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LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

LIMINA MUNDI

Archivi della categoria: LETTERATURA

Emilio Paolo Taormina, “Un posto all’ombra / Ein platz im schatten”, Giuliano Ladolfi Editore, 2025.

10 lunedì Nov 2025

Posted by Deborah Mega in POESIA

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Emilio Paolo Taormina, Un posto all'ombra / Ein platz im schatten

 

un uccello di carta
si è posato
sul davanzale
forse è lo stesso
che le mie mani
hanno lanciato
molti anni fa

Ein Vogel aus Papier
hat sich auf die Fensterbank gesetzt
vielleicht ist es derselbe
den meine Hände
vor vielen Jahren
geworfen haben

*

la luna tra le nuvole mostra
una bocca sdentata
i galli delle banderuole
trattengono il canto nella gola
una stella s’accende sulla collina
una caverna illuminata
a betlemme è nato gesù

Der Mond zeigt zwischen den Wolken
einen zahnlosen Mund
die Hähne der Wetterfahnen
halten den Gesang in der Kehle zurück
ein Stern leuchtet auf dem Hügel
eine Höhle wird hell
in Bethlehem ist Jesus geboren

*

un libro
che hai amato
lo riconosci
anche al buio
tocchi il dorso
sfogli le pagine
le carezzi
come il volto
della tua donna
trovi il taglio
dei suoi occhi

ein Buch
das du geliebt hast
erkennst du
auch im Dunkeln
berührst den Rücken
blätterst die Seiten um
streichelst sie
wie das Gesicht
deiner Frau
findest den Schnitt
ihrer Augen

*

la sera avanza
tra i limoni
appoggiandosi
a un raggio di sole
ha un garofano
rosso all’occhiello
gli occhi di un geco
puntano il tramonto
come il due
di un dado gettato
sul tappeto verde
ragazza che cammini
verso la lavagna del mare
disegna con gesso verde
la linea dell’orizzonte
quando sarà buio
non avere paura
verrò io a prenderti
per mano
anch’io sono solo

Der Abend schreitet fort
zwischen den Zitronenbäumen
er stützt sich
auf einen Sonnenstrahl
er hat eine rote Nelke
im Knopfloch
Augen eines Mauergeckos
zielen auf den Sonnenuntergang
wie die Zwei eines Würfels
auf den grünen Teppich geworfen
Mädchen das zur
Tafel des Meeres schreitet
male mit grüner Kreide
die Linie des Horizonts
wenn es dunkel wird
hab keine Angst
ich werde kommem und dich
an die Hand nehmen
auch ich bin allein

*

sono lo specchio che non ha
memoria
il muro che sente tutto e non dice
niente
il santino silenzioso tra le pagine
di un libro di preghiere
il vecchio che s’innamora
il frinire di una cicala che si svuota
il pianoforte scordato che nessuno
suona
la chiave di una porta murata
quello che ti ha regalato per dirti t’amo
un sanguinello rosso come il cuore
quello che ha paura a sfiorarti
perché potresti essere l’immagine
riflessa di un sogno nello specchio
dell’anima

ich bin der Spiegel der
kein Gedächtnis hat
die Mauer die alles hört und
nichts sagt
das stille Heiligenbildchen in den Seiten
eines Gebetbuches
der Alte der sich verliebt
das Zirpen einer Grille die sich leert
das verstimmte Klavier das keiner
spielt
der Schlüssel einer zugemauerten Tür
der dir
eine Blutorange geschenkt hat
rot wie das Herz
um dir zu sagen
ich liebe dich
du der Angst hat dich zu berühren
denn du könntest das Bild sein
das in einem Traum
im Spiegel der Seele erscheint

*

i siciliani
sono come il fumo
di un toscano
li distingui
tra mille aromi
sono abbarbicati
sulle rocce dell’isola
come capperi
odorano di salmastro
e limone

Die Sizilianer
sind wie der Rauch
einer toskanischen Zigarre
du unterscheidest sie
unter tausend Aromen
sie sind
an den Felsen der Insel geklammert
wie Kapern
sie riechen nach Salz
und Zitronen

*

fu un giorno segnato in rosso
un crepuscolo
la nostra ombra diventava
uno spaventapasseri
ci baciammo
non ricordo dove
c’era il rumore del mare
era di agosto
eri così bella che sembravi
una metafora del sole
oggi ti vedo tra la folla
hai i capelli bianchi

Es war an einem rot angestrichenen Tag
Dämmerung
unser Schatten wurde
eine Vogelscheuche
wir küssten uns
ich erinnere mich nicht wo
Meeresrauschen
es war August
du warst so schön dass du
eine Metapher der Sonne schienst
heute sehe ich dich in der Menge
du hast weiβes Haar

 

Testi di Emilio Paolo Taormina, tratti da “Un posto all’ombra / Ein platz im schatten”, Giuliano Ladolfi Editore, 2025.Traduzione in tedesco di Angela Hallerbach. Nota in quarta di copertina di Salvatore Sblando.

 

NOTA BIOBIBLIOGRAFICA

Emilio Paolo Taormina è nato a Palermo nel 1938. Sue opere sono state tradotte in albanese, armeno, croato, francese, inglese, portoghese, russo, greco, tedesco, spagnolo, ebraico, polacco. Ha pubblicato molti libri di poesia e sei romanzi, tra cui Archipiélago, ed. Plaza & Janés, con testo a fronte spagnolo di Carlos Vitale. Barcellona 2002, La stanza sul canale, Palermo 2005, Lo sposalizio del tempo, edizioni del foglio clandestino, Sesto San Giovanni, 2011, Le regole della rosa, edizioni del foglio clandestino, Sesto San Giovanni, 2014, La cengia del corvo, edizioni del foglio clandestino, 2016 e con testo a fronte spagnolo di Carlos Vitale, ed. peccata minuta, Barcellona 2016 e con testo a fronte in armeno di Hiacob Symonian, Erevan, 2016, Cronache da una stanza, ed. l’arciere del dissenso, 2017, Palermo, Gelsi neri, ed. la linea dell’equatore, 2018, Parnassius apollo, ed. l’arciere del dissenso, 2018, Il giardino dell’elleboro, ed. la linea dell’equatore di Fabrizio Orlandi, 2019, nel 2020 Il sorriso del tulipano, nel 2021 Ore piccole e nel 2023 Poesie scritte all’aria aperta (tutte e tre con Giuliano Ladolfi). Dopo Il fonografo a colori del 1970 ed. Siculiana, Palermo, ha pubblicato molti quaderni e libri con il logo l’arciere del dissenso e la Forum quinta generazione di Giampaolo Piccari. Da cinquanta anni non partecipa a premi letterari. In prosa ha pubblicato: Elvira des Palmes, Palermo 1991 (ristampa Giuliano Ladolfi, 2022), La pioggia di agosto, Marina di Patti, 1993, Il giusto peso dell’anima, Palermo, 1999, Inchiostro, Sesto San Giovanni. 2011, Passeggiata notturna, ed. l’arciere del dissenso.
emiliopaolo@taormina-bendrien.it

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Poesia sabbatica: “13 Al vivere”

08 sabato Nov 2025

Posted by Francesco Palmieri in POESIA, Poesia sabbatica

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13 Al vivere, Francesco Palmieri, Hai spezzato il ramo

 

