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C U B A

(1918)

Alfonso Hernández Catá (1885-1940)

Traduzione di Emilio Capaccio

Figlio di un militare spagnolo distaccato a Salamanca, località di Santiago di Cuba e di una cubana. Nasce in Spagna, si trasferisce pochi mesi dopo a Cuba con la famiglia e ritorna in Spagna all’età di 16 anni per intraprendere i suoi studi. Traduce e approfondisce autori inglesi e francesi, mentre lavora come apprendista ebanista. Tornato nuovamente a Cuba, dirige 2 periodici a La Avana: “El diario de la marina” e “La discusión”. Più tardi, abbraccia la carriera diplomatica rivestendo la carica di console e di ambasciatore in vari paesi europei e sudamericani. La sua opera è caratterizzata da una grande ecletticità di generi: novella, lirica, saggistica, giornalismo, drammaturgia. Tuttavia, il riconoscimento più grande e l’elogio della critica, sia in Spagna che in America Latina, deriva indubbiamente dagli innumerevoli racconti, nei quali sono evidenti il suo spirito critico e cosmopolita, le contraddizioni sociali e umani, le tematiche amorose ed erotiche.

Julián Ensor era un vigliacco incapace di intentare qualsiasi cosa contro la donna che, essendo sua moglie per accordo legale e divino, sapeva essere di altri per smania e frivolezza. La conobbe in una brasserie lontana dal centro del paese, dove si era recato per evitare la tirannide di alcuni colleghi d’ufficio, i quali, non contenti di fargli gravare tutte le loro assenze e fargli fare tutto il loro lavoro, lo cercavano la sera per ridere della sua debolezza e prenderlo in giro con insulti osceni. Nell’angolo meno affollato, mentre la schiuma si scioglieva con un debole luccichio sull’oro liquido e trasparente della birra, si ripagava per le fatiche subite nelle otto ore lavorative. Solo, lontano dai colleghi, senza pensare a niente, Julián Ensor era felice. Lì, nessuno gli rivolgeva la parola; nessuno, sospettando il suo carattere per niente volitivo, lo faceva bersaglio di invettive. La birreria divenne per lui una necessità, una voluttà, forse l’unica nella sua vita di arrese. Al mattino, mentre si affannava a copiare, con il suo elegante corsivo inglese, circolari e deposizioni ministeriali che sarebbero state degne di congratulazioni per altri, pensava all’arrivo della sera, alla luce cruda delle luci elettriche, sugli ampi divani tappezzati di verde e dentro gli specchi luminosi e profondi. Al pomeriggio, tutto il suo corpo infiacchito tremava di dolorosa impazienza, da lì a breve avrebbe mangiato frettolosamente, lasciando molte volte il dolce, per andare, con le precauzioni di un criminale che si crede perseguitato, a sedersi impacciato ma felice davanti a un bicchiere di birra, la cui penetrante amarezza non finiva mai di essere gustata al suo palato.
Di vista conosceva tutti i clienti abituali e ogni volta che li incontrava per strada gettava loro uno sguardo familiare, quasi misterioso, uno di quegli sguardi che intessono il filo di un segreto. E lì conobbe sua moglie. Era giovane, bruna; sul suo viso, sotto il complicato artificio dei suoi opulenti e scuri capelli, due macchie scarlatte contrastavano con la cupa profondità dei suoi occhi, ingranditi da due cerchi azzurri e con la curva costantemente umida e rossa della sua bocca, che fingeva una ferita.
Come accadde? Concretamente nessuno può dirlo. Ci fu quella catena inaspettata e fatale che lega i fatti, unendo termini così distanti che l’intuizione più acuta non avrebbe mai sospettata si sarebbero avvicinati. Per molte notti la vide con la stessa mite benevolenza con cui passava in rassegna tutte le cose nel locale: i divani, i tavoli, le caffettiere fumanti, le bottiglie opache, il ragazzo, già precoce mascalzone, che annunciava fiammiferi e giornali illustrati con voce insinuante. La vedeva aggirarsi per i tavoli, inchinarsi agli avventori e scorrere una vasta gamma di individui, con la diversità dei suoi sorrisi, le cui sfumature sarebbero servite a un osservatore più attento per classificare il gradimento delle mance. La vedeva come un oggetto e non pensava al fascino sensuale di quel corpo, che molte volte, nel sottrarsi repentinamente al guizzo di una mano perversa, urtava contro i tavolini, suscitando un sonoro tremore di bicchiere. Così come non si accorgeva che era la più bella e giovane cameriera e la più vezzeggiata. Per lui era uno degli articoli della birreria… Eppure… come accadde? Una notte, lei non gli fece pagare la birra; poco tempo dopo, gli portò un bicchiere senza che lui glielo avesse chiesto e non volle farglielo pagare; qualche settimana dopo lui le diede un biglietto da venticinque pesetas per farselo cambiare, ma lei non tornò con il resto, e un venerdì sera, finalmente, lei gli disse di aspettarla fuori e uscirono insieme. Per la calle si unì a loro un vecchio con una zazzera incolta, dallo sguardo vivace e sospettoso. Lei gli disse che era suo padre.
— La mia Juanita ci aveva parlato di voi. A casa hanno molta voglia di conoscervi.

