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LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

LIMINA MUNDI

Archivi tag: Antonella Pizzo

“Qualcuno dovrebbe ringraziarmi” di Loredana Semantica da “Barracuda”, Terra d’ulivi edizioni, 2024. Legge Antonella Pizzo

07 mercoledì Mag 2025

Posted by Antonella Pizzo in Podcast, POESIA

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Antonella Pizzo, Barracuda, Loredana Semantica, Podcast

La poesia “Qualcuno dovrebbe ringraziarmi” di Loredana Semantica, dalla raccolta illustrata “Barracuda”, Terra d’ulivi edizioni, 2024. Legge Antonella Pizzo

Qualcuno dovrebbe ringraziarmi
qualcuno che ho memoria mi aveva già scalzato
da altri luoghi similmente connessi allo stradario
era un presagio vago circolare come di notte
che si ripete è perciò che lo escludo
per essersi compiuto l’arcano inevitabile
non tanto ormai per splendere
che da tempo ho dismesso le grandi attese
stupida essendo ogni cosa intorno
gravoso il male anzi banale nel suo dolore provocato pervicace
squallidi tutti i cercatori di bava di baldoria.

Ho il senso di qualcosa che sprofonda
come le cattedrali edificate sul fango
dalle fondamenta vuote
il crollo avviene lentamente tale
che agli abitanti non sia dato di vedere
l’inutile ormai lo escludo dicevo
chi tesse trame chi nega l’evidenza
chi alle spalle lavora ai tatuaggi
chi finge chi intrallazza chi le guance cadenti
chi il cuore strafatto chi le fitte o i ricami
non tanto ormai per splendere dicevo
ma per essere quietamente.

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“Mercoledì delle ceneri” di Thomas Stearns Eliot. Legge Antonella Pizzo

09 mercoledì Apr 2025

Posted by Loredana Semantica in Podcast, POESIA

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Antonella Pizzo, Podcast, Thomas Stearns Eliot

La sesta e ultima strofa del poemetto di Thomas Stearn Eliot “Mercoledì delle ceneri” letto dalla nostra Antonella Pizzo

VI
Benché non speri più di ritornare
Benché non speri
Benché non speri di ritornare
A oscillare fra perdita e profitto
in questo breve transito dove i sogni si incrociano
Il crepuscolo incrociato dai sogni fra nascita e morte
(Benedicimi padre) sebbene non desideri più di desiderare queste cose
Dalla fìne finestra spalancata verso la riva di granito
Le vele bianche volano ancora verso il mare, verso il mare volano
Le ali non spezzate
E il cuore perduto si rinsalda e allieta
Nel perduto lillà e nelle voci del mare perduto
E Io spirito fragile s’avviva a ribellarsi
Per la ricurva verga d’oro e l’odore del mare perduto
S’avviva a ritrovare
Il grido della quaglia e il piviere che ruota
E l’occhio cieco crea
Le vuote forme fra le porte d’avorio
E l’odore rinnova il sapore salmastro della terra sabbiosa
Questo è il tempo della tensione fra la morte e la nascita
Il luogo della solitudine dove tre sogni s’incrociano
Fra rocce azzurre
Ma quando le voci scosse dall’albero di tasso si partono
Che l’altro tasso sia scosso e risponda.
Sorella benedetta, santa madre, spirito della fonte,. spirito del giardino
Non permettere che ci si irrida con la falsità
Insegnaci a aver cura e a non curare
Insegnaci a starcene quieti
Anche fra queste rocce,
E’n la Sua volontarie è nostra pace
E anche fra queste rocce
Sorella, madre
E spirito del fiume, spirito del mare,
Non sopportare che io sia separato
E a Te giunga il mio grido.

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“Mercoledì delle ceneri” di Thomas Stearns Eliot. Legge Antonella Pizzo

02 mercoledì Apr 2025

Posted by Loredana Semantica in Podcast, POESIA

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Antonella Pizzo, Podcast, Thomas Stearns Eliot

La quinta strofa del poemetto di Thomas Stearn Eliot “Mercoledì delle ceneri” letto dalla nostra Antonella Pizzo

V
Se la parola perduta è perduta, se la parola spesa è spesa
Se la parola non detta e non udita
È non udita e non detta,
Sempre è la parola non detta, il Verbo non udito,
Il Verbo senza parola, il Verbo
Nel mondo e per il mondo;
E la luce brillò nelle tenebre e
Il mondo inquieto contro il Verbo ancora
Ruotava attorno al centro del Verbo silenzioso
.
Oh mio popolo, che cosa ti ho fatto.
Dove ritroveremo la parola, dove risuonerà
La parola? Non qui, che qui il silenzio non basta
Non sul mare o sulle isole, né sopra
La terraferma, nel deserto o nei luoghi di pioggia,
Per coloro che vanno nella tenebra
Durante il giorno e la notte
Il tempo giusto e il luogo giusto non sono qui
Non v’è luogo di grazia per coloro che evitano il volto
Non v’è tempo di gioire per coloro che passano in mezzo al rumore e negano la voce
Pregherà la sorella velata per coloro
Che vanno nelle tenebre, per coloro che ti scelsero e si oppongono
A te, per coloro che sono straziati sul corno fra stagione e stagione, tempo e ternpo, Fra ora e ora, parola e parola, potenza e potenza, per coloro che attendono
Nelle tenebre? Pregherà la sorella velata
Per i fanciulli al cancello
Che non lo varcheranno e non possono pregare:
Prega per coloro che ti scelsero e ti si oppongono
Oh mio popolo, che cosa ti ho fatto.
Pregherà la sorella velata fra gli alberi magri di tasso
Per coloro che l’offendono e sono
Terrificati e non possono arrendersi
E affermano di fronte al mondo e fra le rocce negano
Nell’ultimo deserto e fra le ultime rocce azzurre
Il deserto nel giardino il giardino nel deserto
Della secchezza, sputano dalla bocca il secco seme di mela.
Oh mio popolo.

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“Mercoledì delle ceneri” di Thomas Stearns Eliot. Legge Antonella Pizzo

26 mercoledì Mar 2025

Posted by Loredana Semantica in Podcast, POESIA

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Antonella Pizzo, Podcast, Thomas Stearns Eliot

La quarta strofa del poemetto di Thomas Stearn Eliot “Mercoledì delle ceneri” letto dalla nostra Antonella Pizzo

IV
Colei che camminò fra viola e viola
Che camminò
Fra i diversi filari del variato verde
In bianco e azzurro procedendo, colori di Maria,
Parlando di cose banali
In ignoranza e scienza del dolore eterno
Che mosse in mezzo agli altri che già stavano andando
Che allora fece forti le fontane e fresche le sorgenti

Rese fredda la roccia inaridita e solida la sabbia
In blu di speronella, blu del colore di anni Maria,
Sovegna vos

Ecco gli anni che passano in mezzo, portando
Lontano i violini e i flauti, ravvivando
Una che muove nel tempo fra il sonno e la veglia, che indossa

Luce bianca ravvolta, di cui si riveste, ravvolta.
Passano gli anni nuovi ravvivano
Con una splendida nube di lacrime, gli anni, ravvivano
La rima antica con un verso nuovo. Redimi
Il tempo. Redimi
La visione non letta nel sogno più alto
Mentre unicorni ingioiellati traggono il catafalco d’oro.

La silenziosa sorella velata in bianco e azzurro
Fra gli alberi di tasso, dietro il dio del giardino,
Il cui flauto tace, piegò la testa e fece un cenno ma non parlò parola

Ma la sorgente zampillò e l’uccello cantò verso la terra
Redimi il tempo, redimi il sogno
La promessa del verbo non detto e non udito

Finché il vento non scuota mille bisbigli dal tasso

E dopo questo nostro esilio

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“Mercoledì delle ceneri” di Thomas Stearns Eliot. Legge Antonella Pizzo

19 mercoledì Mar 2025

Posted by Loredana Semantica in Podcast, POESIA

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Antonella Pizzo, Podcast, Thomas Stearns Eliot

La terza strofa del poemetto di Thomas Stearn Eliot “Mercoledì delle ceneri letto dalla nostra Antonella Pizzo

III
Là dalla prima rampa della seconda scala
Mi volsi e vidi in basso
La stessa forma avvinta alla ringhiera
Sotto la nebbia nell’aria fetida
In lotta col demonio delle scale
Dall’ingannevole volto della speranza e della disperazione.
Alla seconda rampa della seconda scala
Li lasciai avvinghiati, volti in basso;
Non v’erano più volti e la scala era oscura,
Scheggiata ed umida, come la bocca guasta
E bavosa di un vecchio, o la gola dentata di un antico squalo.
Là sulla prima rampa della terza scala
Una finestra a inferriata con il ventre gonfìo
Come quello di un fico e al di là
Del biancospino in fìore e della scena agreste
Quella figura dalle spalle ampie vestita in verde e azzurro
Affascinava il maggio con un flauto antico.
Sono dolci le chiome arruffate, le chiome brune arruffate sulla bocca,
Lillà e chiome brune;
Lo sgomento, la musica del flauto, le pause e i passi della mente sulla terza scala,
Svaniscono, svaniscono; al di là della speranza e al di là della disperazione
La forza sale sulla terza scala.
Signore, non son degno
Signore, non son degno
ma di’ una sola parola.

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“Mercoledì delle ceneri” di Thomas Stearns Eliot. Legge Antonella Pizzo

12 mercoledì Mar 2025

Posted by Loredana Semantica in Podcast, POESIA

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Antonella Pizzo, Podcast, Thomas Stearns Eliot

La seconda strofa del poemetto di Thomas Stearn Eliot “Mercoledì delle ceneri letto dalla nostra Antonella Pizzo

II
Signora, tre leopardi bianchi sedevano sotto un ginepro
Nella frescura del giorno, nutriti a sazietà
Delle, mie braccia e del mio cuore e del mio fegato e di quanto
Era stato contenuto nel cavo rotondo del mio cranio. E Dio disse
Vivranno queste ossa? vivranno
Queste ossa? E tutto quanto era stato contenuto
Nelle ossa (che già erano aride) disse stridendo
Per la bontà di questa Signora
E, per la sua grazia, e perché
Ella onora la Vergine in meditazione
, Noi risplendiamo con tanta lucentezza. E io che sono
Qui dismembrato offro all’oblìo le mie gesta, e il mio amore
Alla posterità del deserto e al frutto della zucca.
E’ questo che ristora
Le mie viscere le fibre dei miei occhi e le porzioni indigeste
Che i leopardi rifiutano. La Signora si è ritirata
In una bianca veste, alla contemplazione, in una bianca veste.
Che la bianchezza dell’ossa espii fino all’oblìo.
In esse non c’è vita. E come io sono dimenticato e vorrei essere
Dimenticato, così vorrei dimenticare
Consacrato in tal modo, ben saldo nel proposito. E Dio disse
Profetizza al vento, al vento solo perché
Il vento solo darà ascolto. E le ossa cantarono stridendo
Col ritornello della cavalletta, dicendo

Signora dei silenzi
Quieta e affranta
Consunta e più integra
Rosa della memoria
Rosa della dimenticanza
Esausta e feconda
Tormentata che doni riposo
La Rosa unica
Ora è il giardino
Dove ogni amore finisce
Terminato il tormento
Dell’amore insoddisfatto
Più grande tormento
Dell’amore soddisfatto
Fine dell’ínfinito
Viaggio verso il nulla
Conclusione di tutto ciò
Che non può essere concluso
Linguaggio senza parola
E parola di nessun linguaggio
Grazia alla Madre
Per il Giardino
Dove tutto l’amore finisce.