13

AL VIVERE

prima ti sei preso l’infanzia
…quando rondini festose sfrecciavano d’azzurro
intorno ai campanili puntati verso il cielo
dove si credeva dimorasse Dio
ed angeli a schiere, uno per ognuno,
a vigilare il passo a noi che avevamo ancora
un piede sulle nuvole e pensieri con le stelle…

poi anno dopo anno il sodo dei garretti
che correvano puledri
col vento alle criniere
nei giorni all’infinito
e nulla era mortale…

poi vennero gli istanti
del tempo che ti insegna
che qui non c’è durata ma spazi di stagione
che prima è seme e fiore
e poi frutto che aggrinzisce,
la polpa che marcisce

(e fu l’amore dolce di una ragazza azzurra
che diventando donna si fece cielo d’inverno)

e poi vennero anche i morti
che uno dopo l’altro
ti hanno lasciato solo
e infine lo hai capito
che qui sei solamente un numero
in fila per la strage…

adesso ti rimane il fiato
e ancora giorni da camminare,
mattinate al sole e il mare che respira,
il pane e il companatico
e un frutto per finire,
due occhi di ragazza con la gonna a fiori
a ricordarti che l’amore
è stato un gioco rosa,
un tempo dei miracoli
quando ad ogni morte
seguiva resurrezione
e infine il pensiero atroce
di un Cristo che spirato
mai più è sceso dalla croce…

se tu qualcosa hai dato,
l’hai poi strappato a brani,
rimane qualche residuo
ma senza le melodie altissime
di quando si credeva
di avere nelle tasche
l’amuleto portafortuna,
il rotolo lasciapassare
firmato da quel Dio
che per sentito dire
aveva fatto buone
la terra e tutte le cose.

febbraio 2023

 

Francesco Palmieri
(dalla raccolta inedita “Hai spezzato il ramo”

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Venerdì dispari

07 venerdì Nov 2025

Posted by frantoli in POESIA, Venerdì dispari

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Francesco Tontoli, Saper piangere

Saper piangere

I
Con l’occhio annegato di nuovo nell’olio
cosa mi tocca vedere del mondo
una patina di vetro smaltato
che deforma leggermente le ombre.
Vorrei non dirlo con questa voce
e nemmeno con l’altra, la voce dei ciechi
che galleggia nella gola e non cresce
abbastanza ma descrive precisa
non ciò che si vede ma il suo contrario
il vedere capovolto, l’imperfetto, il sublime
ciò che non può inscriversi in nessuna forma
e che custodisce la sua vecchia funzione
ormai silenziosa e caduta in disgrazia
destinata ad essere un occhio
che guarda per sempre, fino a morirne
l’altro lontano e oscuro sé stesso.

II
Quando ti entrano negli occhi
con gli strumenti necessari
indagano fino alle radici e ai nervi
spargono un olio santo e benedetto
per rendere la vista scivolosa e durevole.
Si odono i trapani e gli scalpelli
tracciare le linee giuste di scasso
che ti riportano con pazienza alla luce
attraverso lo scavo dei tunnel.
L’organo viene smontato minuziosamente
e puoi sentire ciò che accade
ai frantumi di vetro
durante le discussioni e gli scambi
di chi lavora intorno al tuo osso luminoso.
Pezzetti sparsi di colori non ancora associati
segni di vernice sul prisma dei Pink Floyd
fantasie che ti giungono dal mondo di Lucy
nel suo cielo di diamanti
con le esperienze psichedeliche dei buoni
vecchi maestri di cerimonia di quegli anni.
Potresti addirittura uscire risorto
dal tavolo operatorio ma solo per poco.
Se si ritorna a guardare pensosi e dubitativi
gettando di nuovo l’occhio sul mondo
possono presentarsi imperfezioni e disastri
che il chirurgo non attribuirà mai al suo
cattivo lavoro, ma alle cose e agli uomini
che non sono più gli stessi, irriconoscibili e oscuri.

III
Mi dici cose che arrivano da chissà dove
ma io non sono sicuro che a ripeterle
riuscirei a riportarti in vita.
Così ci parliamo sapendo
che le frasi e perfino le pause
sono come le pietre dei ponti
e gli archi maestri
che dividono territori confusi
diventano sguardi sugli abissi.
La tua voce mi arriva dall’acqua
che mi corre negli occhi
e da lì una lacrima che cerca una via
si ferma all’orecchio e lo colma
come fosse una coppa.
Io sto disteso a guardare
un soffitto che non vedo
ma ascoltando sento gocciolare
tutto l’udibile e l’invisibile.

IV
La sala d’attesa all’ambulatorio
è piena di gente che misura
la propria capacità di vedere
strizzando l’occhio buono
e lasciando che l’occhio malato
vaghi nel vuoto e attraversi i corpi
i volti, i cartelli che segnalano le uscite.
Si cerca di leggere la luce e tradurla
si interpreta il sorriso del vicino
sperando sia davvero sorriso
la smorfia deforme che si intravede
dalla finestra rossa della pupilla.
Si discute sui metri di luce e sugli anni
il percorso ha i suoi tempi
se arriva un raggio sfocato
è una benedizione che può perdersi.
E la coppia più bella che vedo
col monocolo che indosso
è composta da una madre e da un figlio.
Lui è un uomo con gli occhiali chiari e spessi
lei è piccolissima con quelli scuri e spenti.
Si danno la mano e se la consumano.
Poi si danno l’altra mano.

V
La luce è tutto quello che ho
e pensare che nulla al mondo
è più vicino all’idea della vita
è una sorgente a monte
che scende e accende
e trasforma il pensiero.
Pensare che il cieco la sogna
nella sua notte e la tocca
con le mani senza bruciarsi
e che misura lo spazio
con gli anni della sua cecità
Lui conosce per filo e per segno
la sua origine oscura
il punto distante che la inghiotte.
Conosce il suono prodotto
da un cammino interrotto
sensibile al lato del viso con cui la cattura
conosce il sonno e il tempo che dura.
È solo all’oscuro del bacio
che gli viene donato dal raggio
e dall’effetto sottile del suo miraggio.

VI
Il giorno che ho imparato a leggere il cielo
portavo gli occhiali spessi,
e le mosche galleggiavano sul mio orizzonte
come avevano predetto
gli specialisti del ramo.
Sapevo distinguere il vuoto dal pieno
come gli antichi àuguri il volo degli uccelli
e la direzione che prendono le foglie
sul tappeto di un ottobre
malinconico e taciturno.
Mi avevano insegnato a capire
indicandomi gli alfabeti
nelle varie dimensioni
che il peso delle nuvole
varia già alle prime letture
e che alcuni dei grandi blocchi
di materia celeste
sospesi in alto e in basso
senza un motivo apparente
possono essere spiegati
oltre che ai bambini
anche ai vecchi
sfogliati e descritti
nel loro silenzio cifrato
ascoltati nei loro lontanissimi appelli.
Ma non mi è bastato apprendere e divagare
presto ho dimenticato le lezioni di guida
i maestri li ho persi lungo il cammino
diventati troppo numerosi e discordi.
Mi rimane un piccolo orecchio musicale
e una voglia di fermarmi ai lati della strada
quando si formano in cielo cumuli sparsi
pagine e pagine di leggère preghiere.

