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La poesia di D’Angiò mi viene incontro sulla via antica per Matera forse ancora di quel lontano Regno di Napoli, in un giorno insperato e insospettabile. Ha arcate sopraccigliari di sassi e polvere, radici di lavanda negli occhi, cappellone di feltro alle ubbie del vento, pizzetto folto d’autorevole arte e tono gentile nella compostezza del proprio dolore. Parla, tra gigari e favagelli di riarse plaghe dell’animo umano, una lingua vaticinante che quasi non ammette titolo ai suoi molti appelli lirici suddivisi in quattro sezioni nella raccolta “Verranno a perderci in trionfo”, G.C.L. Edizioni, 2022. Parla e come scrive il suo prefatore, Paolo Polvani: “nella sua asciutta compostezza non trascura le ragioni di una resa estetica convincente, persegue un’idea di pulizia e nitore, resta immune da qualsiasi tentazione retorica e non agghinda, non tende ad abbellire il verso, non ricorre ad espedienti manieristici e tuttavia, in virtù di quella frequentazione assidua con la poesia dei maestri, riesce, in maniera spontanea e con grande sincerità, a toccare ottimi livelli e si lascia leggere con piacere”.

Emilio Capaccio

TESTO N. 1

Rara, dimora qualche quiete
che non delude,
ed è subito un udire di grigiore
che rifà il giorno.
Ricompare anche
l’infruttuosa saggezza
di chi non ha mai ingoiato
un raggio di sole.
Si regge appena sul fondo del cielo,
l’ancora che ci tiene al mondo,
e la mutilata credenza
di farci bastare i resti
di ogni lembo di terra.
L’immobilità di quell’infinito
concede tregua d’inesistenza,
finché non s’appresta l’ora
che non passa per il tempo.
Ed uno spreco d’incompatibilità
ci avrà seminato senza stenti.

TESTO N. 19

La sera, gli arenili cominciano a dimenare
il ritardo della luce,
perché non vuole andare via
la perdita di coscienza
che è soltanto nella corsa dell’insoddisfazione.
L’elica che seleziona il vento,
si attenua su quello in ritardo,
e la scoperta di una conchiglia sperduta,
dipende dall’ora di chiusura della sabbia.
Come la scoperta di una mezza felicità
dipende dalle cose che devono darsi via,
lasciate sui tavoli sparecchiati in fretta.

TESTO N. 9

Ho paura che d’improvviso
vada via la luce,
mentre cerco il sale nella tua tasca
per benedire lo spessore d’aria
che si trova bene
senza toccarci.
Ho degli uomini e delle donne
che sanno farsi di solitudine
come se tornassero a baciarsi,
fino a quando le striature della loro pelle
si fanno comode per il tacito consenso
di due richieste,
vedere il mare e piangere molto.
E dell’uno o dell’altro
non trascurarne i dettagli,
sia ad altezza di piena
che di sfusi abbagli,
concedendo al cambio di stagione
il punto più confidenziale del nostro esistere.

TESTO N. 104

Dovremmo diventare campo
appena seminato
briciole per i passeri
prima della neve,
al riposo della migrazione, uno stagno.
E punta estrema di roccia
dall’altra parte di un’ultima thule
e poi nessun ritorno,
non si racconta ciò che deve restare.
Una luna gonfia a dominare l’occhio nero
del buon Dio, dovremmo essere,
una ferita che non sana
il peccato originale. Salvare la lacrima
che scioglie la melma,
la frase d’amore al nostro carnefice,
che nonostante tutto
da una stessa bocca si è donata.

Francesco D’Angiò è nato a San Vitaliano (Na) nel 1968. Esordisce nel 1997 con la pubblicazione di un racconto edito da “Alea Editrice Bari” dopo aver vinto un concorso per esordienti. Riprende il filo interrotto della narrazione con la pubblicazione del romanzo breve “Lo sconosciuto” (Planet Book, 2020). L’amore per la poesia sin dall’età adolescenziale, così come varie volte accade, lo porta a partecipare a vari concorsi letterari, riservandogli piazzamenti lusinghieri. Nel 2021 pubblica la prima raccolta di versi dal titolo “Clessidre orizzontali”, Edizioni Tripla EEE. Nel 2022 pubblica la sua seconda raccolta: “Verranno a perderci in trionfo”, G.C.L. Edizioni. Attualmente vive a Matera.