Sotto un ginepro le ossa cantarono, disperse e rilucenti
Noi siamo liete d’essere disperse, poco bene facemmo l’una all’altra,
Nella frescura del giorno sotto un albero, con la benedizione della sabbia,
Dimenticando noi stesse e l’un l’altra, unite
Nella serenità del deserto. Questa è la terra che voi
Spartirete. E né divisione né unione
Hanno importanza. Questa è la terra. Ecco, abbiamo la nostra eredità.

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“Mercoledì delle ceneri” di Thomas Stearns Eliot. Legge Antonella Pizzo

05 mercoledì Mar 2025

Posted by Loredana Semantica in Podcast, POESIA, SINE LIMINE

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Antonella Pizzo, Podcast, Thomas Stearns Eliot

La prima strofa del poemetto di Thomas Stearn Eliot “Mercoledì delle ceneri letto dalla nostra Antonella Pizzo

Perch’i’ non spero più di ritornare
Perch’i’ non spero
Perch’i’ non spero più di ritornare
Desiderando di questo il talento e dell’altro lo scopo
Non posso più sforzarmi di raggiungere
Simili cose (perché l’aquila antica
Dovrebbe spalancare le sue ali?)
Perché dovrei rimpiangere
La svanita potenza del regno consueto?

Poi
che non spero più di conoscere
La gloria incerta dell’ora positiva
Poi che non penso più
Poi che ormai so di non poter conoscere
L’unica vera potenza transitoria
Poi che non posso bere
Là dove gli alberi fioriscono e le sorgenti sgorgano, perché non c’è più nulla

Poi che ora so che il tempo è sempre il tempo
E che lo spazio è sempre ed è soltanto spazio
E che ciò che è reale lo è solo per un tempo
E per un solo spazio
Godo che quelle cose siano come sono
E rinuncio a quel viso benedetto
E rinuncio alla voce
Poi che non posso sperare di tornare ancora
Di conseguenza godo, dovendo costruire qualche cosa
Di cui allietarmi

E prego Dio che abbia pietà di noi
E prego di poter dimenticare
Queste cose che troppo
Discuto con me stesso e troppo spiego
Poi che non spero più di ritornare
Queste parole possano rispondere
Di ciò che è fatto e non si farà più
Verso di noi il giudizio non sia troppo severo

E poi che queste ali più non sono ali
Atte a volare ma soltanto piume
Che battono nell’aria
L’aria che ora è limitata e secca
Più limitata e secca della volontà
Insegnaci a aver cura e a non curare
Insegnaci a starcene quieti.

Prega per noi peccatori ora e nell’ora della nostra morte
Prega per noi ora e nell’ora della nostra morte.

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Terra matta di Vincenzo Rabito lettura di Antonella Pizzo

12 mercoledì Feb 2025

Posted by Antonella Pizzo in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA, NarЯrativa, Note critiche e note di lettura

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Antonella Pizzo, Terra matta, Vincenzo Rabito

Terra matta

Di Vincenzo Rabito, Einaudi, 2007

Incipit di Terra matta

Questa è la bella vita che ho fatto il sotto scritto Rabito Vincenzo, nato in via Corsica a Chiaramonte Qulfe, d’allora provincia di Siraqusa, figlio di fu Salvatore e di Qurriere Salvatrice, chilassa 31 marzo 1899, e per sventura domiciliato nella via Tommaso Chiavola. La sua vita fu molta maletratata e molto travagliata e molto desprezata. Il padre morì a 40 anne e mia madre restò vedova a 38 anne, e restò vedova con 7 figlie, 4 maschele e 3 femmine, e senza penzare più alla bella vita che avesse fatto una donna con il marito, solo penzava che aveva li 7 figlie da campare e per darece ammanciare.

L’autore di Terra matta

Così comincia l’autobiografia postuma di Vincenzo Rabito, contadino semianalfabeta, pubblicata nel 2007 da Einaudi. Con questa autobiografia Rabito ha vinto nel 2000 il «Premio Pieve – Banca Toscana», ed è conservata, nella versione integrale, presso la Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano.

Nato a Chiaramonte Gulfi nel 1899 Rabito è stato minatore in Germania, poi è tornato in Sicilia dove si è sposato ed ha allevato tre figli, è morto nel 1981. Era, quindi, un ragazzo del 99, uno di quei desgraziate strappati dalle famiglie, dai campi, dai paesi, e mandati, dopo la disfatta di Caporetto, a combattere la prima guerra mondiale nel Piave, quando il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti il 24 maggio….

Il paese di Terra matta

Chiaramonte è un paese in provincia di Ragusa situato a circa 650 metri di altezza, si trova ai piedi di un gruppo di monti, fra i quali l’Arcibessi; è denominata balcone di Sicilia perché da lì si può vedere Gela, l’Etna, la valle dell’Ippari, gli Erei, gli Iblei e nelle giornate chiare anche il mare dell’Africa. Ci sono molti uliveti che danno un olio conosciuto in tutto il mondo. Se vai in piazza un uomo come Vincenzo può essere che ancora lo trovi, sono gli uomini di una volta, quelli dalle scarpe grosse e dal cervello fino, le mani callose, la fronte rigata, il sorriso sempre e la gentilezza sempre, gente saggia, con intelligenza vigorosa, che non ha paura di niente, gente che lavora senza mai stancarsi. Chiuso nella sua stanza dal 1968 al 1975 il nostro ha scritto, utilizzando una vecchia Olivetti, più di mille pagine, senza margine superiore e inferiore e inserendo, come punti di interpunzione, il punto e virgola dopo ogni parola.

Il pubblicato è di circa 400 pagine.  Rabito ha scritto in una lingua sicul-italiana, insomma in una lingua ammiscata fra l’italianu e il sicilianu. In questo diario ci racconta la sua vita rocambolesca, la prima e la seconda guerra mondiale, il fascismo, l’emigrazione e la storia della Sicilia, il brigantaggio, il contrabbando, la fame, la povertà, l’arte di arrangiarsi, le speranze, i sogni, tutte le sue avventure, le sue esperienze, le sue peripezie.

Gli editor di Terra matta dell’Einaudi hanno aggiunto la punteggiatura e diviso il diario in capitoli inserendo ad ogni capitolo un titolo, hanno aggiunto delle note a piè pagina laddove il significato delle parole non era molto chiaro. Rabito non ha inventato una nuova lingua, la lingua che ha usato è quella che parlavano i nostri vecchi, quella che noi siciliani abbiamo sentito parlare ai nostri vecchi quando, seduti davanti alle porte dei vari circoli dei mestieri, raccontavano, in quello che  a loro sembrava italiano, le loro storie, quella lingua che usavano i nostri nonni quando raccontavano la loro guerra ai nostri figli; non è quindi siciliano ma un siciliano italianizzato. L’italianizzazione   del siciliano dei nostri nonni avveniva utilizzando la stessa sintassi della frase in siciliano ma cambiando le “u” in “o” e, dove possibile o dove si pensava occorresse, cambiando le “i” in “e” .

Questo scambio si può notare anche nella scrittura del Rabito, infatti la parola “carusi” (ragazzi) viene tradotta in “caruse”,  “sèntire” in “sèntere”, e nel dubbio si cambiano le “i” in “e” e le “e” in “i” anche alle  parole in italiano vedi “piedi scalzi” in “piede scalze”;  “metà” in  “mità”;  “medico” in  “medeco” , “disonesta” in desonesta, gli esempi potrebbero essere moltissimi e si trovano sparsi in tutto il libro. Riguardo le note dei curatori, Evelina Santangelo e Luca Ricci, pur riconoscendo la validità del loro lavoro nell’inserimento dell’h nel verbo avere, nella scomposizione di alcune parole che il Rabito aveva scritto unite ai fini di una migliore leggibilità del testo  ho riscontrato nelle note a più pagina alcune carenze, ad esempio i curatori traducono bommolillo con boraccia, ma la bummula non è una boraccia ma una piccola giara di creta; il retapunto non è un generico lavoro di cucito ma è il retropunto; “inzamaie” non è “malauguratamente” ma più correttamente  è “non sia mai”. E tutte dicevano “Refrescate le armuzze dello priatorio”  non è “andate ad allietare le animucce del purgatorio” ma, probabilmente dal latino requiescat , è riposino; oppure mi pare che in questo caso possa essere “siano alleviate  le pene delle anime del Purgatorio”  sicuramente non allietate. Senza dubbio queste sono sfumature poco importanti quello che a noi importa, quello che conta è l’opera del Rabito, un’opera forte, che ha una grande potenza narrativa, scrittura genuina, viva, un’opera epica, è il cuntu di un cantastorie.

Il cuntu della sua vita in Terra matta inizia come padre di famiglia ad appena 12 anni, perché la madre aveva sette figli ed era vedova, continua in trincea, in Africa, nel matrimonio con la moglie appartenente ad una famiglia della ricca borghesia che poi ricca non era, c’è la voglia di riscatto dalla sua condizione di povertà e di ignoranza, il desiderio di fare parte di un ceto sociale superiore, («impriaco di nobilità»), colto, raffinato, che assomiglia tanto allo stesso desiderio di Mastro Don Gesualdo  che sposa Bianca Trao, una nobile decaduta e alla fine quel matrimonio si rivelerà un affare sbagliato. Nel caso di Rabito la suocera Anna è senza soldi e gli mangia, per una questione di case, quasi tutto quello che Rabito aveva messo da parte in tanti anni di lavoro. Però l’affare Rabito in un certo senso lo fa perché la moglie anche se gli porta in dote questa suocera terribile gli da tre figli meravigliosi che Rabito fa studiare perché ha capito che il riscatto è, anche e soprattutto, nel sapere, nello studio. Perché lui pensa “ e i miei figli, se vuole il Dio, la vita meschina che offatto io non ci la voglio fare fare” E quando il primogenito si laurea lui si è sentito come se avesse vinto la Sisola.

Dio appare qui forse per la prima volta come un Dio che probabilmente vorrà fare quello che Rabito desidera, nel resto del libro, nelle trincee, sotto i bombardamenti, nella malattie d’Africa, Dio è spesso assente, spesso bestemmiato «ognuno bestimiava al santo protettore del suo paese». «Se all’uomo in questa vita non ci incontro aventure, nonave niente darracontare».