Francesco Tontoli

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Miriam Bruni legge una poesia di Silvana Stremiz

06 giovedì Nov 2025

Posted by Loredana Semantica in Podcast, POESIA

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Miriam Bruni, Podcast, Silvana Stremiz

Image AI generated

ANIMA

A volte sento di non appartenere a questo mondo;

l’anima mia vaga senza posa tra deserti vasti

e praterie.

Il tempo trascorre e vola via senza spazio

per i sogni,

e scorre sulle mie stagioni ingiallite

così come la mia mano su questi versi

inutili.

Di fronte a me la città illuminata a giorno,

nella notte.

Le infrastrutture d’acciaio,

le auto

veloci e scintillanti, come dardi di fuoco,

nella notte.

Le insegne dei bar, la gente che passa nella sua gelida indifferenza

milioni di anime che passano lentamente

nella notte.

Ma i miei occhi vedono il passo furtivo di un gatto

randagio.

Ed il mio cuore sente un fiore che sboccia in una piccola aiuola.

Forse per questo mi sembra d’essere

un poeta.

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Una poesia di Valdo Immovilli

05 mercoledì Nov 2025

Posted by Loredana Semantica in POESIA

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Valdo Immovilli

immagine generata con IA

Questo post aderisce all’iniziativa Contro ogni guerra


Prima di tutto, mi arrendo.
Depongo tutte le mie potenti armi:
un vecchio fucile arrugginito,
un tirasassi quasi nuovo,
una pistola ad acqua
con la quale a suo tempo
ho vinto numerose battaglie.
Lascio tutto:
un piccolo cavallo di legno
e dieci soldatini.
Anche le unghie e i denti,
per evitare un ripensamento
all’ultimo istante.

Una manciata di foglie

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Corpi Narrati Voci Incise – Poesia, arte e musica per una cultura del rispetto

04 martedì Nov 2025

Posted by Loredana Semantica in Comunicati stampa, INTERAZIONI, Segnalazioni ed eventi

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Sabato 8 novembre 2025, alle ore 17:00, presso i Portici Comunali “Paolo Di Pietro” di Priverno (LT), si terrà l’evento “Corpi narrati Voci incise”, un incontro ad ingresso libero e gratuito che unisce poesia, arte e musica per riflettere insieme sul tema della violenza di genere e sulla costruzione di relazioni sane e consapevoli. Nel corso della serata verrà presentato il libro di poesie “Di un’altra voce sarà la paura” di Yuleisy Cruz Lezcano, un’opera intensa che affronta il dolore e la rinascita attraverso la parola poetica. La relatrice dell’incontro sarà la pittrice e poetessa Ombretta Del Monte, che guiderà il dialogo sul potere dell’arte come strumento di elaborazione emotiva e di cambiamento personale e collettivo.

Durante la presentazione l’autrice del libro Dottoressa Yuleisy Cruz Lezcano parlerà anche di come riconoscere e gestire emozioni complesse come rabbia, colpa e vergogna, del valore delle relazioni equilibrate, della cultura del consenso e dell’importanza di una comunicazione positiva come base del rispetto reciproco. Ad arricchire l’atmosfera, interventi musicali a cura di Miriam, Clementina e Mario Di Giulio, che accompagneranno la serata con brani ispirati al tema dell’incontro.In occasione dell’evento sarà inaugurata la mostra pittorica di Giuseppe Zanda, le cui opere interpretano visivamente i temi della vulnerabilità, della forza e della rinascita femminile. La mostra sarà visitabile dall’8 al 16 novembre 2025 presso i Portici Comunali.“Corpi narrati Voci Incise” è un’iniziativa promossa con il patrocinio del Comune di Priverno e della Pro Loco Priverno APS, che confermano il proprio impegno nella promozione di una cultura del rispetto e della sensibilizzazione attraverso l’arte in tutte le sue forme.

L’evento rappresenta un invito aperto alla cittadinanza a partecipare, ascoltare e condividere un momento di crescita, empatia e consapevolezza.

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Anna Maria Bonfiglio, “Liturgia dei giorni”, Prometheus Editrice, 2022.

03 lunedì Nov 2025

Posted by Deborah Mega in POESIA

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Anna Maria Bonfiglio, Liturgia dei giorni

 

da Spartenze

 

MATER

D’estate – nel letto accanto alla mamma –
onoravamo il silenzio
nella penombra del meriggio
che persiane socchiuse infrescavano.
Sul tetto ombre che il sole – filtrando
dalle stecche di antico castagno –
formava in disegni.
Le ombre, diceva la mamma, e noi –
dormienti ostinati a resistere al sonno –
a ficcare la testa sotto il cuscino.
Ritornano a volte frammenti sparuti
di minima vita
specchi nei quali stentiamo a trovare
i noi stessi di allora.

 

A RICOMPORRE IL CERCHIO

Più triste sulla pietraia il passo
dopo la canzone degli abbracci
e la parola ombra sul filo
dell’assennata verità.

Dell’indagata geometria alga
segreta nei discoperti contorni.

Non basta a ricomporre il cerchio
la misura del volo il cappio sciolto
il ramo di ginestra ad infiorare il seno.

 

IL PASSO BREVE

Si è fatto breve il passo
e il filo si assottiglia
per l’uso dei molteplici rammendi.
È vano ricondursi a scale cieche
a crediti insoluti
all’alba magra – quando fra veglia
e sonno il margine s’accorcia –
s’affollano presenze insospettate.

Il giorno che s’annuncia
porta il sapore
del tempo che ci lascia.

 

SUGHERI

Ritornano gli stessi desideri
di quello che fu tempo di scontenti.
Affiorano come sugheri marci
lasciati a galleggiare
fra canti di sirene e naufragi.
Si tinge allora l’orizzonte
di antiche non sopite nostalgie
e il vecchio tempo affonda negli abissi
col peso di remote fantasie.

 

da A Palermo nessuno

 

16.

Non è castigo il Sud
per quelli come noi
che sulla bocca
portano il sorriso
e dentro gli occhi
l’ombra dei ricordi:
il Santo Nero
la Vergine del Mare
le bàsole battute
dai carretti
e i pescatori che
al Molo di Levante
si fanno pietra di marna
e di arenaria

 

da Oracoli

 

DOPPIO VOLTO

Ancora sei entrato nel mio sonno
col doppio volto del divino Giano.
Sfuggente e ambiguo
fra la folla dei tanti tuoi sodali
mi hai rinnegato
ancora prima che cantasse il gallo.

 

OFELIA

Ditemi che è vero
che un’altra vita
riscatterà questo dolore
fra l’anima e le ossa.
Non so per quale colpa
offerta al sacrificio
pago il pedaggio:
un serto fra i capelli
e abbandonarsi all’acqua
galleggiare.

 

A LUCI BASSE

Si spengono le luci poco a poco
camminano sull’orlo dei bicchieri
le favole di ieri.
Un angelo nascosto fra i cuscini
del divano saluta con la mano.
Restano foglie morte sparse sul davanzale
e un velo freddo sul piatto decorato
– antico déjavu reiterato –
fra allegre canzonette e un tango a media luz
a gloria del passato.

