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 P O R T O R I C O 

IL MALO UCCELLO

(1849)

Manuel Antonio Alonso Pacheco (1822-1889)

Traduzione di Emilio Capaccio

Medico, scrittore e giornalista. Studiò medicina all’università di Barcellona. È ritenuto una delle prime figure del romanticismo antillano. La sua opera più importante, “El Gíbaro”, può essere considerata come un quadro delle tradizioni e della vita rurale e campesina dell’epoca, dalle chiare influenze della corrente costumbrista.

Se avete percorso il cammino da Caguas alla capitale di Porto Rico, ricorderete la bella vallata a mezzo del pendio di Quebrada Arenas e la collina chiamata della Mesa. Piacevole e molto fertile, essa è bagnata dal rio Cañas e piantumata con innumerevoli alberi, alcuni dei quali, situati ai margini del cammino, servono per il viaggiatore, durante il giorno, per ripararlo dal calore del sole e, durante la notte, per fantastiche apparizioni che procurano spavento ai più superstiziosi.

Due viaggiatori stavano attraversando questa vallata, una notte di gennaio, verso le due del mattino. Uno, un giovane di vent’anni, con capelli e occhi neri e brillanti, carnagione scura e con quella tinta dorata così comune nei creoli, discendenti degli europei senza mistura di un’altra razza, montava un bel cavallo nero, le cui orecchie piccole e mobili seguivano continuamente la direzione del minimo rumore causato dall’aria, o di qualsiasi oggetto su cui si rifletteva la luce incerta della luna calante, appena comparsa nel cielo. L’altro, un mulatto bronzeo, dalle forme atletiche e vestito con un cappello di paglia e una camicia e pantaloni di tela bianca, cavalcava un sauro, che, se non eguagliava la razza del cavallo del suo giovane padrone, portava comunque non poco carico senza mostrare il minimo segno di arrendevolezza.

— Jacinto – disse il primo — stai dondolando il capo, cerca di stare fermo, se non stai attento finirai per cadere.

— È vero, ragazzo, ma è anche vero che c’è una ragione se mi do per vinto: sono quattro notti che non dormo.

— Neanche io ho dormito, eppure mi mantengo diritto.

— Oh! quando avevo l’età di sua grazia non dormivo neppure se avevo avuto quindici brutte notti, ma quelli erano altri tempi, ora ho vent’anni di più e non riesco a portare troppe uova di punta.

— Già, hai ragione, quelli erano altri tempi – rispose il giovane in tono beffardo. — Bel tipo eri, a quell’epoca! Quante ragazze avevi accalappiato al tuo amo?

— Nessuna, ragazzo, nella mia vita non ho amato nessun’altra donna, al di fuori di Juana, mia moglie, la balia di sua grazia, e ne sono ben felice, perché lei mi ha amato e mi ama più di quanto chiunque possa pensare.

— Sì, lo so, e non ignoro neppure che, nell’anno in cui sono nato, mio padre ha dovuto sposarvi per quanto vi amavate, prim’ancora che vi fosse stato concesso di farlo.

— Andiamo, sua grazia non cambia mai…Quando la notte lo prendevamo in braccio, perché non smetteva di piangere, chi lo avrebbe detto che saremmo finiti a ridere insieme a spese del prossimo?

— Chi altrimenti ti prenderebbe a parolacce?…

— La croce del Nazareno cade sotto di te e ti solleva un milione di leghe più in alto delle stelle – gridò all’improvviso il mulatto, interrompendo il suo padrone.

In quel momento cominciando a discendere un pendio, avevano lasciato qualche passo indietro, a sinistra del sentiero, una croce di legno, che da anni era piantata in quel luogo. Il mulatto si era tolto il cappello e pregava tremando di paura.

— Ricominci con le tue sciocchezze? — disse il giovane fingendo di essere arrabbiato. — Perché queste urla?

— Ragazzo, non sono sciocchezze; ho sentito cantare il malo uccello.

— Taci, tonto, quale malo uccello più di te?

— La croce del Nazareno cade sotto di te – ripeté di nuovo il servo; aggiungendo: — E ora lo sente sua grazia? Non ha cantato?

In effetti, tre strilli lontani, apparentemente di un uccello notturno, erano giunte alle loro orecchie.

— Ebbene – rispose il giovane al suo interlocutore — e con questo? Se ha cantato, rispondigli con un verso, di quelli che sai improvvisare tu.

— Sembra impossibile che vostra grazia si prenda gioco di ciò che a me fa tanta paura.