Rabito aveva  tanto da raccontare e per nostra fortuna in Terra matta lo ha fatto in modo sublime.
Ma la storia non finisce qui, esce infatti nel 2022, sempre con Einaudi, Il romanzo della vita passata,  un ulteriore inedito ritrovato dal figlio Giovanni. Nel sito Einaudi leggiamo: Se c’è una vicenda editoriale che vale la pena ricordare, è quella di Terra matta. «Il capolavoro che non leggerete», cosí fu definito dalla giuria dell’Archivio di Pieve Santo Stefano: 1027 pagine fitte fitte di una lingua impossibile trasformate miracolosamente in un libro amato da tantissimi lettori, lanciando il cuore oltre l’ostacolo come si può fare soltanto quando si ha la certezza di avere tra le mani qualcosa di unico. Quel che è accaduto dopo ce lo spiega Giovanni Rabito, il figlio di Vincenzo: «Fu solo in seguito al successo di Terra matta che mi ricordai dell’esistenza di un secondo plico di dattiloscritti conservati a casa di mio fratello Turi, a Ragusa. Dopo la morte di mio padre ero stato proprio io a consegnare quel malloppo a mia cognata Lucia per preservarlo dalla distruzione. Temevo che mia madre avesse intenzione di buttarlo via, come fece d’altronde con tutto ciò che c’era nella stanzetta dove mio padre, quasi in segreto, per tredici anni aveva lavorato alla sua storia di scrittore “inafabeto”». Il malloppo sopravvissuto alla catastrofe è «un’Amazzonia espressiva» di liane aggrovigliate, sabbie mobili e piante lussureggianti. Una giungla di quindici quadernoni per un totale di 1486 pagine: il secondo memoriale. Che in questa versione, ridotta e adattata proprio da Giovanni, si apre con la parola «romanzo». Perché Vincenzo Rabito, giunto a questa sua seconda, titanica prova, ormai sapeva bene ciò che stava costruendo.

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L’animale morente di Philip Roth lettura di Antonella Pizzo

15 mercoledì Gen 2025

Posted by Antonella Pizzo in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, CRITICA LETTERARIA, LETTERATURA, NarЯrativa, Note critiche e note di lettura, Recensioni

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Antonella Pizzo, L'animale morente, Philip Roth, The Dying Animal

animale-morente

L’animale morente (The Dying Animal) è un romanzo di Philip Roth, pubblicato nel 2001. Il titolo è tratto da un verso di Yeats: «Consumami il cuore; malato di desiderio | E avvinto a un animale morente | Che non sa cos’è». Il romanzo è ambientato negli anni sessanta, narra della relazione che il sessantaduenne David Kepesh ha avuto con una donna di ventiquattro anni. Terminata la relazione i due  si rincontrano in un capodanno di otto anni più tardi.  

David Kepesh è un professore universitario che tiene per i laureandi un unico corso, un seminario di critica letteraria, che ha chiamato Practical Criticism. Da giovane ha fatto l’esperienza di un matrimonio fallito e durato poco tempo, inoltre ha un figlio che non vede mai. Come critico letterario appare settimanalmente in una trasmissione televisiva, grazie a questa sua attività gode di una certa notorietà nell’ambiente universitario e anche al di fuori di esso. Il suo corso è molto seguito.  David è un uomo che ama la vita e i piaceri del sesso. Sono molte le studentesse che andrebbero volentieri a letto con lui. Di questo ne è consapevole ma la sua posizione accademica gli consente di andare a letto con loro solo alla fine del corso e dopo l’esame finale. Per l’occasione  dà dei festeggiamenti a casa sua dove invita tutti gli studenti che hanno completato il seminario. David non è uno sprovveduto, quella procedura lo tiene lontano dai guai, evita il rischio che possa essere accusato di molestie sessuali nei confronti delle sue studentesse. È un procedura   che gli dà soddisfazione e che svolge sempre nello stesso modo e ogni volta è un successo, ha la garanzia del risultato, alla fine della serata qualcuna delle sue giovani studentesse finisce allegramente nel suo letto.  Lui vive il sesso come piacere e superficialmente, senza  lasciarsi coinvolgere sentimentalmente da questi incontri.  Fino a che non incontra Consuela Castillo, una ragazza cubana di ventiquattro anni. Kepesh ama la vita e la bellezza. Consuela non è come le altre, appartiene a una ricca e nobile famiglia di esiliati cubani, ha nostalgia dell’Avana anche se non ha mai vissuto a Cuba. Ha dei principi un po’ antiquati, vede nel professore la “versione soggiogabile della raffinatezza della sua famiglia”. Consuela ha un corpo statuario, dei seni prorompenti. A tratti li nasconde,  a tratti li mostra sbottonando i tre bottoni della sua camicetta di seta bianca, che indossa sotto una severa giacca blu, simile a quelle che usano le segretarie di uomini importanti. David, così racconta a un interlocutore di cui non sappiamo nulla, ne è soggiogato. Consuela diventa per lui non più un piacere ma un’ossessione, una malattia. Ne è geloso, ha paura di perderla, è malato di desiderio. Consuela non è come le solite studentesse che lui si portava a letto, Consuela lo fa star male, con le altre  non ha mai provato quella smania e quella brama di possesso. Gli incontri sessuali con Consuela sono descritti nei particolari, spesso spregiudicati e inaspettati, come assaggiarne il sangue mestruale. Il romanzo potrebbe sembrare pornografico per certe disgressioni, ma non lo è. David è letteralmente ammaliato dai seni della ragazza, li adora. I seni oltre a essere sessualmente importanti hanno una funzione specifica, la produzione del latte. Il latte è il nutrimento primordiale, è come il sangue, è  vita. Ciò richiama un simbolismo religioso, il Cristo e l’ultima cena, prendete e mangiate questo è il mio corpo. David si nutre del corpo di Consuela, ne beve il suo sangue, adora i suoi seni floridi e turgidi, vuole inglobarla, quasi sostituirsi a lei, prendersi la sua vita, la sua gioventù, la sua bellezza.  È un bisogno primordiale e ancestrale. Il sesso è l’alternativa alla morte?

«Essere casto, vivere senza sesso, be’, come digerirai le sconfitte, i compromessi, le frustrazioni? Guadagnando di più, guadagnando tutti i soldi che puoi? Facendo tutti i figli che puoi? Questo aiuta, ma è niente rispetto all’altra cosa. Perché l’altra cosa si radica nel tuo essere fisico, nella carne che nasce e nella carne che muore. Perché solo quando scopi riesci a vendicarti, anche se solo per un momento, di tutto ciò che non ami nella vita e di tutte le cose che nella vita ti hanno sconfitto. Solo allora sei più nettamente vivo e più nettamente te stesso. La corruzione non è il sesso: è il resto. Il sesso non è semplice frizione e divertimento superficiale. Il sesso è anche la vendetta sulla morte. Non dimenticartela, la morte. Non dimenticartela mai. Sì, anche il sesso ha un potere limitato. So benissimo quanto è limitato. Ma dimmi, quale potere è più grande?» 

È David l’animale morente?   È George, l’amico di Kepesh, che in punto di morte utilizza le sue ultime forze vitali per sfiorare il seno della moglie?

È Consuela che si ammalerà e che vorrà essere fotografata i seni prima di essere operata di cancro?  “Le scattai una trentina di fotografie. Lei sceglieva le pose, e voleva tutto. Voleva avere le mani sotto, che li reggevano. Li voleva mentre se li strizzava, li voleva dal lato sinistro, dal lato destro, li voleva fotografati mentre si chinava”.

È Consuela che ha il rimpianto di non aver potuto vedere L’Avana?  

“… e di momento in momento il suo pianto si fa sempre più forte, – credevo che un giorno avrei visto L’Avana.» «La vedrai.» «No. Oh, David, mio  nonno…» «Si, cosa? Coraggio, dimmi, parla.» «Mio nonno sedeva nel soggiorno…» «Avanti.» La tenevo tra le braccia quando cominciò a parlare di se stessa come  non aveva mai fatto prima, come prima non aveva mai avuto motivo di fare, come, forse, lei stessa non aveva mai saputo. «Mentre andava in onda The News Hour, mentre andava in onda The MacNeil-Lehrer News Hour, e… – disse, tra lacrime copiose, – improvvisamente sospirava: “Pobre Mama”. Che era morta all’Avana senza di lui. Perché la loro generazione, quella generazione, non era andata via.

“Pobre Mama”. “Pobre Papa”. Loro erano rimasti indietro. Aveva solo questa  tristezza, questo rimpianto per loro. Un terribile, terribile rimpianto. Ed è quello che ho io. Ma per me stessa. Per la mia vita, Mi tocco, tocco il mio corpo con le mani, e penso, Questo è il mio corpo! Non può andarsene così! Non può essere  vero! Non può capitarmi una cosa simile! Come può andarsene così? Non voglio morire! David, ho paura di morire!»

Siamo tutti animali morenti. 

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Il rosmarino non capisce l’inverno di Matteo Bussola lettura di Antonella Pizzo

11 mercoledì Dic 2024

Posted by Antonella Pizzo in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura

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Antonella Pizzo, Il rosmarino non capisce l'inverno, Matteo Bussola

Matteo Bussola
Il rosmarino non capisce l’inverno
Einaudi Stile libero big

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«A cosa pensa una donna quando, assordata dalle voci di tutti, capisce all’improvviso di aver soffocato la propria?» In pochi come Matteo Bussola sanno raccontare, con tanta delicatezza e profondità, le contraddizioni dei rapporti umani. In pochi sanno cogliere con tale pudore il nostro desiderio e la nostra paura di essere felici. Una donna sola che in tarda età scopre l’amore. Una figlia che lotta per riuscire a perdonare sua madre. Una ragazza che invece non vuole figli, perché non sopporterebbe il loro dolore. Una vedova che scrive al marito. Una sedicenne che si innamora della sua amica del cuore. Un’anziana che confida alla badante un terribile segreto. Le eroine di questo libro non hanno nulla di eroico, sono persone comuni, potrebbero essere le nostre vicine di casa, le nostre colleghe, nostra sorella, nostra figlia, potremmo essere noi. Fragili e forti, docili e crudeli, inquiete e felici, amano e odiano quasi sempre con tutte sé stesse, perché considerano l’amore l’occasione decisiva. Cadono, come tutti, eppure resistono, come il rosmarino quando sfida il gelo dell’inverno che tenta di abbatterlo, e rinasce in primavera nonostante le cicatrici. Un romanzo in cui si intrecciano storie ordinarie ed eccezionali, che ci toccano, ci interrogano, ci commuovono.  (Matteo Bussola).

Questo è un libro sulla resistenza delle donne alle avversità, al dolore, alle malattie, alle incomprensioni, le donne simili al rosmarino.

Il rosmarino non è una pianta che ha un bell’aspetto, è filiforme con tanti aghi dello stesso colore disposti in ordine uno vicino all’altro, è una pianta stereotipata, di un colore verde normale un po’ polveroso, senza sfumature, all’apparenza fragile, però resiste al vento, alle intemperie e alla siccità, resistente e indispensabile. Non esiste nulla che lo possa degnamente sostituire in cucina.
 Scrive Bussola nella seconda di copertina «Ho deciso di scrivere di donne perché non sono una donna. Perché ho la sensazione di conoscerle sempre poco, anche se vivo con quattro di loro. E perché è più utile scrivere di ciò che vuoi conoscere meglio, invece di ciò che credi di conoscere già».