 

INNO

Dai fasti degli antichi amori
solo tu sopravvivi – rara
e insostituibile risorsa
cura e conforto al male della vita.
Viaggio nell’impossibile realtà
del sogno, umile e regale
presenza che mi conduci per mano
all’ultimo solitario cammino,
con te – divinità taumaturga
e laica, inferno e pace
al tormento dell’anima sgualcita –
ritorno bella e giovane fanciulla
illusa e ancora amante della vita,
Parola benedetta –
Poesia.

 

Anna Maria Bonfiglio, testi tratti da “Liturgia dei giorni”, Prometheus Editrice, 2022.

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“Novembre” di Giovanni Pascoli

02 domenica Nov 2025

Posted by Deborah Mega in POESIA

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Giovanni Pascoli, Myricae, Novembre

creata con IA su Freepik

 

Gemmea l’aria, il sole così chiaro
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l’odorino amaro
senti nel cuore…

Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
sembra il terreno.

Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile. È l’estate,
fredda, dei morti.

 

Giovanni Pascoli, da “Myricae”, 1891

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Poesia sabbatica: “5”-“9”

01 sabato Nov 2025

Posted by Francesco Palmieri in POESIA, Poesia sabbatica

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Frammenti, Francesco Palmieri

 

5

c’era ghiaccio stamattina

a pozze

 

e foglie sgretolate

gli alberi più spogli

 

appena un po’ di luce

sui tetti delle case

 

ed io

da uno spicchio di luna

a cercarmi qui a terra

dove a cumuli, ad anni,

fuggono fiori e stagioni

 

ed io una forma a svanire

su un pianeta qualunque.

 

***

9

 

è che non ha cura il vivere

è un male terminale

un non poterci nulla

 

perché lo sai che il tempo

è quello che hai perduto

quello che non ti basta

quel che ne resta appena.

 

Francesco Palmieri

(dalla raccolta inedita “Frammenti”)

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Venerdì dispari

31 venerdì Ott 2025

Posted by frantoli in POESIA, Venerdì dispari

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Al mercato dei bambini morti, Francesco Tontoli

Al mercato dei bambini morti
un tanto al chilo, tra i flash
ognuno ha tra le braccia il suo fagotto
ogni mamma insanguinata porge il viso
alla televisionata riportata nel salotto.
Certamente questi morti han frainteso
non volevano morire su un social
santificati dai deliri di martirio dei padri
in bella posa di vita sorridenti o appisolati
morti meglio di altri bimbi siriani o israeliani non mercificati.

Se è solo una questione di confine fra due stati
lo stato di confine con la vita ha un passaporto
timbrato da due divinità entrambe decise a cancellarsi.
La diplomazia celeste che ama farsi ritrarre
con bambini sorridenti tra le braccia.

(2013)

Francesco Tontoli

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Miriam Bruni legge una poesia di Piera Badoni

30 giovedì Ott 2025

Posted by Loredana Semantica in Podcast, POESIA

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image AI generated

Addio

ti lascio la mia voglia di vivere

di amare

e di conoscere il mondo

forse sarei stata

una buona mamma

in una piccola casa

con un piccolo orto

ma il destino

mi ha lasciato

un giardino infinito

e mille strade

Piera Badoni

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Una lettura di Cristina Bove

28 martedì Ott 2025

Posted by maria allo in La società, Podcast, POESIA

≈ 3 commenti

Questo post aderisce all’iniziativa Contro ogni guerra

Cristina Bove legge una sua poesia

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Gianni Marcantoni, 7 poesie edite

27 lunedì Ott 2025

Posted by Deborah Mega in POESIA

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Cuoia, Gianni Marcantoni

Dietro di lui agili giocatori si camuffano,
sembrano figure gioviali,
narratori che facilmente voltano faccia,
in cerca di una trama credibile da trovare.

E poco più in là si scopre un’inedita deriva:
un avversario è mancato, un condottiero
è mancato, un intellettuale è mancato,
un esploratore è mancato, un disertore
è mancato, un miracolato è mancato.
Non sono mancati il pietismo, l’astio, l’inganno:

il siero della mezzanotte è comparso
nel viaggio già iniziato

*

Mi dirai probabilmente
che non hai amato nessuno
e che hai preferito non legarti a nessuno.
Non avere scoperto
in quale punto si trovasse la felicità,
che tanto hai cercato in mille
solitudini, in migliaia di cunicoli inaccessibili.

Ma non è possibile darsi un senso,
una motivazione precisa,
il pensiero è destinato a fingere
e a scontrarsi nell’impermanenza.

Questo mare è la navigazione di noi stessi,
soltanto gli uccelli in volo cambiano
e muoiono dentro un paesaggio,
dove noi veniamo rimossi
dopo un semplice sguardo

*

Un gesto compiuto resta immutabile,
più non può pesare questo organismo
che ha smesso di combattere.
Non guardare distrattamente ad altro,
nelle vicinanze non potresti trovarmi,
né sollevarmi dai tuoi folti tralci.

È presto terminato il nostro pasto,
divenuto sgradevole quel che ancora
stavamo masticando.
Ma finge il tutto e urta, fa chiasso,
dirompe e spaventa
da sembrare sbattere (con potenza)
un arnese contro un bicchiere

*

Il tuo arrivo causa qualcosa
che sopporto a fatica.
Tutto scaturisce da questa continua allerta
che vanifica il riposo
comprimendo una schiena scoperta.

Una tortura istantanea
nella muscolatura che schiarisce ardendo.

Una lunga permanenza
che vortica senza mai trascinarsi.

La piega malsana e approssimata
di una sommatoria di scarti

*

Il frutto si è staccato troppo tardi,
ma non v’è motivo di preoccuparsi,
i verdi campi sono rimasti soli.
Compaiono scenari di vette commosse,
dai cedri liquefatti si sentono cole
stagliare le conformazioni dei monti,
riprodurre innumerevoli cespugli adorni.

Da est passano leggeri piovaschi,
quel terreno accidentato
che al buio-riempito-modellato preannuncia,
precede (da chissà quale versante)
un allarmante rombo

*

Sono caduto dentro uno spazio ristretto,
ma non voglio rialzarmi – no, non mi rialzerò.
Lasciate pure che tutto scorra
nella nutrita colata di pioggia,
in pendenza dentro un rivolo incustodito.
Dormire sdraiato a bocca aperta
sopra una stabile lastra fredda,
fra spine erose dal chiarore
e un colpo sempre in canna.

Lasciate che il fumo di zolfo
entri dentro – fino a giù giunga –
che il cuore si distrugga
in un flutto d’aria sparsa

*

In verità mi sei indifferente,
e penso di essere un incauto ospite
nel bosco seccato.
Nebbie cadono da un calore tenue,
sono di fango-colmo, reduce-sanato,
un celeste effluvio di ortensie.

