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Pedro Eiras, “Bach”

Il ramo e la foglia edizioni, 2022

Note al testo e alla traduzione di Michela Graziani, Università degli Studi di Firenze

Postfazione di Claudio Trognoni, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”

 

Che cos’hanno in comune personaggi come Anna Magdalena Bach, Esther Meynell, Glenn Gould, John Cage, Gottfried Wilhelm Leibniz, solo per citarne alcuni, dal momento che non sono neanche coevi o della stessa nazionalità? Nulla sembrerebbe eppure i rimandi esistono se soltanto ci si lascia coinvolgere dall’appassionante lettura e analisi di un romanzo inconsueto e originale. Attraverso la pubblicazione di “Bach” di Pedro Eiras da parte de Il ramo e la foglia edizioni abbiamo modo di conoscere in Italia, nella traduzione di Michela Graziani, l’autore portoghese e allo stesso tempo di approfondire le connessioni esistenti tra diversi personaggi tutti legati alla figura sapientemente evocata, del grande Johann Sebastian Bach. Si tratta di un’opera a metà tra realtà documentata e finzione che, com’è precisato nella postfazione di Claudio Trognoni, “non è un insieme di racconti, non è un trattato musicale, non è un diario né una biografia” bensì un’opera narrativa composta da quattordici testi, apparentemente disomogenei per genere eppure collegati e connessi tra di loro. Non si tratta di un libro per eruditi, certamente è un libro interdisciplinare, in cui è garantita la compenetrazione tra le arti, non esclude il lettore che non abbia competenze musicali anche perché consente diversi livelli di lettura del testo: letterario, musicologico e filosofico. Ogni testo è connesso in qualche modo al precedente o al successivo, in un sapiente gioco a metà tra il documentarismo erudito e la riscrittura fittizia. Eiras ha fatto riferimento anche al sistema di catalogazione BWV o Bach-Werke, che permette di riferirsi con certezza a una precisa composizione di Bach fra le oltre mille censite da Wolfgang Schmieder, autore del catalogo. Il primo documento, risultato di una mistificazione letteraria riuscita tanto è verosimile e intensa, è una lettera scritta da Anna Magdalena Bach-Wilcke, musicista ella stessa e seconda moglie di Bach. La donna si presenta come vedova del direttore di Musica della città e Kantor della Scuola di San Tommaso, per garantirsi protezione per i figli più piccoli e per quello dall’intelletto rimasto semplice e il diritto sancito dalla tradizione che prevedeva che le vedove dei Kantori godessero per sei mesi del trattamento economico che i mariti ricevevano, come già avvenuto alle vedove di Kuhnau e di Schelle. Anna Magdalena e Johann Sebastian ebbero insieme tredici figli, di cui sette morirono in giovane età. Dopo la morte del compositore, nel 1750, i figli entrarono in contrasto tra loro e ognuno di loro intraprese la propria strada. Anna Magdalena, infatti, visse con le sue due figlie più giovani, Johanna Carolina e Regina Susanna e con Catharina Dorothea, figlia di primo letto del coniuge. Nessun altro familiare la aiutò economicamente, fatta eccezione per le figlie. Con dovizia di particolari biografici, Anna Magdalena informa che i figli sarebbero stati accolti dal loro fratellastro Carl Philipp Emanuel Bach, figlio del suo compianto marito e della sua prima moglie, Maria Barbara Bach, il quale risiedeva a Berlino ed era clavicembalista  al servizio di Federico di Prussia, per il quale aveva composto l’Offerta Musicale, composta “da un ricercare a sei voci e un altro a tre, dieci canoni, e una sonata”. Il genero Altnickol e sua moglie, si sarebbero occupati di Gottfried Heinrich. La ricerca di Pedro Eiras ha consentito di annotare dettagli relativi all’inventario e alla ripartizione dei beni del compositore tra la vedova e i nove figli rimasti in vita. Anna Magdalena, in particolare, lamenta il fatto che i figli Wilhelm Friedemann e Carl Philipp