Dice di se Matteo Bussola, in un’intervista di Monica Rossi che si può leggere su FB, che delle figlie la mattina si occupa lui, colazione, scuola, poi si mette a lavorare. Bussola vive di scrittura nel senso che la sua professione è quella del fumettista, dello scrittore, e si guadagna da vivere con le parole. Tutto questo lo so che non c’entra nulla con il libro ma mi fa piacere che sia così, che si guadagni da vivere con la scrittura, mi fa piacere sapere anche che Matteo Bussola sia una brava persona, l’ho letto nell’intervista, lo dice chi lo conosce bene, ottima cosa questa, perché in questo mondo c’è urgente necessità di brave persone, oltre che di bravi scrittori. Si legge nell’intervista sopracitata del 27/03/2023 (scrivo ancora come fossi l’economo del catasto) che lui non ha cercato il successo e che è stato il successo a cercare lui, nel senso che se si ha talento prima o poi vieni alla luce. In teoria. In pratica, aggiungo, oltre al talento ci vuole anche tanta fortuna, essere al posto giusto al momento giusto, incontrare le persone giuste.
“ Ho cominciato anche, a un certo punto, ad essere “attenzionato” (termine orribile ma che rende l’idea) da alcuni addetti ai lavori, i primi sono stati Giorgio Pozzi di Fernandel e Giulio Mozzi. (cut) Poi un giorno è successo un fatto imprevedibile. È successo che uno di questi miei scritti si è “viralizzato” (è cioè stato improvvisamente condiviso da migliaia di persone). Attraverso queste condivisioni è finito sulle bacheche di alcuni editor letterari. Questi hanno cominciato a scrivermi. Mi hanno scritto da Rizzoli, da Mondadori, eccetera. Ma la più rapida e soprattutto la più convincente è stata Rosella Postorino di Einaudi.”

Il libro di Matteo Bussola mi è stato regalato alcuni mesi fa, l’ho sempre guardato con sospetto e non ho mai iniziato a leggerlo. Forse non mi ha attirato la foderina con quella ragazzina con la sciarpa viola, sarà che non amo tanto il viola, nei paramenti cattolici è il colore della penitenza, dall’attesa, del lutto. O forse non mi ha attirata il titolo, anche la parola inverno non la amo tanto. Eppure ha poche pagine, ha venduto tantissime copie, ha avuto grande successo e ne hanno parlato in tanti, tutti più o meno bene, avrei potuto leggerlo. Alla fine l’ho letto.
Il libro, che è una raccolta di racconti legati l’uno all’altro, tratta il cosiddetto “universo femminile”, dolcemente complicato, con certe giornate amare, le sere tempestose, le notti bianche e le lettere d’amore, come scriveva Ruggeri e cantava Mannoia. Parla di donne e sono donne che si raccontano, sono diciotto storie di donne di ogni tipo, ci sono le giovani, le anziane, le sane, le malate, alcune hanno fatto la chemio per un tumore al seno (non solo di tumori al seno si ammalano le donne, purtroppo) , chi ha la demenza senile, chi non riesce a sbrigare delle pratiche burocratiche dovute all’inabilità, chi scrive agli amati morti, chi si innamora a tarda età, chi regala piante di rosmarino. Alcune hanno figli, altre non ne hanno e ne vorrebbero, altre non ne vogliono, c’è chi fa sesso e ne fa video, c’è chi non sa ancora bene se è amore, amicizia, o se è fluida o solida. Il primo racconto parla di un funerale al quale partecipa la protagonista Margherita, infermiera oncologica che ha appena dato le dimissioni. La sua ultima paziente le ha aperto gli occhi facendole capire che ha bisogno di un cambiare rotta, di liberarsi da certi condizionamenti che la rendono prigioniera. Quell’ultima paziente è morta e Margherita va al suo funerale. In questa scena del funerale facciamo conoscenza di molte di quelle donne che poi incontreremo lungo il libro, Aurora che regala la pianta di rosmarino, Mira, Mimma, Rosi che ha la demenza, la scrittrice Brunella, Giusy con il suo ragazzo senegalese magro che non parlava figlio/compagno/cuoco Diao. I libri sono come le persone, a volte li leggi e ne resti folgorata come da un colpo di fulmine, un dardo che ti colpisce al momento, ma poi l’effetto svanisce come un fuoco di paglia e del libro ti resta solo un pugnetto di cenere. Altre volte può capitare di conoscere qualcuno che al momento ti sembra una persona poco interessante, noiosa, invece, senza averne consapevolezza e volontà, ti accorgi di quanta ricchezza si nasconde dietro un’apparenza sui generis e anonima. Il libro di Bussola mi è sembrato noioso, tutte le donne presenti sono infelici e piene di problemi, oppure tristi, solo qualcuna è mediamente soddisfatta e realizzata, i personaggi sono un po’ stereotipati, prevedibili, conformi a un preciso cliché, i fatti raccontati approssimativi. Dopo la lettura l’ho riposto nello stesso luogo dove attendeva da mesi di essere letto. Pensavo di aver chiuso la faccenda, invece tutte queste donne e i loro guai hanno cominciato a mulinarmi in testa, non riuscivo a non pensare a loro, a quei problemi che sono comuni a molte donne, la solitudine, la malattia, il sentirsi inadeguati, la paura di non farcela, così l’ho riletto scoprendo sfumature che non avevo percepito, connessioni non considerate, relazioni che non avevo individuato, profondità che non avevo avvertito. Sono racconti acquerellati e come l’acquerello sembrano poco incisivi, i tratti appena accennati, suggeriti, minimali, ma alla fine sono rappresentativi e offrono molti spunti di riflessione. Con l’ultimo racconto si chiude il cerchio, si torna al funerale e ai personaggi già presenti, si conclude  ciò che si era lasciato in sospeso. Ci commuoviamo con una madre anziana e la sua demenza senile. Una madre che ha perso una figlia e non lo sa d’averla persa, o forse lo sa e finge di non sapere per non soffrire troppo, finisce con la mano stretta a una donna che ne prende il posto. Chissà a cosa pensano queste donne. In questa stretta di mano, nei legami d’amore, nella solidarietà, il libro trova ragione di essere. 

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I giorni di Vetro di Nicoletta Verna lettura di Antonella Pizzo

20 mercoledì Nov 2024

Posted by Antonella Pizzo in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, CRITICA LETTERARIA, LETTERATURA, NarЯrativa, Note critiche e note di lettura, SINE LIMINE

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Antonella Pizzo, I GIORNI DI VETRO, Nicoletta Verna

 
 
 
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I GIORNI DI VETRO  di Nicoletta Verna – Einaudi Stile Libero Big
pp. 448
 

Era molto meglio prima, quando io non c’ero e non c’era nessuno dei miei fratelli, né i vivi né i morti. C’era solo mia madre che si rivoltava sul materasso del camerino e urlava: “Ammazzatemi, osta dla Madona” e la Fafina rispondeva: “Sta’ zeta ché chiami il Diavolo”, e andò avanti così per tre giorni e tre notti, finché mia madre lanciò un grido feroce e venne fuori Goffredo, il primo dei miei fratelli morti. Quando gli diedero lo schiaffo per farlo piangere lui non pianse, allora la Fafina scosse la testa e disse: “E’ segno che a Dio Cristo lassù gli bisognavo un angiolino”.
Ne vedeva tanti di bambini nati morti, e quello era uguale a tutti gli altri, anche se era suo nipote.
Mia madre la guardò avvilita. “Perché?” chiese.
“Perché hai mangiato troppo cocomero. Il cocomero fa acqua nello stomaco e il bambino si è annegato, il purino”.

La vicenda si svolge in Romagna durante il ventennio fascista, una Romagna povera e arcaica, dove vige la superstizione e l’ignoranza, dove si va dal Zambuten per curarsi e fare figli usando il sangue del mestruo versato in un pitale d’argento. 

“Dovete aspettare che vi venga il mestruo. Il primo mestruo dopo la bambina morta è quello buono. Dovete stare seduta su un pitale d’argento e raccogliere il sangue, quindi dovete farne bere dieci gocce a vostro marito, diluite nel Sangiovese. Dopo dodici giorni lui deve prendervi, e anche il giorno dopo e quello dopo ancora. Poi non dovete guardarvi più. Voi dovete dormire in un letto e lui in un altro. Vi nascerà una figlia che ancora addosso la scarogna, ma camperà.”

Nasce così la figlia che aveva previsto Zambuten che chiameranno Redenda. Redenta rappresenta il ventennio fascista, è nata il 10 giugno del 1924, lo stesso giorno della morte di Matteotti. Nasce a Castrocaro, in Romagna, da una famiglia modesta, il padre è Primo, un uomo mediocre, fa il guardiano e considera la guerra l’unico mezzo per riscattarsi, è una mezza tacca fascista e senza scrupoli. La madre è Adalgisa, vende lupini al mercato ed è una madre che partorisce figli morti. Redenta sopravvive ma, come aveva già avvertito  Zambuten avrà pietà e la scarogna addosso. Redenta si ammala di poliomielite, la malattia le lascia danni permanenti alla gamba, lei la chiama la gamba matta. La babina non parla, sembra ritardata al punto che la chiamano inscimunita,  la purina. La nonna Fafina fa l’infermiera e lavora fuori casa, per guadagnare qualcosa in più accoglie in casa degli orfani per denaro che chiamano i bastardi. Con gli affamati e terribili bastardi Redenta cresce, va d’accordo solo con uno di loro, Bruno.   Fafina lo preferisce agli altri che sono dei selvaggi affamati e quasi lo considera suo figlio. Bruno è un bastardo diverso, è intelligente, si occupa degli altri bastardi, prepara loro da mangiare, li lava. Con Bruno la Redenta comincia a parlare. Redenta vive ai margini, ha uno sguardo laterale, parla con i fratellini morti. Bruno promette di sposarla  ma invece sparisce nel nulla.

I giorni di Vetro del titolo sono i giorni del fascismo, giorni che sembrano non terminare mai, giorni invincibili, imbattibili, ma alla fine finiscono per essere sconfitti dal bene, da chi all’apparenza sembra insignificante, fragile, debole. Sono giorni in cui l’occhio fasullo di Amedeo Neri sostituisce l’occhio vero del bellissimo Amedeo Neri, soprannominato Vetro. Sono i suoi giorni, quelli di un angelo cattivo, un demone, bello, possente, un colosso. Il crudele e sadico gerarca fascista aveva perso il suo occhio in Africa durante una delle sue tante rappresaglie verso la popolazione locale. Il personaggio di Vetro è ispirato al viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani che durante il fallito attentato del febbraio del 1937 aveva perso un occhio. Graziani era denominato il macellaio di Fezzan, durante il periodo del colonialismo si è reso protagonista delle peggiori atrocità perpetrando stragi di massa contro intere tribù accusate di collaborare con i ribelli, uccisioni di donne, anziani e bambini, ha distrutto interi villaggi, ha confiscato risorse essenziali, come acqua e bestiame, ha fatto uso di armi chimiche. L’occhio di vetro è il vero protagonista del romanzo, è la violenza allo stato puro, quella violenza incapace di verità. Vetro è la rappresentazione del male assoluto, bello all’apparenza ma incapace di vedere e sentite, inerme e senza vita, uno zombie il cui scopo è quello di causare sofferenza e affermare il potere della malvagità. Di quell’occhio lui è quasi orgoglioso, lui è orgoglioso del male che sa fare,  così come lo è della testa della donna africana mummificata. Nel romanzo si alternano due voci narranti femminili le cui storie si intersecano e trovano ragione di essere l’una nell’altra. Le due voci sono quella di Redenta e quella di Iris.