Riposo nella cella chiusa;
tu accogli il mio lamento, ne resti sollevato.
Non sono mutevole,
non altro che una precipitazione,
la cui estensione è la doratura,
lo snodo; preambolo di un abbaglio

 

Gianni Marcantoni, “Cuoia” (2025, Fara)


Gianni Marcantoni (San Benedetto del Tronto, 1975) vive nelle Marche. Laureato in Giurisprudenza, ha iniziato fin da adolescente a comporre versi. Le sue opere poetiche: “Al tempo della poesia” (Aletti, 2011), “La parete viva” (Aletti, 2011), “In dirittura” (Vertigo, 2013), “Poesie di un giorno nullo” (Vertigo, 2015), “Orario di visita” (Schena, 2016), “Ammessi al paesaggio” (Calibano, 2019), “Complicazioni di altra natura” (Puntoacapo, 2020), “Panorama dei lumi” (plaquette, Puntoacapo, 2021), “Sedime” (Fara, 2024). Inserito nella Enciclopedia dei Poeti Italiani Contemporanei (Aletti, 2017) nonché su Italian Poetry, sito ufficiale dei poeti italiani dal Novecento in poi, diviene nel 2020 co-fondatore di Wikipoesia. Sue citazioni e liriche compaiono in diverse antologie AA.VV, cataloghi d’arte, siti poetici, blog letterari, periodici e riviste. Ospite in alcune rubriche letterarie e reading, ha ricevuto vari premi e riconoscimenti.

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Poesia sabbatica: “24”

25 sabato Ott 2025

Posted by Francesco Palmieri in POESIA, Poesia sabbatica

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24, Francesco Palmieri

 

24

non ho più neanche un pianto

e nemmeno il balzo

di un passero nel vento

*

non ho più un orizzonte

a cui vorrei arrivare

e nemmeno un oltre

dove c’è Dio ad aspettare

*

e non mi sconvolge

il pensiero che un giorno sconosciuto

sarò un altro corpo morto

non più di questa terra

ma in un lontano cielo

o da nessuna parte

*

è  che stanca il vivere

quando capisci infine

che giorno dopo giorno

vivere è un togliere

a quel tuo respiro immenso

di quando da bambino

lanciavi i tuoi sogni in cielo

ed era ogni tuo grido

il ruggito di un leone.

*

novembre 2024

*

Francesco Palmieri

(dalla raccolta inedita “Hai spezzato il ramo”)

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Venerdì dispari

24 venerdì Ott 2025

Posted by frantoli in POESIA, Venerdì dispari

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Al popolo delle foglie, Francesco Tontoli

Al popolo delle foglie

A noi che piace raccontare le cose come non stanno
quelle cose in bilico che producono metafore

a noi che abbiamo in mente l’autunno
che demolisce e che precipita

a noi che inciampiamo nei tempi
da sistemare nei verbi
e che siamo diventati quelli
che non avevamo in mente di essere

e sempre giochiamo col ricordo
di ciò che siamo stati
compagni temporanei degli alberi
sorpresi a partire trascinati dal primo vento.

A noi e agli altri che verranno
a partire dai tronchi dai fusti ben piantati
a finire in leggerezza e grazia
come in una danza.

Francesco Tontoli

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Premi letterari italiani e il complesso di inferiorità culturale

23 giovedì Ott 2025

Posted by Loredana Semantica in CULTURA E SOCIETA', LETTERATURA

≈ 1 Commento

Di Yuleisy Cruz Lezcano

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Immaginiamo un allenatore di nuoto, che deve preparare una squadra italiana a gare importanti. Gli atleti, a confronto con i loro coetanei stranieri, non brillano: le prestazioni non superano un modesto sei. L’allenatore, però, non può acquistare nuotatori da altri paesi ma deve fare con quello che ha. Così si mette al lavoro: rivede i metodi, ascolta, corregge, sostiene, allena senza sosta. Non aspetta il talento puro come un dono del cielo: lo costruisce, lo coltiva, lo inchioda giorno dopo giorno alla disciplina e al coraggio.
Ora immaginate un allenatore di calcio, che ha sottomano una squadra è mediocre, che non vince. La soluzione è semplice e rapida: si acquistano i migliori giocatori stranieri, si vince, si esulta. Le altre squadre seguono l’esempio. Tutto funziona, finché la nazionale non scende in campo ed è lì, con gli azzurri in campo e lo sguardo mondiale puntato addosso, che si svela l’effetto collaterale: dal 2014, l’Italia non riesce più a qualificarsi ai Mondiali. Perché? Perché non si è mai investito sui giovani italiani, perché è mancato l’allenatore disposto a sporcarsi le mani con il poco che c’era, a riconoscere anche in un sei il punto di partenza per un futuro dieci.
Ecco: lo stesso meccanismo sta erodendo l’editoria italiana. In molti premi letterari, soprattutto in ambito giovanile, il vincitore è spesso un autore straniero. Si premiano le eccellenze esterne, le punte già affilate, i testi già levigati da un sistema editoriale forte, internazionale, ben rodato. I giudici e i professionisti del settore si giustificano con un’argomentazione che suona così: “Gli autori italiani non sono abbastanza bravi” e questa è una diagnosi impietosa che, però, salta una domanda fondamentale: chi li ha allenati, questi autori italiani? Chi li ha selezionati, seguiti, spronati, corretti? Chi ha scelto di credere in loro anche quando si fermavano a un sei?
Come scrive Antonio Franchini in Leggere, possedere, vendere, bruciare, “la scrittura è un mercato. Non necessariamente un turpe mercato, ma un onesto, decoroso, sofferto mercato.” Ma la scrittura vera è, anche, e forse prima di tutto, un’urgenza sorda, un gesto privato, “una necessità istintiva, dolorosa, irriflessa”. E se questa necessità non incontra contesti capaci di accoglierla, sostenerla, renderla leggibile, allora si spegne. Allora il mercato, anche quello decoroso, diventa una macchina che scarta, più che selezionare.
Chi lavora nella formazione sa bene cosa significhi vedere un ragazzo o una ragazza arrivare in aula con uno “straccio di talento”, è fragile, impuro, sporco, ma è lì e ha bisogno di tempo, di fiducia, di errori e di confronto con standard raggiungibili, non con modelli perfetti provenienti da altrove.
Premiare costantemente libri stranieri nei premi nazionali significa, di fatto, dire ai giovani scrittori italiani: “non sarete mai abbastanza”. Ma chi educa alla scrittura sa che nessuno nasce già pronto e che il sei pieno, nel contesto italiano, è spesso già un piccolo miracolo.
Il problema, allora, non è che i premi esistano, è come vengono assegnati. Se il livello medio della produzione italiana è davvero un sei, allora i premi dovrebbero andare a chi raggiunge, con merito, quel sei, dovrebbero essere strumenti per elevare, non per escludere. Premiare significa riconoscere un percorso, non inseguire una perfezione assoluta. Se invece continuiamo a confrontare la scrittura italiana con quella proveniente da paesi che investono molto più di noi in formazione, lettura, accesso alla cultura e filiera editoriale, allora la frustrazione diventa sistemica. Nessuno distingue più la differenza tra chi parte da zero e chi ha fatto un buon cammino. Tutti finiscono nello stesso calderone dell’insufficienza e da lì, è quasi impossibile risalire.

A una giuria seria del romanzo norvegese scritto perfettamente, levigato come una statua scandinava, dovrebbe importare relativamente. Dovrebbe interessarsi molto di più del ragazzino siciliano, o veneto, o pugliese, che ha scritto un racconto pieno di buchi, ma con un’intuizione autentica, con una voce ancora da domare, perché lì, forse, c’è il seme di una letteratura futura.
Sempre che qualcuno si prenda la briga di innaffiarlo. Un premio nazionale assegnato a un autore straniero è una contraddizione. Il gesto, per quanto comprensibile in termini di qualità, ha un impatto educativo disastroso. L’autore straniero sorride, riceve la targa, e poi torna a casa. Noi, invece, qui in Italia, restiamo senza squadra, e continuiamo a ripeterci che nessuno dei nostri vale la pena.
La verità è che, come nel calcio, abbiamo preferito fare i procuratori piuttosto che gli allenatori, abbiamo importato talento senza costruirlo, abbiamo dimenticato che, per andare ai Mondiali, o per avere una letteratura nazionale vitale, serve sudore, dedizione, pazienza e che è meglio andare in campo con una squadra giovane, magari ancora acerba ma allenata con cura, che non andarci affatto.