— Sembra impossibile anche che un uomo come te, che prende un toro per le corna, che si è gettato in un fiume per salvare un tizio che non conosceva, che ha attaccato briga con tre neri cimmarroni (1) , abbia paura di queste vecchie storie.

— Non sono vecchie storie, ragazzo, e la prova è proprio quella croce che abbiamo sorpassato in questo momento.

— Cosa c’entra la croce con il malo uccello?

— Se vostra grazia sapesse che cosa significa quella croce e perché è stata piantata lì, dove si trova, non mi farebbe questa domanda

— Non ne so molto, se non che nello stesso luogo uccisero un tizio e, come è consuetudine, eressero una croce affinché i viandanti potessero pregare per la sua anima.

— Beh, c’è di più.

— Ebbene, vedo che vuoi raccontarmi una storia, che certamente avrà più finzione che verità.

— Tutto il villaggio conosce la storia della morte di Gregorio Rodríguez, che ha molto di vero, ed è strano che vostra grazia non ne sia al corrente.

— Mi rallegro di non saperlo, perché così te lo sentirò raccontare e trascorrerà un po’ di tempo mentre camminiamo.

— Ebbene, signore – cominciò Jacinto — c’era un giovane nel barrio di Jagua, sui vent’anni, di nome Gregorio, o Goyo, figlio di Atanasio Rodríguez, uno di quelli che andò a cercare gli inglesi al ponte Martín Peña, con quel tremendo Díaz (2), che dicono sfidò gli invasori proprio sulle macerie di quel ponte che era stato fatto saltare in aria dagli assedianti. Questo Goyo era alto, grosso e aveva più forza di una coppia di buoi: nessuno digeriva le sue prepotenze. A dodici anni aveva ferito il fratello e a diciotto aveva alzato le mani addosso a suo padre, il quale, pur essendo stato per lui un estraneo, non meritava una tale ingiuria, perché tutti lo consideravamo un buon uomo. Il povero vecchio subì con rassegnazione i colpi inferti dal figlio e quando si vide libero, inginocchiato a terra, alzò le mani al cielo, esclamando: “Mio Dio, perdona quel ragazzo, che non sa quello che ha fatto”.

Il giorno seguente, portando a pascere una vacca, che non era per niente docile, ricevette un’incornata tale da essere scaraventato per aria, rompendosi una gamba al cadere per terra. Il povero padre lo assistette con grande riguardo durante i molti giorni in cui fu in pericolo di vita e trascorse parecchie notti a fare la veglia, pregandolo invano di confessarsi e di fare la comunione.

Non appena si fu rimesso in sesto, tornò alla solita vita di figlio tralignato e prepotente: a volte, usciva di casa senza tornare per tre o quattro giorni e quando restava al verde e non aveva più che cosa giocarsi, rubava a qualche vicino o al padre quello che poteva, perché continuasse il suo passatempo.

Venne un giorno in cui nulla più era stato lasciato al vecchio, e allora non esitò ad abbandonarlo, giacché l’unico fratello era venuto a mancare qualche tempo prima.

Andò a vivere con un tale che non aveva altra occupazione se non la ruberia e commise così tanti misfatti, in sua compagnia, che una volta acciuffato dagli agenti, fu necessario infliggergli una condanna a quattro anni di carcere.

Dopo aver scontato la sua pena, tornò più sfaccendato e spietato di prima per unirsi nuovamente al suo complice e ricominciare i suoi crimini. Una notte, per rubare trenta pesos, assassinarono un pover’uomo che tornava dalla città, dove aveva venduto il suo piccolo raccolto di caffè. Il delitto restò impunito perché nessuno vide chi lo commise.

Di lì a poco, si parlò di un’altra rapina più grave e non passò molto tempo che una mattina nel barrio di Culebras fu ritrovato il cadavere del compagno di Goyo, ricamato di coltellate. Non mancò chi sostenne che l’assassino doveva essere il nostro ragazzone della Jagua, che dopo il fatto gravoso era stato visto scialacquare soldi e spassarsela di qua e di là.

In capo a un po’ di tempo restò nuovamente al verde, ma i suoi vizi rimasero gli stessi. Una notte lasciando una casa proprio in questo barrio che stiamo attraversando ora, dove aveva perso quel poco che gli era rimasto, pensò di accoppare il giocatore che aveva vinto più di tutti. Per realizzare il suo intento si mise nel luogo dove ora si trova la croce di legno, e lì attese che la sua vittima si avvicinasse. L’altro stava già risalendo la collina, non era molto lontano. Goyo aveva il machete nella destra e con la sinistra allentava il coltello che portava nel fodero della cintura. Stava per mettersi sulla strada, quando il malo uccello cominciò a cantare sopra la sua testa.