Emanuel si fossero impadroniti degli strumenti e delle partiture inoltre che con il passare del tempo, neanche poi tanto, fossero cambiati la musica e i gusti del pubblico. Contrappunto, fughe e corali per organo, un tempo tanto apprezzati erano ormai considerati pesanti e oscuri. La vedova fa riferimento anche alla querelle intercorsa tra il suo compianto marito e Johann Adolf Scheibe che riteneva le opere troppo abbellite e in contrasto con la semplicità della natura. Rievoca anche i posti in cui il celebre compositore aveva ricoperto ruoli di grande importanza anche se modesti rispetto a quelli rivestiti da Händel. La donna conclude la lettera dicendo di avere quarantanove anni dunque di essere invecchiata e di essere prossima alla morte. Avendo perduto sette dei suoi tredici figli, le sembra di sentirli nella casa vuota così come continua a sentire dei passi e a vedere un’ombra tra le scale, quella di suo marito, il vecchio incorreggibile Johann Sebastian Bach. Il secondo testo è dedicato a Esther Meynell, autrice di The Little Chronicle of Anna Magdalena Bach, pubblicata nel 1925 dalla casa editrice Chatto & Windus, in forma anonima e di cui Eiras possiede l’edizione edita da Chapman & Hall Ltd a Londra nel 1954. Si tratta di una narrazione in prima persona, attribuita alla vedova di Bach, che avrebbe deciso di scrivere le sue memorie dopo la visita di un vecchio alunno del compianto marito. Eiras cita anche altre edizioni oggetto di ricerca come quella portoghese con traduzione di Maria Osswald, edita a Lisbona nel 1945, per la casa editrice Aviz e afferma che certamente tra le fonti delle informazioni va ricordato lo studio dello storico Philipp Spitta, edito a Lipsia tra il 1873 e il 1880. Nel terzo saggio si presentano due cineasti francesi contemporanei, Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, creatori di film sperimentali che hanno permesso loro di essere annoverati tra gli autori più originali del cinema del XX secolo. Furono creatori di un lungometraggio dal titolo Cronaca di Anna Magdalena Bach, realizzato nel 1968 ma la cui gestazione risaliva agli anni Cinquanta. Si procede poi con Gustav Leonhardt, clavicembalista, organista e direttore d’orchestra olandese, interprete delle opere di Bach. Partecipò al film di Jean-Marie Straub, sopra menzionato, in qualità di musicista e di attore nel ruolo di Bach. Nell’opera, nel 1973, scrive una lettera all’austriaco Nikolaus Harnoncourt, clavicembalista e direttore d’orchestra anch’egli, con il quale incise tutte le cantate di Bach. Nella lettera descrive lo stato dei lavori di restauro della sua casa, circostanza che lo pone in una condizione di preoccupazione per il fatto che i clavicembali fossero stati trasferiti nelle varie stanze. Informa poi il suo interlocutore di aver completato l’incisione dei ventiquattro preludi e fughe del primo libro e di essere consapevole che potrebbe averli interpretati in modo diverso dalle intenzioni del compositore, anche perché Bach aveva fornito pochissime indicazioni di tempo. Glenn Gould è l’altro musicista a cui è dedicato un saggio, annoverato tra i più grandi pianisti mai vissuti, qui è ricordato per le registrazioni di musiche di Bach. Si parla anche di John Cage e del suo esperimento nella camera anecoica dell’università di Harvard, una stanza insonorizzata e acusticamente trattata, in cui poter “ascoltare il silenzio”, da cui ricava la consapevolezza dell’impossibilità di ottenere il silenzio assoluto. Il saggio successivo ritrae il filosofo Leibniz, sofferente per la gotta e i dolori articolari, mentre si sofferma a pensare al suono infinitesimale di un fiocco di neve. I suoi pensieri lo conducono al ricordo dell’ascolto di una passacaglia e fuga, eseguite con un organo di Arnstadt tre anni prima da un giovane musicista (Bach?), che “sdoppiava un tema semplice in un gioco di figure così inaspettate, in così profonda armonia”.