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“Cucinare non è una cosa semplice” Un racconto di Loredana Semantica

22 mercoledì Ott 2025

Posted by Loredana Semantica in I nostri racconti, PROSA

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Teresa già da trenta minuti parlava all’uditorio, diciotto persone iscritte al suo corso di cucina. Dopo le presentazioni dei partecipanti, aveva illustrato il modo in cui era nata l’idea del corso Cucina e tradizione, la struttura e lo sviluppo del corso, gli argomenti trattati, divisi tra mattina e pomeriggio, nelle tre giornate previste di formazione. I discenti erano tutti giovani, alcuni appena diplomati all’alberghiero, altri, gli uomini soprattutto, single desiderosi di apprendere come cucinare almeno qualche piatto elementare, uno appena separato dalla moglie, un altro appassionato di cucina, qualche moglie, fresca di nozze, che non aveva avuto mai occasione di imparare e diverse giovani donne che volevano maggiore conoscenza dell’argomento. Dopo mezz’ora di illustrazione del corso Teresa pensò bene di entrare nel vivo in modo letterario, proponendo la lettura di  un testo di Gedo Ghiglioli, famoso scrittore di romanzi. Sullo schermo proiettò la pagina dello stralcio scelto e chiarì – A questo punto leggiamo un brano tratto dal romanzo di Gedo Ghiglioli  Pietre di Sicilia, nel quale l’autore si sofferma con  minuzia a descrivere la preparazione del pranzo da parte di Irene, la protagonista del romanzo. Leggeremo a turno per non stancarci. Ognuno leggerà un paragrafo. Vi chiamerò per nome per proseguire la lettura, dal punto in cui il lettore precedente conclude il suo paragrafo.  Poi commenteremo il brano insieme. Tutto chiaro? – Con lo sguardo percorse l’aula per accertarsi che tutti avessero capito, poi proseguì – Andrea comincia a leggere-.

E Andrea iniziò

Irene cominciò la giornata pulendo le cime di rapa. Per Piero, suo marito, intendeva cucinare un primo con le verdure. Piero difficilmente esprimeva desideri, ma giusto il giorno prima glielo aveva chiesto – Domani mi piacerebbe mangiare qualcosa di buono, ma semplice, ecco una primo…una pasta con le verdure -. Il figlio di Irene, Giorgio, dal canto suo, seguiva una dieta dimagrante che il giovedì prevedeva pesce, patate bollite, insalata, spremuta d’arancia. Tutto rigorosamente pesato. Per quel giorno in menù c’erano tranci di merluzzo. Merluzzo che, lessato in brodino, sarebbe stato il secondo di Irene, di primo spaghetti spezzati nello stesso sughetto. Alle dieci del mattino le cime di rapa erano a bollire sul fuoco, mentre Irene lavorava in smart per la sua azienda. Dopo circa quindici minuti spense la fiamma e si concentrò sul lavoro. Più tardi, non appena il display dell’orologio sul personal segnò le 13,00, scattò l’ora dell’azione.

Andrea tacque e Teresa intervenne – Patrizia prosegui tu –

Irene si recò in cucina, con gesti rapidi e precisi, prelevò dal frigo una vaschetta con cinque pomodori e due piccoli peperoni, dal cesto degli ortaggi prese quattro spicchi d’aglio. Il merluzzo non era del tutto scongelato lo pose in un contenitore nel lavello sotto il debole getto d’acqua del rubinetto. I pomodori erano pochi, uno grosso, tondo, maturo e succoso e quattro datterini.  Servivano nella ricetta di ben tre pietanze quel giorno. Erano pochi, ma li avrebbe fatti bastare. I peperoni non erano nel menù, ma stavano perdendo freschezza, perciò decise di cucinarli, ché tagliati ad anelli e fritti in padella erano sempre accattivanti. Per i peperoni usò un padellino e lo mise sul fuoco col bruciatore piccolo. Dentro la padella poco olio, uno spicchio d’aglio, i peperoni tagliuzzati, coperti in modo che non friggessero selvaggiamente, ma con dolcezza. Nel frattempo su un altro fuoco più grande pose una padella media. A quel punto in un lampo d’intuizione si fermò. Si era resa conto che l’incastro perfetto dei tempi richiedeva che prima fosse infornato il merluzzo, la cui cottura richiedeva circa mezz’ora.

-Silvestro è il tuo turno-

Il merluzzo ormai era del tutto scongelato, prese una teglia, la rivestì di carta forno, e dentro versò a occhio un po’ d’olio, poi sminuzzò metà del grosso e succoso pomodoro, spezzettò a piccoli pezzi una cipolletta fresca, aggiunse due cucchiaiate di olive nostrane, scolate dell’olio di conserva, i tranci di merluzzo, l’immancabile pizzico di sale, spolveratina di pepe nero e infornò la teglia. Adesso Irene poteva tornare a gestire la padella media, non prima però di aver data un’occhiata ai peperoni sfrigolanti, ai quali dedicò una mescolatina e un assaggio per regolarli di sale. Finalmente poteva disporre della padella media, il solito giro d’olio a occhio, l’altro mezzo pomodoro succoso e due datterini a pezzetti, due spicchi d’aglio a filetti un pizzico di sale. L’insieme fu messo a rosolare, prima scoperto e poi coperto allo scopo di evitare che violente cotture prosciugassero i succhi. Al momento giusto prese le cime di rapa dalla pentola con una forchetta, tenendole sospese sul tegame per qualche secondo in modo che scolasse l’acqua di cottura, poi le accomodò nella padella. Con una forbice ridusse a tranci grossolani le cimette, avendo cura nel corso dell’operazione di sollevarle dal fondo della padella antiaderente, per non graffiarla.

-Leggi tu, per favore, Antonia-

Era giunto il momento di mettere a bollire l’acqua di bollitura delle verdure dove lessare la pasta.  Nel frattempo i peperoni avevano completato la cottura. Sul fornello piccolo, finalmente libero dai peperoni, Irene pose un pentolino, un poco d’olio, uno spicchio d’aglio a filetti, i due datterini residui, qualche foglia di prezzemolo. Fece rosolare appena i condimenti,  ben presto vi adagiò dentro i due tranci di merluzzo che rosolarono anch’essi, per non più di tre minuti, poi versò nel pentolino un bicchiere d’acqua  e, quando l’acqua giunse a ebollizione, cinquanta grammi di spaghetti spezzati. Intanto anche l’acqua delle cime di rapa bolliva, era l’ora di mettere dentro ottanta grammi di orecchiette per Piero. Il merluzzo al forno era quasi cotto, dieci minuti ancora. Nel frattempo Irene pesò  e lavò accuratamente quattro patate per circa 300 grammi complessivi. Per lessarle decise di usare la pentola a pressione. Erano quasi le quattordici. S’era fatto tardi.