— Di me… le ha parlato di me?…

— Noi non la pensiamo come quei genitori che si oppongono a che le loro figlie abbiano accanto un innamorato, sapete? Essendo, come voi, persona onorata… Già da oggi avete il nostro consenso.
Andò così. Poi, una successione di fatti assurdamente logici: vari passeggi, gite in campagna, qualche viaggio alla vicaria, una cerimonia grottesca: un velo bianco, un mazzo (forse troppo grande) di fiori d’arancio, un frac di bazar, alcuni rituali latini tartagliati da un prete lardone. E dopo…dopo la catastrofe.
E la catastrofe fu tenacemente crudele. Dalla sera del matrimonio, Julián Ensor sapeva di essere un predestinato, anzi, lo sapeva già da prima; e quando il sacerdote gli chiese se avesse voluto accettare come sposa quella donna, avrebbe voluto rispondergli di no, se quell’irrimediabile codardia che pesava su tutti i germi della sua azione, gli avesse permesso il trascendentale atto di fare per l’unica volta nella sua vita la propria volontà, invece di sottomettersi a quella altrui.
I suoi amici cominciarono a fargli visite ingiustificate. La moglie lo mandava a fare commissioni incresciose. Una sera, andando a passaggio, tallonato da alcuni giovani che senza staccarsi da lui, guardavano Juanita con quegli sguardi che parlano di un’intesa, di una procace richiesta, sentì una voce rude esclamare: “Guarda com’è grazioso il marito della Juanita.” Altre volte, sul suo scrittoio da lavoro trovava disegni di mani grossolane, raffigurate in modi licenziosi, cervi, tori, unicorni, che egli strappava in mille pezzi per gettarli alla purificazione del fuoco della stufa, mentre meditava, freddamente, che solo un’esplosione di collera avrebbe potuto salvarlo da quelle torture.
Una volta dovette aspettare sulle scale, dopo una mal dissimulata inquietudine interiore, che la porta si aprisse, trovando in casa sua moglie e un amico in atteggiamento molto misurato. Non era passata la metà del secondo mese di matrimonio che dovette già servirsi la cena da solo, perché Juanita era uscita senza nemmeno avvisarlo, lasciando detto che andava a teatro. Alla fine del quinto mese, la deformazione materna era in Juanita un’accusa e una promessa perentoria di parto.
Julián Ensor pativa tutto questo pazientemente. La mattina, quando entrava in ufficio, i suoi colleghi gli chiedevano uno dopo l’altro, con voci rotte da tosse e risate argute:
— Quando nasce tuo figlio?
E un altro, il più spudorato, aggiungeva:
— La buona stirpe degli Ensor deve essere perpetuata.
Julián affondava il raschietto nel calamaio e mentre lo faceva pensava ai cuori di coloro che così spietatamente ferivano il suo, terrorizzato dalla visione sanguinaria che nella sua immaginazione, candida e mite, si fissava con l’aspetto di una boccetta di inchiostro rosso che si versava.
Fu in aprile, una sera al ritorno dal Ministero, ubriaco e con addosso la fragranza di un mazzo di gerani che un fiorista lo aveva costretto a comprare, quando il vecchio dalla zazzera incolta lo accolse con un grido amaro:
— Juanita è grave!… Correte, andate a casa di don Luis… la levatrice non può fare più niente!
Quasi senza coscienza discese la scala e con passi incerti come un beone si diresse all’abitazione del dottore. Come imboccò il marciapiede, un uomo gli si avvicinò deciso e turbato: era un vecchio parrocchiano della birreria:
— Voi siete il marito di Juanita?… Come sta?… È vero che potrebbe morire?
— Beh… non lo so… no, non morirà.
Julián Ensor comprese, e in un istante si fece carico di quell’abominevole disonore. Mentre, senza fermarsi, incontrando i passanti, seguiva il suo cammino, pensava che avrebbe dovuto tornare indietro e uccidere, con la stessa glaciale indifferenza barbara di un tragico epilogo in un dramma visto al teatro.