La croce del Nazareno cade sotto di te, disse il giocatore fortunato e d’un tratto, vedendo un fagotto sul ciglio della strada, fermò il cavallo e aggiunse:

— Caramba, stai indietro e dimmi che cosa vuoi.

— Ridammi i soldi che ci hai rubato stasera con i tuoi trucchi.

— Beh, amico, avvicinati se li vuoi, non posso gettarteli da qui.

— Eccomi, facciamo presto.

Detto questo, saltò il fosso e si avvicinò all’altro che lo attendeva, apparentemente rassegnato a lasciarsi derubare. Sollevò il machete e stava per sferrare il terribile colpo, quando si udì uno sparo. Il proiettile della pistola del giocatore trafisse il petto di Goyo e il canto del malo uccello fece eco da lontano, al grido che lanciò il ragazzone quando cadde in mezzo alla strada, inzuppato di sangue.

Dio volle che il curato del villaggio, che tornava da una funzione, passasse per quel luogo e vedendo una sagoma a terra, gli si avvicinasse per soccorrerlo. Scese da cavallo, e quando posò la mano sul corpo, lo trovò impregnato di sangue, il cuore gli batteva lentissimamente e respirava a stento. Con molta fatica riuscì a metterlo in piedi, aiutato dall’uomo che lo accompagnava.

Non passò un minuto che il ferito, tornando in sé, dopo un profondo gemito, disse:

— Ah! Chi è la buon’anima che mi soccorre e mi riporta in vita?

— È Dio – rispose il sacerdote — che ha portato qui il più indegno dei suoi ministri per ricevere da voi la confessione delle vostre colpe, aiutarvi a ottenere la salvezza della vostra anima e farvi ritornare, se possibile, in salute.

— O Padre! L’ultima cosa è impossibile, perché mi hanno gravemente colpito e so che la poca vita che mi rimane si sta esaurendo. Per la salvezza dell’anima, ugualmente è una cosa disperata, perché sono stato un infame e la mia vita è una trama di crimini.

— Figlio mio, confida nella divina Provvidenza, apri il tuo cuore ad un essere infinitamente misericordioso, confessa e pentiti delle tue colpe, che Dio le perdonerà.

— È veramente possibile, padre? Dio perdona uomini come me che meritano di ardere all’inferno?

Il buon curato predicò tanto e talmente all’anima, che all’ultimo il ragazzone si decise, e stava per iniziare a recitare l’Atto di dolore, ma il canto del malo uccello all’improvviso gli cagionò un nodo così stretto nella gola che non poté articolare una parola.

— Andiamo, figliolo, perché indugi tanto? – disse il prete.

— Padre, non avete sentito quell’uccello che ha appena finito di cantare?

— Sì, figliolo, ma perché dici questo?

— Perché quell’uccello è il diavolo, che vuole la mia anima.

— Taci. Non avere tali preoccupazioni in questo momento così difficile.

Il moribondo, vinto nuovamente dalla persuasione del ministro dell’altare, ammise con voce chiara le sue colpe e appena fu assolto sospirò tra le braccia del confessore.

Da allora c’è quella croce nel luogo che ha visto sua grazia e nel quale stanotte ha cantato il malo uccello

— Ebbene, cosa c’entra la morte di Gregorio Rodriguez con il fatto che esiste davvero un malo uccello?

— Molto, signore, se quel ragazzone non lo avesse sfidato, come aveva fatto in passato, gettandogli quattro granelli di sale, non avrebbe preso la strada sbagliata, almeno credo.

— Vedo che sei un ingenuo, perché non sai che quell’uccello è un volatile qualunque, e che l’uomo che compie la volontà di Dio e dei santi è certo che non avrà mai niente da temere da tutti i mali o i buoni uccelli della terra.

Così finì la conversazione e continuarono in silenzio il loro cammino.

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[1] Termine per indicare gli schiavi africani che erano riusciti a darsi alla macchia, nelle colonie spagnole del Sudamerica.

[2] Si riferisce a un episodio della “battaglia di San Juan” (1797) e al sergente Francisco Diaz, a capo della milizia portoricana, che attaccò le posizioni inglesi con 70 uomini a fronte di 300 soldati nemici. Nonostante l’inferiorità numerica, i portoricani s’impadronirono di una batteria di cannoni e riuscirono a far indietreggiare gli inglesi, chin seguito passarono al contrattacco mettendo in fuga gli avversari.