-Vincenzo puoi proseguire-

Piero nel frattempo rincasò. Irene, dopo averlo salutato gli chiese – Vuoi la mollica abbrustolita sulla pasta con le cime di rapa? – Piero risposte di sì. Irene aveva previsto la sua risposta, ma non aveva voglia di cucinare ancora, eppure organizzò anche quest’ultima preparazione. Ma il fatto di farlo controvoglia fu l’occasione per una riflessione intima. Pensò tra sé e sé: cucinare non è semplice, diversamente da quanto crede la maggior parte della gente che non lo sa fare, cucinare è un’operazione complessa. Nel cucinare c’è sapienza, programmazione, pazienza, tempismo, organizzazione, rapidità, precisione. Occorre tenere tante cose sotto controllo, la cucina come una plancia di comando, il piano cottura un cruscotto. Bisogna essere efficienti, rapidi, competenti. Prevedere gli ingredienti necessari, combinarli in una sequenza ragionata. Compiere con sicurezza le operazioni in modo che tutto ciò che si cucina confluisca verso l’ora dell’apparecchiamento e del pranzo.

-Ludovica completa la lettura-

 La pasta nel pentolino col sughetto di merluzzo era cotta, Irene la versò nel piatto. Lasciò i tranci nel pentolino. Nel fornello piccolo, appena liberato, pose un altro padellino senza olio e tostò un paio di pugni di pangrattato. Quando il pangrattato fu dorato, lo accantonò con la forchetta verso i bordi del recipiente, creando uno spazio al centro del padellino dove versò dell’olio e tre filetti di acciuga. Una volta sciolti nell’olio, i filetti, a pochi secondi dalla fine della cottura, furono amalgamati al pangrattato. Irene spense la fiamma. Il pranzo era pronto. La tavola in pochi minuti fu apparecchiata. Incluse la spremuta d’arancia e l’insalata. Tutto in poco più di un’ora. Anche oggi Irene aveva compiuto l’opera. Un’opera di cura della sua famiglia, un impegno svolto con amore. Perché senza amore non viene bene niente, ma l’amore, come la cucina, non è una cosa semplice. E Irene questo l’aveva imparato da bambina.

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Miriam Bruni legge una poesia di Diego Valeri

21 martedì Ott 2025

Posted by Loredana Semantica in Podcast, POESIA

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Si cammina sul filo degli anni

da esperti funamboli.

È un difficile andare ma si va.

E intanto il mondo, attorno,

muta faccia e colore. Senza posa

ogni creata cosa

in poco d’ora ci diventa strana.

E con le cose ci mutiamo noi,

d’oggi in domani.

Solo sta fermo nel fondo di noi

quel nostro tempo primo,

l’infanzia, all’ombra della madre, sotto

il crocifisso piccolo di avorio.

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Diego Valeri, Piove di Sacco, 25 gennaio 1887 – Roma, 27 novembre 1976, è stato un poeta, traduttore e accademico italiano. La sua formazione letteraria avviene attraverso Pascoli, dal quale acquisisce in gran parte il lessico, la sintassi e le forme metriche, il D’Annunzio dell’Alcyone, i crepuscolari e nella sua lirica si avvertono gli influssi di Verlaine e dei post-simbolisti. Il tema principale della poesia valeriana è la natura, una natura che vive autonomamente escludendo così qualsiasi elemento antropomorfico.

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Giancarlo Baroni, “Il mio piccolo bestiario in versi”, puntoacapo Editrice, 2025.

20 lunedì Ott 2025

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA, Segnalazioni ed eventi

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Giancarlo Baroni, Il mio piccolo bestiario in versi

 

Prefazione di Mino Petazzini, postfazione di Alfredo Rienzi.

Illustrazione in copertina di Vania Bellosi

 

PRIMA PARTE: ANIMALI IN VERSI

Da bambino preferivo le figurine degli animali a quelle dei calciatori; la passione continua. Qualche anno fa ho immaginato che la mia pagina facebook fosse una piccola Arca di Noè dove, ogni settimana, entrava un animale descritto nei versi di poeti italiani contemporanei; da lì ha origine questo mio piccolo bestiario in versi.

La poesia di Saba A mia moglie inizia così: «Tu sei come una giovane, / una bianca  pollastra»; i primi due versi de La capra recitano: «Ho parlato a una capra. / Era sola sul prato, era legata»; la poesia La gatta dice: «La tua gattina è diventata magra. / Altro male non è il suo che d’amore». Testi che mantengono una freschezza che il tempo non altera. Alla fine degli anni Quaranta, Saba scrive una raccolta intitolata Uccelli, titolo anche della seguente lirica dove manifesta tutto il suo amore per le creature alate: «L’alata / genia che adoro – ce n’è nel mondo tanta! – / varia d’usi e costumi, ebbra di vita, / si sveglia e canta». Segue nel 1951 Quasi un racconto, che contiene Dieci poesie per un canarino; scelgo la prima dalla giocosa ironia.

A un giovane comunista

Ho in casa – come vedi – un canarino.
Giallo screziato di verde. Sua madre
certo, o suo padre, nacque lucherino.

È un ibrido. E mi piace meglio in quanto
nostrano. Mi diverte la sua grazia,
mi diletta il suo canto.
Torno, in sua cara compagnia, bambino.
[…]

(Antologia del Canzoniere, Einaudi, 1966)

Gli animali da sempre appassionano i poeti e ispirano i loro versi. Penso a due indimenticabili e celebri poesie di Montale: Upupa, ilare uccello calunniato e L’anguilla. L’upupa venne pubblicata nel 1925 in Ossi di seppia. Il fotografo Ugo Mulas scattò nel 1970 un famoso ritratto, in bianco e nero, di Montale: inquadrati di profilo, il poeta e l’uccello (imbalsamato) “calunniato dai poeti” si guardano intensamente, come se
l’uno si specchiasse in qualche modo nell’altro, come se dividessero con amichevole complicità la scena. L’anguilla fu pubblicata su rivista nel 1948 e ne La Bufera e altro nel 1956; scrive Francesco Zambon nella Premessa del volume L’iride nel
fango (Pratiche editrice,1994): «La critica è pressoché unanime nel giudicare L’anguilla uno dei vertici assoluti della poesia di Montale e di tutta la poesia italiana del Novecento»:

L’anguilla

L’anguilla, la sirena
dei mari freddi che lascia il Baltico
per giungere ai nostri mari,
ai nostri estuari, ai fiumi
che risale in profondo, sotto la piena avversa,
[…]

Il cane, il gatto, il pesce rosso, il riccio, lo struzzo, la lince, la pecora, il maiale, la volpe, la mucca, il pollo, il leone, l’oca, il passero, la gallina, la capra, la medusa, la tigre, l’elefante, la tartaruga, il cammello, il bradipo, la chiocciola, il pellicano, il
serpente, il piccione, la locusta, il pappagallo, la scimmia, il camaleonte, il panda, l’orso, la foca, lo scarabeo, il delfino, il lemure, la giraffa, il gufo, il rospo, la balena, sono gli attori e i titoli delle quaranta poesie com rese nella raccolta di Gabriele Galloni Bestiario dei giorni di festa. La maggior parte dei testi è composta di tre versi endecasillabi, il primo fa rima con il terzo. Uscito postumo nel 2020, il libro è stato stampato dalle Edizioni Ensemble con una nota critica di Ilaria Palomba.