Iris  non vive a Castrocaro ma a Tavolicci, dove storicamente nel luglio 1944, i nazi-fascisti italiani trucidarono 64 persone, fra cui 19 bambini di età inferiore ai 10 anni, donne e anziani. Le vittime vennero arse vive. I capi famiglia dopo essere stati costretti ad assistere al massacro, furono condotti in una località vicina dove furono torturati e poi uccisi.
Le due protagoniste amano lo stesso uomo, Bruno, che diventa l’eroe Diaz, capo di una brigata partigiana capace di azioni esemplari. Nel contempo le due donne, che non si conoscono, sono vittime dello stesso carnefice, il crudele gerarca Vetro. Il nemico principale di Vetro è Diaz. Vetro sposa Redenta e ne fa la sua schiava sessuale. Vetro è un sadico violento che ama sopraffare le donne. Ha ucciso senza pietà, scaraventato bambini vivi nel fuoco, ha portato dall’Africa la testa di una donna mummificata che mette in bella mostra in camera da letto. Redenta subisce ogni violenza, ogni tortura, viene stuprata, viene picchiata e violentata con armi e pugnali, viene ferita e costretta ad assistere ai rapporti sessuali violenti che lui ogni sera ha con le prostitute del locale casino. Redenta subisce e non racconta nulla alla sua famiglia di origine. Per non rimanere incinta di Vetro, sa che se le nascerà una femmina vetro ucciderà la bambina perché vuole un maschio, beve ogni giorno un sorso di acqua con il piombo, non sa che l’ingestione di piombo è causa di grave, spesso fatale, avvelenamento.
La resistenza fa da contraltare alla violenza e ci fa ben sperare che non tutto è perduto, che esistono gli eroi, che hanno paura come tutti, ma la generosità fa superare ogni paura, gli eroi sono le persone comuni che mettono a repentaglio e sacrificano la propria vita per gli altri. Nel ventennio fascista le donne avevano un ruolo di sottomissione e marginale, ma nelle cascine, nei campi, nella Romagna le donne sono quelle che hanno portano avanti le famiglie quando gli uomini erano stati richiamati o costretti a nascondersi, sono gli eroi della storia. Iris e Redenta, ciascuna a modo loro  hanno fatto la resistenza. A volte gli eroi sono le persone meno insospettabili, le babine, le purine, le inscimunite, insospettabili eroi come la Redenta. Il romanzo è riuscito,  aderente alla realtà storica, i personaggi indimenticabili, Redenta in modo particolare, ma anche quello di Vetro il cui nome è presente nel titolo del romanzo.

Antonella Pizzo

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La città e le sue mura incerte di Haruki Murakami lettura di Antonella Pizzo

13 mercoledì Nov 2024

Posted by Antonella Pizzo in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, CRITICA LETTERARIA, LETTERATURA, NarЯrativa, Note critiche e note di lettura, Recensioni

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Antonella Pizzo, Haruki Murakami, La città e le sue mura incerte

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La città e le sue mura incerte – Haruki Murakami – Einaudi – Collana: Supercoralli – Traduzione di Antonietta Pastore

Dalla quarta di copertina: «Diciassette anni lui, sedici lei, il primo amore, il tempo di un’indimenticabile estate. Tra passeggiate lungo il fiume o in riva al mare, speranze sussurrate su una panchina e sogni affidati alle righe di una lettera, lei gli racconta di una città circondata da alte mura: i ponti di pietra, la torre di guardia, un orologio senza lancette, una biblioteca. «La vera me stessa è lì che vive», gli dice la ragazza, e in quel luogo lui sarà il Lettore dei sogni. Poi, all’improvviso, lei scompare. La chiave per ritrovarla è quella città. Ma solo chi lo desidera con tutto il cuore potrà superare le sue mura.»

Il romanzo è diviso in tre parti e settanta sezioni. Le parti si ricongiungono come fiumi che si riversano tutti nel mare. La prima parte riguarda la ragazza e la vita di lui, che sarebbe anche il narratore di cui non conosciamo il nome.   Il suo compito dentro la città è quello di leggere i sogni contenuti nelle uova, due/tre al giorno, per farlo ha dovuto rinunciare alla sua ombra  e farsi ferire gli occhi dal guardiano . Nella seconda parte Il narratore, ormai adulto e che ha abbandonato la città dalle alte mura,  lavora come bibliotecario capo della biblioteca della Città rurale Z. sulle montagne di Tohoku. Lì conosce il bibliotecario capo, Tatsuya Koyasu, incontra anche M.  un misterioso ragazzo di 16 anni, lì si innamora di una donna. Nella terza parte tutto si conclude.

Lui ne ha diciassette  e lei sedici, hanno cominciato a frequentarsi e a scriversi dopo essersi conosciuti perché entrambi avevano partecipato a un concorso letterario. Sono due adolescenti che si innamorano, lui l’accompagna a casa risalendo il fiume. “Sei tu che mi hai fatto scoprire la città. Una sera di quell’estate, risalivamo il corso del fiume pervaso dalla fragranza dell’erba. Ogni tanto superavamo piccole cascate, fermandoci a guardare i pesciolini argentati che vi guizzavano.” Lei ha dei sandali rossi che conserva in una borsa di plastica gialla per non bagnarli, le foglie le si appiccicano alle gambe.

La ragazza gli confida che lei non è reale e che la sua vera essenza vive in una città circondata da alte mura, dove fa la bibliotecaria.  Per entrare in quella città bisogna staccarsi dalla propria ombra. In quella città non esiste il tempo, l’orologio della torre è senza lancette. La città è molto fredda, la gente veste con abiti lisi, molte case sembrano abbandonate da tempo,  come una città morta abitata da morti, con un guardiano alla porta, delle mura che non si possono scalfire, ma mutano, in giro transitano degli unicorni. L’unicorno nella cultura giapponese punisce i malvagi con il suo unico corno, protegge i giusti e assicura loro la buona sorte. Solo gli unicorni possono entrare  e uscire dalla città, una città in cui gli abitanti tentano di conservare i sogni di chi lì ha abitato, in un tempo nel quale, forse, la gente era viva e sognava. I sogni sono racchiusi nelle uova, la ragazza bibliotecaria li consegna al lettore  che sembra avere il compito di schiuderli, di  liberarli. In quale dimensione ci troviamo? Luogo di vita o di morte? Ci sono salici e glicini. C’è molto freddo, non ci sono le ombre, sono state strappate via, non esiste il tempo. Sembra  un mondo di morte. Il calore è vita. La ragazza conforta e sostiene il lettore preparandogli ogni mattina, prima di iniziare il lavoro, una tisana calda con delle erbe speciali. La ragazza, che prima indossava dei sandali rossi, ora veste abiti cupi e grigi, incolori.

Nella seconda parte il narratore ormai adulto e che ha lavorato per anni nel mondo dell’editoria,  cerca e trova un impego nella vecchia biblioteca di un paese sperduto che si chiama Z.  Nella prima biblioteca si leggevano i sogni, in questa invece si leggono libri. Anche in questo paese c’è molto freddo, il ghiaccio ricopre le strade e ogni angolo della città. Qui il narratore incontra un personaggio, estremamente caratteristico e quasi tenero per il suo vissuto doloroso e per la sua sensibilità, il signor Tatsuya Koyasu. È il vecchio bibliotecario andato in pensione,  è un uomo anziano molto particolare,  indossa una gonna scozzese, una sciarpa scozzese, una calzamaglia nera, scarpe di tennis bianche e un basco azzurro. Gli incontri fra i due avvengono in una piccola stanza quadrata, con l’unica stufa a legna presente nel palazzo dove ha sede la biblioteca. La stanza viene riscaldata da questa stufa che viene accesa prima di ogni incontro dal signor Koyasu, il quale, come la bibliotecaria della città dalle alte mura,  gli prepara una bevanda calda, per la precisione un the servito usando delle raffinate porcellane. In questa città il narratore incontra anche un ragazzo che ha la particolarità di saper leggere una enorme quantità di libri e che indossa una felpa con la stampa del Yellow submarine dei Beatles. Quest’ultimo a un certo punto della storia scompare senza lasciare traccia, così come svanisce il signor Koyasu.  

I colori presenti nel romanzo sono il rosso dei sandali della ragazza, il giallo della sua borsa, il giallo del sottomarino del ragazzo, l’azzurro blu del basco, la gonna e la sciarpa scozzese, il glicine, il verde dei salici. Il giallo e il rosso sono colori caldi come il sole, simboleggiano la vita, il glicine nella cultura giapponese simboleggia l’amicizia, l’amore eterno e la longevità, Il Salice simboleggia la grazia e la resistenza. Tutto sembra essere utile per contrastare il freddo e la morte, i colori, il supporto e l’affetto dimostrato nella preparazione delle calde bevande, il conforto e l’importanza della lettura, della storia, del passato, delle testimonianze. Grande importanza hanno Il lettore dei sogni, le biblioteche, i vari bibliotecari, il ragazzo che legge interrottamente.  Leggere il proprio essere, leggere per capire, analizzare il profondo, leggere ciò che è stato scritto o sognato, che forse è irreale o può anche essere vero e reale, nulla deve andare perduto o essere dimenticato.  Attraversare il fiume della vita in un flusso che porta alla fine dell’esistenza, fra realtà e irrealtà, fra sogno e fantasia, fra viventi e fantasmi. Nella città dalle alte mura torna la primavera, il ragazzo Yellow submarine  diviene ciò che vuole essere “Il vero lettore dei sogni”, il narratore incoraggiato dal ragazzo fa il salto e si lancia nel vuoto con fiducia, piomba nel buio, lui che è ombra si ricongiunge al suo corpo.  Qual è la realtà? è quella che stiamo vivendo o stiamo vivendo nei sogni di un altro, stiamo uscendo da un uovo che si sta schiudendo grazie a un lettore a cui la visione della nostra vita gli sta causando un forte dolore agli occhi? La nostra vita vera è dentro o fuori la città, dentro o fuori l’uovo? Il percorso della nostra vita è già scritto o può mutare? Possiamo scegliere di lasciare la nostra ombra o riprendercela? Seguire ciò che crediamo sia vero amore o abbandonare la strada e saltare aldilà del muro.  Risalire il fiume e andare contro corrente come i salmoni? Lasciarci trasportare dalle acque senza sapere la nostra destinazione finale, oppure aiutarci con la mappa della città a forma di rene che ha disegnato il ragazzo? Il rene che nella medicina cinese è l’organo dell’ energia ancestrale, che permette la vita dell’organismo, che è simbolo della potenza procreatrice e della capacità di resistenza dell’organismo. Quella città che sembra città di morte ma che invece è il luogo dove i sogni vengono liberati, dove gli uomini si fortificano, dove mutano e si muovono.  

Le ultime sezioni della terza parte si chiudono con il buio. In questo romanzo niente è stato scritto per caso, ogni parola, ogni simbolo, ogni vicenda, fanno parte di un enorme puzzle che il lettore deve ricostruire per avere una visione chiara dell’insieme. Che io però, mio malgrado, credo di non avere. Anche se penso che a volte la verità sia più semplice di quella che crediamo. Probabile che il protagonista/narratore sia arrivato alla fine della sua vita, che ci abbia semplicemente raccontato il suo percorso, il suo amore adolescenziale, il suo lavoro, l’amore per una donna più matura, il calore dell’amicizia,  la sua passione per la lettura, per la natura, il suo amore per la vita, la sua morte.