Maria Gabriela Llansol invece è una scrittrice e traduttrice portoghese contemporanea che, nel 1977 ha scritto O Livro das Comunidades (Il Libro delle Comunità), libro molto caro ad Eiras, dedicato a incontri, dialoghi e reinterpretazioni del pensiero di scrittori, artisti, pensatori e mistici. La potenza della musica è affermata anche da Martin Lutero. Siamo a Wittemberg nel 1528. Lutero, poco prima della dipartita della figlia Elizabeth che ha contratto la peste, riceve la visita di Philipp Melanchton, teologo tedesco e suo amico, protagonista con lui della Riforma protestante. Dopo varie considerazioni sul concetto che un uomo diventi vulnerabile nel momento stesso in cui sia divenuto padre, afferma che “la musica è la nostra seconda scienza, subito dopo la teologia. È un dono di Dio. Allontana le tentazioni e i cattivi pensieri.” È per questo motivo che scrive inni, perché la musica è l’unica consolazione degli uomini. Non dimentichiamo che nella Chiesa di San Tommaso, dove Bach lavorò come direttore musicale per ventisette anni, Martin Lutero vi discusse i meriti della Riforma. Nel saggio dedicato a Jeshua Ben-Josef, cioè all’uomo- rabbino ( Gesù?) che visse e fu crocifisso intorno al 33 d.c. sotto Ponzio Pilato, Eiras ricerca tutte le occorrenze e le citazioni dedicate alla musica e contenute nella Bibbia e i vari riferimenti a molti canti di adorazione e a molti strumenti come flauti, trombette, trombe, corni, cetre, salteri, arpe, lire da dieci corde, tamburelli, cimbali; non va dimenticato che alcuni chiameranno Bach “quinto evangelista” come se l’ultima buona novella fosse stata scritta in musica. Gli ultimi saggi sono dedicati a Esther Hillesum, scrittrice olandese ebrea, vittima dell’Olocausto, che descrive il suo viaggio senza ritorno passando per Lipsia. Lavorando come dattilografa presso una sezione del Consiglio Ebraico, ebbe la possibilità di salvarsi, ma forte delle sue convinzioni umane e religiose, decise di condividere la sorte del suo popolo. Le pagine dedicate a Ich habe genug BWV 82, (in tedesco, “Ho abbastanza”), cantata di  Bach, scritta a Lipsia per la ricorrenza del 2 febbraio 1727, per basso solista, oboe, archi e basso continuo, sono volutamente bianche come a voler far parlare la musica. Si tratta probabilmente di un silenzio metaforico, ulteriore rimando a Cage o al silenzio della musica durante i viaggi della deportazione e al dramma della Shoah che ancora oggi nessuno è riuscito a spiegare. Il silenzio diviene anche reazione al perenne rumore/inquinamento acustico di fondo della contemporaneità. Si cita a questo proposito José Tolentino de Mendonça, che afferma la necessità di un’iniziazione al silenzio cioè all’ascolto. L’ultimo saggio è dedicato ad Albert Schweitzer, Premio Nobel per la Pace, medico, filantropo, musicologo, organista franco-tedesco, appassionato di musica classica e in particolare di quella bachiana. Non a caso pubblicò J. S. Bach, il musicista poeta, in cui raccontò la storia della musica del compositore e dei suoi predecessori e analizzò le sue opere più importanti. Si fece promotore fino alla sua morte di missioni umanitarie in Gabon, dove aveva fondato l’ospedale di Lambaréné e dove curava la popolazione del luogo. In quest’opera monumentale Eiras attraverso l’approccio filologico e gli intrecci intertestuali e di contenuto coinvolge il lettore, lo appassiona e lo trasporta in coordinate spazio-temporali lontane dall’uomo contemporaneo. Viene esaltata la funzione catartica e totalizzante della musica di tutti i tempi e il tema universale della vita e della morte.  Oltre al silenzio di cui si è già ampiamente parlato, l’altro fil rouge che è quello di maggior interesse per me, è quello della genitorialità, già messo in evidenza da Trognoni in Postfazione e ricorrente frequentemente nel libro, quella di Bach e Anna Magdalena, di Martin Lutero, nella parabola del figliol prodigo a cui si fa riferimento nel testo Jeshua Ben-Josef, unico episodio del Nuovo Testamento in cui sia presente la musica. Anche nell’ultimo testo del libro, intitolato 2002, il narratore si rivolge a una bambina che culla sulle note di “Mache dich, mein Herze, rein”, aria tratta dalla Passione secondo Matteo. Concludo questa lunga nota con una significativa citazione dell’autore che ancora una volta spinge il lettore a riflettere e a resistere: “Non si può risuscitare il XVIII secolo, ma inventare il passato in base al nostro desiderio.[…]In ogni parola di questi documenti settecenteschi leggo il passato, il presente e ciò che persiste del passato nel presente.”

© Deborah Mega