Il camaleonte

Somiglia sempre a quello che non è.
A volte è un albero, a volte un’altra bestia –
di notte capita che sembri me.

[…]

Per quanto mi riguarda, ho composto parecchi versi sugli animali, preferibilmente sui volatili. A questi ultimi ho dedicato un libro intitolato I merli del Giardino di san Paolo e altri uccelli. Questa poesia racconta invece di bestioni estinti:

Dinosauri

Il meteorite si presentò
senza concedere alla terra
il tempo per riflettere. La voragine
si spinse così lontana
da impedire alla vista di abbracciarla.
Si alzava un muro polveroso
che faceva supporre cominciasse

da capo la creazione.
Nei dintorni i rettili
morivano soffocati, dinosauri erbivori
scambiarono l’apocalisse
per l’incedere di una specie
colossale di Tirannosauro.

(Cambiamenti, Mobydick, 2001)

[…]

Fra le varie poesie ispirate a Erba dagli amati gatti, quella che prediligo è la seguente:

Il gatto archeologo

a Francesca
[…]

Forse anche il gatto dei Fori
ode con sue lunghe vibrisse
quel che raccontano le pietre
sotto i cieli di tante stelle fisse.

È notte: il gatto archeologo
parte per ricerche di storia romana
ormai nutrito dalle pie donne
nelle aiuole tra archi e colonne.

(Tutte le poesie, Oscar Moderni Mondadori, 2022)

Il critico e poeta Paolo Polvani ha dedicato ai gatti poesie disseminate in diverse raccolte. Questa, dove una gatta innamorata canta alla luna, credo sia inedita:

La gatta per tutta la notte ha cantato

Affacciata sul tetto come a un davanzale
la luna ascoltava. La gatta per tutta la notte
ha cantato. Un richiamo ardente, una lama
di fuoco. Nel vicolo scuro implorava.
Il pozzo del silenzio ne vibrava.
Gli alberi smuovevano le chiome in un sussulto lieve.
La gatta era una piccola dea del buio,
delle finestre chiuse, gorgheggiatrice dolorosa,
assoluta sposa, perfetta dispensatrice
di promesse, voce di tutti i gatti antenati in lei,
geometrie di occhi, vibrisse, la coda voluttuosa,
un calcio negli stinchi del pudore,
una messa cantata dell’amore.

 

SECONDA PARTE: ANIMALI FANTASTICI

Il Basilisco re dei serpenti

Nel libro ottavo della Storia naturale, dedicato agli animali terrestri, Gaio Plinio Secondo scrive (traduzione e note di Elena Giannarelli, Einaudi, 1983) a proposito del serpente basilisco: «non è più lungo di dodici dita e lo si riconosce per una macchia bianca sulla testa, a mo’ di diadema. Col suo sibilo mette in fuga tutti i serpenti, e non muove il suo corpo, come gli altri, attraverso una serie di volute, ma avanza stando alto e dritto sulla metà del corpo. Secca gli arbusti non solo toccandoli, ma col suo
soffio, brucia le erbe, spezza le pietre: tale potenza ha questo pericoloso animale. Una volta, così si credette, un esemplare fu ucciso da un uomo a cavallo con un’asta e dal veleno salito attraverso di essa non soltanto il cavaliere, ma anche il cavallo furono annientati». Se anziché con un drago San Giorgio, in groppa al suo destriero, si fosse scontrato con un basilisco trafiggendolo, non sarebbe uscito trionfante e vivo dallo scontro. Oltre al nefasto potere di inaridire e intossicare tutto quanto lo circonda, gli viene attribuito anche quello di uccidere con lo sguardo. Vengono immediatamente alla memoria le tre Gorgoni della mitologia greca che pietrificano chi le guarda. Una di loro è Medusa; Caravaggio nel 1598 (opera custodita alla Galleria degli Uffizi) la raffigura così: sguardo sconvolto e allucinato, bocca spalancata in un urlo di disperazione e di dolore, un groviglio impazzito di serpi attorcigliato attor-
no a testa e faccia, un fiotto di sangue che sgorga copioso dal collo dopo che Perseo glielo ha mozzato. Animale ibrido (testa, zampe e ali da gallo; coda di serpente), il basilisco nasce da un uovo di gallo covato da un serpente, da un drago o da un rospo. Vittore Carpaccio, nel dipinto San Trifone ammansisce il basilisco (Scuola di San Giorgio degli Schiavoni, a Venezia), lo dipinge però, nel 1507, come una be-
stia a quattro zampe di taglia media con la testa e le orecchie da asino, corpo leonino, ali di uccello e coda serpentesca. D’altra parte gli animali fantastici subiscono nell’immaginario individuale e collettivo cambiamenti evidenti, ad esempio le Sirene, come ho già detto, vengono pensate inizialmente come donne uccello e successivamente come donne pesce. San Trifone non è il solo capace di placare il basilisco, anche il vescovo San Siro, a Genova, lo rende innocuo. Affronta, armato del solo pastorale, un basilisco che si nasconde dentro un pozzo da dove ammorba l’aria e lo allontana verso il mare. Poco distante dalla chiesa dedicata al Santo, su una
lapide marmorea in latino è scritto: «Qui è il pozzo dal quale il Beatissimo Siro Arcivescovo di Genova fece uscire il terribile serpente di nome Basilisco». Anche se non possiede stazza e mole del drago, il basilisco, grazie al suo straordinario veleno nocivo e letale, è considerato il “basileus” (il re) dei serpenti. Scrivono Jorge Luis Borges e Margarita Guerrero nel Manuale di zoologia fantastica (Einaudi, 1962, traduzione di Franco Lucentini): «Ai suoi piedi cadono morti gli uccelli e imputridiscono i frutti; l’acqua dei ruscelli a cui s’abbevera rimane avvelenata per secoli. […] L’odore della donnola lo uccide. Nel Medioevo, si diceva che l’uccidesse il canto del gallo; e i
viaggiatori esperti si provvedevano di galli per attraversare contrade sconosciute. Altra arma era uno specchio: il basilisco è fulminato dalla sua propria immagine».

Giancarlo Baroni, “Il mio piccolo bestiario in versi”, puntoacapo Editrice, 2025.

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Poesia sabbatica: “134” e “155”

18 sabato Ott 2025

Posted by Francesco Palmieri in POESIA, Poesia sabbatica

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Tag

134, 150, Francesco Palmieri

 

134

 

 

 

ho gettato una moneta

 

nell’acqua di una fonte

 

chiamando te per nome

 

come in un desiderio

 

quando piovono comete

 

 

 

ma tu

 

-di silenzio e assenza-

 

 

 

l’hai fatta peso e pietra

 

che cade in un abisso.

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

-155-

 

 

 

ed io e te

 

saremo una carne sola

 

ci fu detto

 

e noi fummo felici,

 

io sangue del tuo sangue

 

tu sangue del mio sangue,

 

tu l’occhio destro

 

io l’occhio sinistro

 

e orecchie di una sola testa

 

gambe e braccia di un solo tronco

 

 

 

sarete una carne sola

 

ci fu detto

 

e noi fummo felici

 

 

 

ma fu allora un dio

 

(o chi per lui)

 

che disse una bugia.

 

 

 

 

Francesco Palmieri

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