Dove sta la verità? resta un mistero, i confini fra il reale e il sogno sono incerti come le mura di quella città, incerti fra il vero e mera rappresentazione del vero. Murakami però è così abile nella costruzione dei personaggi e di quel mondo irreale che mi sembra di conoscere da sempre il signor Koyasu, come fosse realmente esistito, al punto che provo per lui ammirazione e dispiacere per ciò che ha vissuto e per il fatto che si sia dissolto nel nulla diventando evanescente, dispiacere per il fatto che sia svanito in un luogo dove non ha trovato quello che si aspettava, il ricongiungersi con i suoi cari. Penso a lui come fosse un amico scomparso. Murakami ci conduce in un mondo irreale ma dalle sembianze reali, dove tutto si muove e si spostano i confini, dove il tempo scorre lasciando dietro di se i rimpianti e le domande senza risposta ma l’orologio non ha le lancette, come accade viaggiando nello spazio alla velocità della luce, sulla terra il tempo scorre ma nella navicella si è fermato e può anche accadere di essere arrivati ancora prima di partire.

Dove si trova la verità? A questa domanda risponde l’autore nella postfazione del suo romanzo:

“In ultima analisi, la verità non si trova in un’immobilità fissata una volta per tutte, ma nel movimento costante – cioè nelle fasi di spostamento. Non consiste forse in questo il mistero della narrazione? Io ne sono convinto.”

Antonella Pizzo

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Canto della pianura di Kent Haruf lettura di Antonella Pizzo

30 mercoledì Ott 2024

Posted by Antonella Pizzo in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, CRITICA LETTERARIA, LETTERATURA, NarЯrativa, Note critiche e note di lettura

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Antonella Pizzo, kENT HARUF

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Canto della Pianura di Kent Haruf edizioni NNE

“A Holt c’era quest’uomo, Tom Guthrie, se ne stava in piedi alla finestra della cucina, sul retro di casa sua, fumava una sigaretta e guardava fuori, verso il cortile posteriore su cui proprio in quel momento stava spuntando il giorno. Quando il sole ebbe raggiunto la sommità del mulino a vento, l’uomo rimase a guardare la luce che si faceva sempre più rossa sulle alette di acciaio e sulla coda, alte sulla piattaforma in legno.”

Siamo a Holt, un paese immaginario collocato dall’autore in Colorado, assomiglia forse al piccolo villaggio agricolo  dove Haruf ha trascorso la sua infanzia, un paese dalla natura selvaggia e caratterizzato dagli spazi aperti delle grandi pianure. Siamo immersi nel silenzio e nella luce, un raggio di sole colpisce il mulino a vento, a volte soffia il vento, i campi sono dorati, le estati calde e gli inverni gelidi, allora il vento solleva i fiocchi di neve.

“Fuori, il vento era aumentato rispetto al pomeriggio. Lo sentivano ululare attorno alla casa, gemere e rumoreggiare fra gli alberi spogli. La neve farinosa, sollevata dal vento, passava davanti alle finestre e sfrecciava in raffiche improvvise attraverso il cortile gelato, alla luce di un fanale appeso a un palo del telefono sul retro. Candidi, vorticosi mulinelli nella luce azzurrina.”

Notevoli sono i contrasti fra movimento e stasi, il vento che solleva la neve, il raggio di sole che nel silenzio del mattino  colpisce le pale e Tom Guthrie, il padre di due ragazzini che non stanno mai fermi anche se in quel momento dormono ancora, sta alla finestra immobile a osservare il paesaggio che muta. Come in un film, lo spettatore osserva lo svolgimento dell’azione nello schermo, ma presto lo spettatore diventerà protagonista e farà la sua parte.
Assomiglia a un villaggio western dove ancora vivono i pionieri, gli abitanti sono pochi e si conoscono tutti, tutti sanno tutto di tutti. I contadini vivono nelle loro fattorie, coltivano i campi, riempiono i granai, accudiscono il bestiame. La strada principale è la Main Street, la città più vicina è Denver, ma lì la vita è diversa, è più dispersiva. A Holt c’è un giornale, un caffè, un fast food. C’è l’essenziale, una cittadina che basta a sé stessa. In questo spazio, in un tempo di mezzo, né troppo moderno né troppo antico si muovono i personaggi. Non c’è una precisa trama ma sembra uno spaccato di vita che inizia in un tempo e in uno spazio e a un certo punto finisce, come la vita, le vite di tutti, che non hanno una trama logica, ma un inizio e una fine, a volte insulsa, inaspettata, poco soddisfacente, a volte ha un senso compiuto, si vive sperando di trovarlo, come dice il Vasco nazionale: “Voglio trovare un senso a questa vita…Senti che bel vento, Non basta mai il tempo.”

Tom Guthrie è un professore che insegna Storia Americana, boccia uno studente che è un ignorante senza voglia di studiare. Capita nella vita di un professore, capita anche che la famiglia dello studente e lo studente stesso promettano di vendicarsi. Il professore ha due figli di nove e dieci anni, Ike e Bobby, cresciuti anzitempo, la madre soffre di depressione e va a vivere in città dalla sorella. I due bambini prima di andare a scuola prendono la bicicletta e si occupano della consegna dei giornali che arrivano ogni giorno con il treno. Una collega del professore è la buona Maggie Jones, che aiuta una studentessa sedicenne, Victoria Roubideaux, rimasta incinta di Dwayne, un quasi balordo, e cacciata di casa dalla madre. Maggie Jones prima la ospita a casa sua ma il vecchio padre non accetta la sua presenza e Maggie convince a ospitarla nella loro fattoria i due anziani fratelli McPheron, Raymond e Harold, scapoli che vivono soli, da quando la loro madre, molti anni prima, è morta. Si occupano di giovenche, di cavalli, campi di mais, di cereali. Nel romanzo sembra tutto semplice, la struttura semplice, i fatti chiari, i sentimenti ben controllati, gli ignoranti sono ignoranti che non nascondono la loro ignoranza, i cattivi non sono tanto cattivi ma sono solo ignoranti, non sono stati educati, non hanno senso civico, sono come i banditi del far west, stupidi e prepotenti, si riconoscono facilmente e quindi si riesce a tenerli a bada. Poi ci sono i buoni, e sono la maggioranza, e ciò è consolante. Sono buoni i due fratellini Ike e Bobby e i due fratelli anziani Raymond e Harold. Rappresentano il futuro e il passato. Entrambe le coppie di fratelli sentono la mancanza della madre ma riescono a vivere la loro vita anche senza. Entrambe, nonostante l’apparente fragilità, derivata dal loro essere troppo giovani o dal loro essere troppo anziani, hanno coraggio. I fratelli anziani hanno coraggio nell’accogliere in casa, con generosità, una studentessa sedicenne incinta, della quale non conoscono i comportamenti avendo vissuto sempre da soli e in mezzo al disordine, sapendo solo che la ragazza è gravida come lo sono le loro giumente. Hanno coraggio quando fanno partorire la giovenca e quando infilano le braccia dentro l’utero delle giovenche per vedere se sono state fecondate. I fratelli più giovani hanno coraggio nel far visita e compagnia a una vecchia signora abbandonata da tutti alla quale consegnano il giornale, che un mattino trovano morta nel suo appartamento, in solitudine completa. Hanno coraggio quando assistono all’autopsia del loro cavallo morto che viene squartato, le budella rinfilate dentro e poi ricucito con lo spago. Le descrizioni sono crude e il linguaggio essenziale, la natura è quella e non occorre edulcorala, bisogna accettare che ci sono le nascite e che ci sono le morti, c’è chi copula e chi rimane incinta, è il ciclo della natura, le stagioni che si susseguono, si è giovani come i due fratelli Guthrie e poi si diventa vecchi come i fratelli McPheron, si muore come la vecchia signora e si nasce come la figlia di Victoria.
In questo romanzo ci leggo la speranza, la bontà e la generosità, il trovarsi tutti insieme attorno a un tavolo a condividere esistenze, ad amarsi. Nel contrasto fra il movimento e la stasi, osservo il vento, lo spirito che soffia in tutte le stagioni, che fa muovere gli animi e fa nascere la speranza nel futuro. Leggere questo libro mi ha fatto star bene e per questo motivo lo consiglio, nonostante le descrizioni siano a volte crude e tragiche, c’è sotteso un insegnamento, mai avere paura dei banditi che entrano in città a fare razzie, meglio isolarli e fare famiglia, fare comunità aiutandosi l’uno con l’altro, come accadde nella casa dei  fratelli McPheron “quella sera di fine maggio, diciassette miglia a sud di Holt.”

Antonella Pizzo

dal sito della casa editrice NNE

Kent Haruf

Kent Haruf (1943-2014) è stato uno dei più apprezzati scrittori americani, ha ricevuto diversi riconoscimenti, tra cui il Whiting Foundation Award e una menzione speciale dalla PEN/Hemingway Foundation. Con il romanzo Il canto della pianura è stato finalista al National Book Award, al Los Angeles Times Book Prize, e al New Yorker Book Award. Con Crepuscolo, secondo romanzo della Trilogia della Pianura, ha vinto il Colorado Book Award. Benedizione è stato finalista al Folio Prize. NN Editore ha pubblicato tutti i suoi libri ambientati nella cittadina di Holt, compreso Le nostre anime di notte, bestseller uscito postumo nel 2017.

Sinossi

Con Canto della pianura si torna a Holt, dove Tom Guthrie insegna storia al liceo e da solo si occupa dei due figli piccoli, mentre la moglie passa le sue giornate al buio, chiusa in una stanza. Intanto Victoria Roubideaux a sedici anni scopre di essere incinta. Quando la madre la caccia di casa, la ragazza chiede aiuto a un’insegnante della scuola, Maggie Jones, e la sua storia si lega a quella dei vecchi fratelli McPheron, che da sempre vivono in solitudine dedicandosi all’allevamento di mucche e giumente. Come in Benedizione, le vite dei personaggi di Holt si intrecciano le une alle altre in un racconto corale di dignità, di rimpianti e d’amore. In particolare, in questo libro Kent Haruf rivolge la sua parola attenta e misurata al cominciare della vita. E ce la consegna come una gemma, pietra dura sfaccettata e preziosa, ma anche delicato germoglio.

Questo libro è per chi ama spostarsi solo con il pensiero, meglio se in poltrona e sotto una coperta a scacchi rossi e blu, per chi riesce a sentirsi a casa anche solo con una finestra aperta sul cielo, per chi cerca su google maps i luoghi dei libri, meglio se immaginari, e per chi ha deciso di affidarsi al tempo, nella convinzione che lo spazio possa sempre tradirlo.

Vite insignificanti ma indispensabili, per la più semplice delle ragioni: per la voce stupenda, quieta e luminosa, con cui Haruf ci racconta della sua Holt, di questa piccola città dove ci sembra di vivere da sempre e che mai vorremmo lasciare.” TOMMASO PINCIO

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Virdimura di Simona Lo Iacono, una lettura di Antonella Pizzo

04 mercoledì Set 2024

Posted by Antonella Pizzo in Appunti letterari, LETTERATURA, NarЯrativa, Note critiche e note di lettura

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Antonella Pizzo, simona lo iacono, virdimura

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Virdimura – Guanda pag. 224

Simona Lo Iacono 

“Ero diavola, dicevano i cristiani. Ero impura, dicevano gli ebrei. Ero perduta, dicevano gli arabi.”

