte si era detto che non sarebbe entrato, che l’avrebbe solo guardata in silenzio, che sarebbe fuggito quando ne avesse avuto abbastanza di osservarla.

Eppure con ciò, spinse delicatamente la porta.

— Oh! – Lei esclamò, lanciando un grido di gioia — Tu mi ami… tu mi ami…

E facendolo sedere vicino a lei:

— Vedi: ho cominciato a ricamare questo raspo d’uva, e mi sono detta: se quando lui arriva gli acini sono in numero pari è perché mi ama… Conta e vedrai: sono all’ottavo! Ma perché non rispondi? Che cosa hai? Sei malato, gracilino mio? …Eh…ti sei imbambolato! Non sai parlare… Vediamo: tira fuori la lingua…Non riesce! Ha la mordacchia il fanciullino.

Poi, fingendosi in collera:

— Sarà che si è pentito di avermi regalato l’anello che mi ha portato oggi, e ora viene a fare il prepotente perché glielo restituisca, lo spilorcio! Prendi il tuo anello: non voglio niente dalle persone che questionano per riavere ciò che donano.

Portando all’altezza del petto le sue mani corte, elastiche e bianche, su cui il delicato lavoro della sua natura aveva cesellato le linee energiche e battagliere, cinse l’anulare sinistro con le dita della destra. Le dita si avvolsero intorno e si rinchiusero sull’anello, serrò gli occhi, si morse il labbro inferiore in un gesto di grande sforzo e, sorridendo, con gli occhi socchiusi, chiari, grandi, carezzevoli, da dietro il reticolo setoso delle lunghe ciglia, disse:

— Vedi? Si è incastrato: non riesco proprio a tirarlo fuori.

Davanti a quello sguardo, Pedro sentì tutto il suo essere scricchiolare e frantumarsi, e tendendo su quegli occhi la mano destra aperta, li coprì, mentre con la sinistra chiusa si premeva la fronte, con un gemito doloroso.

Lei afferrò quella mano con tenerezza. Poi, sdraiandosi sul letto, cominciò a parlare, allegra e chiassosa; finché, cullata dal suono della sua stessa voce, si assopì. La bocca ciarliera, ora, era socchiusa e appagata.

— È il momento – pensò Pedro.

Serrando gli occhi per non vederla, si lanciò verso la porta. Non riuscì a trattenersi e dalla soglia le rivolse un’ultima occhiata.

Era così bella nel suo dolce sonno tranquillo, inconsapevole di ciò che accadeva intorno a lei. E il giorno dopo si sarebbe ritrovata da sola!

Tornò al suo fianco e si chinò su di lei per osservare da vicino quel volto così particolare da far nascere nella sua anima i tremori irreparabili e crudeli dell’amore.

— Perché abbandonarla? – pensò. — Perché non sfidare tutto e scappare con lei? Non aveva già bruciato i suoi averi, e la sua giovinezza, e anche l’ultimo brandello del suo onore, sul rogo di quella passione?

Passandole dolcemente un braccio dietro il collo, la tenne un poco sollevata. Lei si mosse e lasciò cadere la testa inerte sulla spalla del suo amante, sorridendo dolcemente nel sonno.

A Pedro mancava il coraggio di turbare quel quieto riposo con la nuda e spaventosa realtà, e, lasciandola di nuovo adagiarsi sul letto, andò a sedersi in un angolo, esasperato, portando i pugni contro le tempie.

— Perché questo demone è così bello? – esclamò.

Poi, sentendosi preso da una gelosia furibonda, si vide dimenticato da colei che in quel momento fremeva per lui; si immaginò bocche detestate posarsi su quelle labbra. Davanti ai suoi occhi si aprì come una scala di Giacobbe, al rovescio, dove la bellezza discende impotente, sabotata dalla porcilaia lasciva della “onorata” umanità.

Stupidamente lasciò che i suoi occhi vagassero per la stanza.

Là, a portata di mano, sopra un tavolo, scintillava la lama del suo rasoio. Fu attratto dal filo freddo e sottile della lama, e con la brutale rapidità della tentazione, afferrò il rasoio, si gettò sulla sua amata e le rigò il viso con una lunga e larga ferita.

Risuonò un grido e il sangue zampillò.

— Adesso, nessuno la vorrà per sé! – disse quasi con sollievo, gettando il rasoio, con il terrore di vedersi nello specchio.

Presto, si udì il galoppo del suo cavallo nel fango lungo la strada.