Il dottore lo accolse con flemmatica cortesia, facendogli, intanto che si metteva parsimonioso il cappotto e il cappello, qualche domanda che lui rispondeva meccanicamente.
— Ha convulsioni… non l’hanno sottoposta per quindici giorni ad alimentazione lattea?… Forse è l’albumina la causa… da quanti mesi siete sposati?
Julián Ensor, infangato e codardo, rispose fino all’ultima domanda, senza mentire. Nella vettura, cullato dal blando viavai, un’idea terribile cominciò ad attorniarlo; un’idea così spaventosa che invano cercava di schivarla guardando la strada, in apparenza fuggente, dal vetro torbido della carrozza. Era un’idea tenace, diabolica, che nasceva da qualcosa di sconosciuto in lui, da qualche centro di recondite energie. “Se morisse!” E l’idea si sviluppava, si precisava fino a concretizzare tutte le sue trame: una bara, una notte di veglia, una camminata dietro un carro funebre in una mattina di sole, e poi… poi la libertà, la solitudine, i momenti felici in un’altra birreria dove non ci sarebbero state donne, ogni notte si vedeva nel fondo luminoso degli specchi, senza pensare né temere nulla davanti all’oro trasparente e liquido della birra che si sarebbe sciolto con tenue scintilla.
Il dottore penetrò nell’abitazione, uscendo poco dopo, a braccia nude, per cercare in una valigetta qualcosa che Julián vide brillare con argenteo scintillio. Prima di tornare in camera, disse:
— Meglio che restiate fuori.
— Starò qui, vicino alla finestra.
Incollato alle sbarre, quasi convulso, ascoltava i minimi rumori che provenivano dall’interno. Le vicine pietose uscivano e entravano con recipienti e stracci. Di tanto in tanto, si percepivano le frasi imperative del dottore. Dalle fenditure, in un momento di audacia, poté vedere il volto esangue di sua moglie, accanto al quale una mano stringeva un flacone blu. Senza rivolgere la parola a Julián, alcune vicine uscendo fuori parlottarono:
— Che travaglio difficile! Solo uno dei due si salverà… Lo ha detto il dottore.
Poi, rimasto solo, aggrappato alla finestra per non cadere, l’idea terribile si impadronì di nuovo del suo cervello. Adesso, si concentrava di più: “Oh, se morisse!” E con una rapidità di allucinazioni, si susseguivano nei suoi occhi chiusi visioni di una grande cassa tempestata d’oro e di una piccolissima cassa bianca, piccola quasi quanto la scatola di carta del capo della sua ripartizione. “Se fosse lei a morire!” L’idea si fece sempre più grande, si impadronì della sua volontà e la dirigeva compiuta con un voto malefico nella stanza, dove la moglie anestetizzata articolava con lentezza frasi incoerenti e chiamava qualcuno, qualcuno che lui già odiava. Oh, così tanto tempo senza sospettare nulla! Al ricordo di quella vecchia conoscenza vista con simpatia innumerevoli volte, al ricordo dell’audace domanda, al ricordo della sua placida felicità troncata, l’idea perfezionava il suo maleficio, diventava più chiaramente perversa: “Che sia lei, che sia lei quantunque viva suo figlio!” … Ci fu un mormorio all’interno. Capì che stava accadendo qualcosa di decisivo e si aggrappò con forza convulsa alle sbarre… Chi dei due avrebbe dovuto accompagnare nel mattino assolato che avrebbe seguito l’interminabile notte della veglia?… Sopra il mormorio compassionevole, alcuni vagiti squillanti e intermittenti vibrarono nella casa.
Una delle vicine che uscì tremante, aveva dipinto sul volto quell’inconfondibile orrore di chi ha visto passare la morte accanto, ed esclamò ad un’altra, quando vide Julián esanime vicino alla finestra:
— Pover’uomo!… Sposati da così poco tempo!… Nonostante sia così gracile, guarda come ha piegato le sbarre. Ah, la forza del dolore!… Che Dio ce ne scampi! Che Dio ce ne scampi!