Virdimura non è un personaggio di fantasia ma una donna realmente vissuta, un medico di origine ebrea figlia di medico e moglie di Pasquale de Medico di Catania. Fu la prima donna che, in assoluto, venne autorizzata a esercitare la professione medica. Così si legge in wikipedia:
“La dottoressa Virdimura, che si occupava di “medicina fisica” e specializzata nella cura delle malattie interne, chiese alle autorità di esercitare la professione medica, in un eccezionale periodo nella storia mondiale di pace fra cultura cristiana, islamica ed ebraica, per aiutare i malati indigenti che non avrebbero avuto la possibilità economica di sostenere le spese sanitarie, dal momento che le cure e le assistenze dei medici cristiani erano molto costose. Al tempo recarsi dal medico rappresentava un privilegio per pochi; sicché Virdimura volle rendere il suo mestiere una missione.
Era molto stimata per la sua bravura e conoscenza della pratica medica, ma anche per aver alleggerito il lavoro dei medici cristiani che non riuscivano a gestire tutte le richieste che pervenivano. Il suo operato fu rivolto anche alle donne, in un periodo in cui la maggioranza di esse ricorreva alla chirurgia plastica per nascondere la perdita della verginità, la cui scoperta avrebbe comportato onta e stigma sociale. La presenza di donne medico si rese necessaria allorquando le donne si rifiutarono di essere sottoposte a visite mediche da parte di uomini.”
Simona Lo Iacono ha tratto ispirazione da un documento conservato nell’archivio storico di Palermo, da questo è nata questa biografia storica romanzata. Non si sa molto della vita di Virdimura se non a grandi linee. La scrittrice ha saputo tramite la sua scrittura in siciliano antico riportare in vita Virdimura, una donna fiera e coraggiosa vissuta nel 1300, che non teme la Commissione di giudici, presieduta dal Dienchelele, riunita per decidere se concederle la licencia praticandi in scientia medicine circa curas phisicas corporum humanorum, maxime pauperum.
Virdi-mura, verde come il muschio che affiora dalle mura di Catania che il padre Uria usava raschiare per farne delle medicine. Virdimura fu il nome che le diede il padre. La madre era morta mettendola alla luce e Uria era solito portare la bimba, ancora neonata con sé. Fino a che la bimba cominciò a camminare, allora le fu concesso di camminare fra i letti dei malati, avvicinarsi a loro, imparare a curarli così come faceva il padre Uria, che del suo mestiere aveva fatto una missione.
“Pur essendo esule, mio padre non volle mai sentirsi straniero e imparò ad abitare ogni parte del mondo. Casa non era un luogo, per lui era una relazione. E ovunque potesse svilupparla, con Dio, con gli uomini, con la natura, con gli animali, edificava camere invisibili. Stanze dove soffermarsi. Edifici che non avevano mura ma nomi da pronunciare, corpi da soccorrere, da curare”.
Catania era una città popolosa, multietnica, abitata da cristiani, arabi, ebrei, ma quando fu colpita da epidemie di tifo e pestilenza qualcosa cambiò. Uria, che non era un uomo venale e che aveva un approccio diverso, più legato alla natura, alle piante, ai minerali, che guarisce i corpi e le anime, un approccio più moderno verso i malati, che era portato all’ascolto, in qualche modo ne restò coinvolto. Rimasta sola Virdimura, supportata dalle provviste e altri materiali necessari alla professioni che il padre, che sapeva che sarebbe stato allontanato, aveva provveduto a occultare in una grotta. Virdimura, senza famiglia, sola al mondo, Ebrea, donna, vittima di pregiudizi razziali e di genere, quando le donne che usavano le erbe venivano considerate streghe e quindi perseguitate, a Catania di nascosto inizia a curare i malati. Sono le donne le sue principali clienti, specie quelle che avendo subito violenza da piccole in vista del matrimonio vogliono nascondere al marito la perdita della verginità. Virdimura deve superare pregiudizi e angherie assieme a Pasquale, figlio di medico, che diventa il suo compagno di vita e di mestiere. Organizzano un laboratorio, ospedale, biblioteca, un asilo, curano gratuitamente chi ha bisogno.
Il romanzo è piacevole e interessante perchè in prima persona questa donna si racconta. Una donna vissuta nel 1300 ma moderna per carattere, determinazione, senso etico e di responsabilità, generosa e per certi versi e amorevole e ammirabile. Un’eroina. La scrittura è elevata e intessuta di siciliano antico, è ben equilibrata. Il romanzo è interessante anche perché fa luce in modo molto dettagliato nell’antica medicina, ricostruendo interventi,  e nella cultura ebraica.
Antonella Pizzo

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Mattino e sera di Jon Fosse lettura di Antonella Pizzo

18 giovedì Gen 2024

Posted by Antonella Pizzo in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA, NarЯrativa, Note critiche e note di lettura, Racconti

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Antonella Pizzo, Jon Fosse, La nave di Teseo, Mattino e sera

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La finestra socchiusa contiene un volto
sopra il campo del mare. I capelli vaghi
accompagnano il tenero ritmo del mare.
Non ci sono ricordi su questo viso.
Solo un’ombra fuggevole, come di nube.
L’ombra è umida e dolce come la sabbia
di una cavità intatta, sotto il crepuscolo.
Non ci sono ricordi. Solo un sussurro
che è la voce del mare fatta ricordo.
Nel crepuscolo l’acqua molle dell’alba
che s’imbeve di luce, rischiara il viso.

Mattino di Cesare Pavese

Mattino e sera di Jon Fosse La nave di Teseo, 2019
Jon Fosse, scrittore e drammaturgo norvegese nato nel 1959, «Per le sue opere teatrali e la prosa innovativa che danno voce all’indicibile» è stato il vincitore del premio Nobel per la Letteratura nel 2023. Per meriti letterari ha avuto l’onore di essere ospitato, per un certo periodo di tempo, a Oslo nella residenza reale di Grotten. Vincitore di moltissimi premi, tra i quali il prestigioso Premio Internazionale Ibsenil Nynorsk Literature Prize, lo Swedish Academy’s Nordista Pris, il Premio Ubu, l’European Prize for Literature, il premio Willy Brandt, è stato tradotto in numerose lingue. Oltre a testi riguardanti il teatro ha pubblicato in Italia i romanzi Melancholia; Insonni; Mattino e sera (tradotto da Margherita Podestà Heir); L’altro nome. Settologia. Vol. 1-2; Io è un altro. Settologia. Vol. 3-5.
Matino e lasera è uscito nel 2019 ed è edito dalla Nave di Teseo. Il mattino e la sera sono il principio e la fine di ogni giorno, anche la sera non rappresenta la fine del tutto poiché dopo il buio torna a splendere la luce, così ciclicamente a ripetere.

La storia è semplice ed è la storia di tutti, si nasce e si muore. Nasce un bambino che si chiama Johannes, farà il pescatore, muore un uomo che ha lo stesso nome ed è stato un pescatore. Non è chiaro se si tratta dello stesso uomo o sono due uomini qualsiasi che per mera combinazione hanno vissuto negli stessi luoghi, che portano lo stesso nome, che hanno fatto l’antico e identico mestiere di pescatore. Un mestiere che si tramanda di padre in figlio.
Marta la moglie del pescatore Olai, un mattino partorisce un bambino che chiameranno Johannes, come il nonno, anche lui sarà un pescatore come suo padre. In quel mattino particolare le energie sono forti, le tensioni straordinarie. Olai si prende la testa fra le mani, è preoccupato, teso. Marta grida, la levatrice richiede l’intervento del padre, vuole che porti dell’acqua calda. Sarà una nascita travagliata, come una lotta immane, grida di dolore squarciano l’aria nell’isoletta immersa nel freddo, gelo, ghiaccio, stridore, urla, angoscia, ansia, spinte verso la luce che si intravede ma tarda ad arrivare. Il male e il bene sembrano scontrarsi, il buio e la luce si affrontano in una lotta immane. Poi tutto si compie, Il bimbo nasce, fa iI suo rimo respiro e il suo primo vagito, gli si aprono i polmoni che si riempiono di aria e tutto si quieta e placa.
Tutto scorre come un fiume, bisogna abbandonarsi alla corrente, lasciarsi andare senza opporre resistenze, solo allora si potrà giungere alla destinazione finale. Fino al grande mare dove tutto si placa, dove non esiste più il tempo e lo spazio: «Adesso noi due saliremo sulla barca e partiremo. Dove andremo? Adesso fai domande come se tu fossi ancora vivo. Da nessuna parte? Dove andremo, non è nessun posto e per questo motivo non possiede neppure un nome». «Adesso spariranno le parole», dice nel finale Peter, il migliore amico di Johannes. Non esiste più la materia, i corpi come li conosciamo, non esiste più il dolore, non più il mare, jam in ebraico, le grandi acque, il diluvio, l’oceano, simbolo del caos primordiale, della morte, del nulla, del male, spazio popolato da mostri. Cantava Fabrizio De André nel Testamento “Questo ricordo non vi consoli quando si muore si muore soli.” Diversamente qui si nasce soli ma quando si muore, nella sera della vita, si è accompagnati da chi hai conosciuto, da chi hai voluto e ti ha voluto bene, da chi ti è stato accanto durante il tuo percorso terreno. Quando il vecchio pescatore si sveglia sembra un giorno come un altro eppure fa un incontro inaspettato e strano. Si imbatte in Peter, l’amico fraterno morto da tempo, venuto a prenderlo e accompagnarlo nel regno dei morti. Johannes non realizza che il suo amico è morto, anche se è scheletrico e ha i capelli lunghi. Johannes è confuso, si trova in una dimensione borderline, fra la vita e la morte non c’è quello stacco netto come fra la non nascita e la nascita, quando l’ossigeno penetra nei polmoni e brucia. Non vi è uno stacco netto come al mattino della vita, la sera è dolce e quieta. Non ci sono urla e travagli, non ci sono compressioni e spinte. Il pescatore è ormai anziano e si muove con lentezza eppure si sente leggero. La temperatura fuori è gelida ma a lui l’aria sembra calda. Tutto è come sempre eppure sembra tutto cambiato. Johannes vorrebbe andare a pescare ma si ricorda che stranamente non può più farlo da quando si è accorto che, contravvenendo a tutte le leggi della fisica, l’esca non affonda ma resta sospesa a metà. Tutte le leggi sono sovvertite, il sassolino buttato a Peter lo attraversa. La signorina Pettersen di cui lui era innamorato è tornata a essere giovane come un tempo. Anna che Johannes avrebbe voluto sposare è ancora incinta. Erna, su moglie, madre dei suoi sette figli è viva anche se morta ormai da tanto tempo. Lui vede e parla con sua figlia Signe ma lei sembra non sentirlo, vede il suo sguardo impaurito. La scrittura è potente e poetica, come un flusso di coscienza, fra la nebbia e la luce, i contorni sono sfumati o abbaglianti come i raggi di sole sulla neve. Mattino e sera è una lunga novella scritta con uno stile fluido, nessun punto, solo virgole. Non puoi fermarti, nessuno può fermare lo scorrere del tempo e il ciclo della vita. Ma nessuno può impedire la morte. Nessun vivo può trattenere un morto. Alla fine il punto arriva a fermare il tutto, anche se Fosse quel punto non lo mette neppure alla fine del romanzo, quando resta lo spazio bianco e sono finite le parole. Tutto scorre ma tutto resta impresso, tutto è vero ma tutto nel contempo esiste solo nei ricordi, nel ciò che è stato e che non sarà più. Resta un pugno di terra sulla bara, dei granchi rimasti invenduti, il buio, ma anche l’amore che vola in cielo sotto forma di nuvole bianche, resta il mare dei pescatori, il mare azzurro e calmo, senza un punto finale.

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Il primo sole dell’estate di Daniela Raimondi

22 giovedì Giu 2023

Posted by Antonella Pizzo in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA

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Antonella Pizzo, Daniela Raimondi, editrice nord, Il primo sole dell'estate, romanzo

Titolo: Il primo sole dell’estate
Autore: Daniela Raimondi
Prezzo copertina: € 19.00
Editore: Nord
Collana: Narrativa Nord
Data di Pubblicazione: 23 maggio 2023
EAN: 9788842935414
ISBN: 8842935417

È una casa fredda, quella in cui cresce Norma, in cui i genitori non si separano per quieto vivere e gli abbracci si contano sulle dita di una mano. Forse è per questo che, quando Norma è lontana dalla famiglia, tutto le sembra più bello. Come le estati passate dai nonni, a Stellata, un paesino in cui il tempo sembra essersi fermato ed è reso ancora più magico dai racconti di nonna Neve, che parlano di una famiglia di sognatori e di sensitivi e della zingara che ha segnato la loro strada. E poi, sempre a Stellata, c’è Elia, compagno di giochi e di confidenze. Tuttavia, quando l’infanzia cede il posto all’adolescenza, Norma scopre di avere paura dei nuovi sentimenti che la legano a Elia e decide di interrompere la loro amicizia. Passeranno molti anni prima che i due si ritrovino a Londra e il loro rapporto si trasformi in un amore adulto e totalizzante, ma il destino sta scrivendo per lei un’altra pagina, una pagina che è incominciata a Stellata e finirà molto lontano, in Brasile. Perché i sogni hanno sempre un prezzo e la felicità è un dono che si conquista attraverso la fatica.

***

La Casa sull’argine di Daniela Raimondi edito da Editrice nord nel 2020, ha venduto migliaia di copie ed è stato tradotto in moltissime lingue. Il romanzo attraverso due secoli, dall’Unità d’Italia agli anni di piombo, narra le vicende della famiglia Casadio di Stellata.   Dopo La casa sull’argine, Daniela Raimondi  torna in libreria con un nuovo romanzo dal titolo Il primo sole dell’estate, edito anch’esso da editrice nord. In questo nuovo romanzo ci racconta lo svolgersi della vita di alcuni personaggi già presenti nel precedente libro, principalmente si racconta della vita di Norma che è l’io narrante della storia e di sua madre Elsa. Il romanzo nato come seguito del primo ha però una sua costruzione autonoma e si regge da solo, così si può trarre piacere dalla sua lettura anche se non si è letto il primo.  La figura centrale del romanzo è Norma Martiroli, nata nel 1947 in un inverno freddissimo, figlia di Guido e Elsa, una coppia scoppiata, che non si è mai amata. Elsa si era sposata a vent’anni già incinta ma non voleva un figlio, voleva godersi un po’ la  vita, visto che aveva passato gli anni dell’infanzia a crescere e accudire i numerosi fratellini, che sua madre sfornava uno dopo all’altro,  invece di giocare nel cortile come tutti i suoi coetanei. Quando Elsa partorisce e nasce Norma,  il padre,  Guido Casadio, figlio di Neve e gemello di Dolfo che ha sposato Zena, va  a comunicare con gioia la bella notizia della nascita della bimba ai parenti. Nonna Neve è felicissima ma la stessa felicità non è provata da Elsa che considera sua figlia quasi come fosse un’estranea e la tratta con estrema freddezza. Norma trova il calore solo quando si trova a Stellata, il loro paese d’origine dove tutto è cominciato tramite Viollca una gitana sensitiva che aveva in sé la magia  e che aveva contribuito a far nascere una generazione dalla doppia identità, i sognatori e sensitivi e quelli con i piedi ben piantati in terra e pragmatici. A Stellata, c’è Elia, uno strano bambino, uno che combina guai, diverso dagli altri, Elia diventa il suo compagno di giochi e di confidenze. Passata l’infanzia,  Norma scopre di aver paura di ciò che sente per Elia e decide di interrompere la loro amicizia.  Dopo molti anni Norma ritroverà Elia a Londra e si accorge di averlo sempre amato e di amarlo ancora. Come si può non innamorarsi di Elia? Ribelle, dalle idee progressiste e con l’avversione per il moralismo della società borghese, anticonformista, con i suoi capelli lungi e la sua barba, affascinante nonostante ami indossare le mutande bianche antiche, intelligente, gentile. Sembra andare  tutto nel miglior dei modi, lei ha sposato l’uomo che ama e al quale ha dato il suo primo bacio. Ma la sorte rema contro e il destino è avverso. I due si sposano e vanno in viaggio di nozze in Brasile dove vivono la zia Adele e la figlia  Maria Luz. Lì, il destino beffardo li attende.

Il romanzo si svolge  tra il passato e il presente. Fra il Brasile, l’Inghilterra e l’Italia. Nel presente Norma deve occuparsi  della madre che è molto malata ed è voluta tornare  a Stellata.  Norma ha lasciato Londra ed è tornata in Italia a vivere con la madre malata, con quella madre che ora è diventata come un bambina ma  che non ha mai avuto una carezza o una parola buona per lei bambina. Norma accanto alla madre ricorda e rivive il suo passato, la felicità e il dolore provato, le gioie e le delusioni, la vita generosa e la vita beffarda che si è presa gioco di lei. Fra magia  e realtà si svolge la vita di Norma. L’amata cugina Donata ha militato nelle Brigate rosse e fa una brutta fine. Donata ha ereditato dall’antenata gitana la capacità di predire il futuro attraverso la lettura dei tarocchi e dei sogni, rivela a Norma le sue visioni, ma la cugina non capisce la portata della sua previsione, solo dopo, quando Donata non ci sarà più,  si renderà conto come e quando si era avverata in pieno la profezia che la riguardava.

Nel romanzo si raccontano tutte le vicissitudini della famiglia Martitoli. Un grande affresco ricco di personaggi dalle mille sfumature, che amano e odiano, che gioiscono e soffrono. Norma alla fine dopo aver sofferto tanto a causa dei tradimenti inaspettati, essere delusa proprio dalla persone che lei amava di più e nelle quali riponeva fiducia e speranza, riesce a ricostruire la propria felicità, nel perdono e nella comprensione. La felicità non è un dono che cade massiccio dal cielo sulla terra ma si edifica mattone su mattone, si costruisce giorno dopo giorno con determinazione e sacrificio, liberandosi dai pesi che impediscono la sua realizzazione, tornando alle radici, tornando all’innocenza e allo stupore dei bambini.  

Una lettura avvincente, Daniela Raimondi è un’autrice ecclettica e che non delude mai, è una poeta che ha ricevuto importanti riconoscimenti e anche come narratrice sta dimostrando tutto il suo valore.

Daniela Raimondi è nata in provincia di Mantova e ha trascorso la maggior parte della sua vita in Inghilterra. Ora si divide tra Londra e la Sardegna.
Ha pubblicato dieci libri di poesia che hanno ottenuto importanti riconoscimenti nazionali. Suoi racconti sono presenti in antologie e riviste letterarie. La casa sull’argine, edito da Nord, e uscito nel 2020 è stato il suo primo romanzo e nel 2023 è uscito, sempre per i tipi della Nord, Il primo sole dell’estate.

antonella pizzo

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Tornare dal bosco di Maddalena Vaglio Tanet

08 giovedì Giu 2023

Posted by Antonella Pizzo in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, CRITICA LETTERARIA, LETTERATURA, NarЯrativa, Note critiche e note di lettura, Recensioni

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Antonella Pizzo, Maddalena Vaglio Tanet, Premio strega, romanzo, Tornare dal bosco

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In Attenti al lupo scriveva Ron nel 1990 e cantava Lucio Dalla: Questa vita è una catena/Qualche volta fa un po’ male/Guarda come son tranquilla io/Anche se attraverso il bosco/con l’aiuto del buon Dio/stando sempre attenti al lupo. Il bosco è nell’immaginario collettivo un luogo pauroso e oscuro dove ci si può perdere facilmente ed è abitato da animali pericolosi come il lupo o l’orso. Occorre stare in guardia, non perdere la strada e lasciare traccia del nostro passaggio, facendo cadere i sassolini come fece Pollicino. Oppure può essere un luogo accogliente dove rifugiarsi, come fece Biancaneve che trovò ospitalità e riparo nella casa dei sette nani. Un luogo dove perdersi e dove ritrovarsi. Il bosco è metafora della vita, è attraversamento e rifugio. Quando la maestra Silvia legge la notizia sul giornale invece di andare a scuola entra nel bosco. La vicenda si svolge negli anni ‘70 in un piccolo paese vicino a Torino, fra le montagne e al limitare del bosco, dove lentamente stanno arrivando i primi segnali della modernità. La notizia che sconvolge Silvia è il suicidio di Giovanna una sua scolara di undici anni. La bambina si è lasciata andare giù nel fiume saltando dalla finestra di casa sua, si è levata le scarpe e si è buttata. Silvia seguiva questa sua alunna con molta attenzione perché la ragazzina, appartenente a una famiglia modesta, aveva problemi a scuola, problemi forse non troppo dissimili a quelli che aveva lei da bambina. La maestra Silvia aveva chiamato il giorno prima la madre per lamentarsi del suo rendimento scolastico. Silvia non è una donna qualunque ma ha una funzione sociale precisa e determinata, un ruolo definito. Silvia è la maestra. Non è una donna qualunque, non è una madre, non è una moglie, non è una fidanzata, non è una figlia, Silvia è la maestra e basta. Alla maestra si chiede un’unica cosa, quella e nessun’altra cosa se non quella di fare la maestra e di saperla far bene. Silvia è cresciuta dalle suore e ha ricevuto un’educazione rigida, della sua infanzia ricorda il bosco nel quale si avventurava con il cugino e con il quale andava con gioia a raccogliere funghi. Il bosco è il luogo dell’infanzia, è in grembo materno che la ri-accoglie. Il senso di colpa e di inadeguatezza a svolgere il suo ruolo di insegnante la porta a rifugiarsi nel bosco e a sparire nel nulla. In paese tutti la cercano e temono una disgrazia. Rifugiatasi in un capanno che conosceva sin da piccola, ormai coperto dalla vegetazione, Silvia passa a ritroso tutta la sua vita, acquista consapevolezza del suo fallimento, si rende conto di non essere mai stata una donna ma un frutto ammuffito prima ancora di avere raggiunto la maturità. Silvia si lascia morire, non mangia e non beve, si vergogna di se stessa. Viene trovata da un bambino asmatico e sofferente, Martino, un alunno proveniente dalla vicina Torino che si è trasferito in paese per quei suoi motivi di salute. Martino non sa nulla della maestra, impara a conoscerla negli incontri segreti che avvengono al capanno. Martino è di parola e non rivelerà a nessuno che ha trovato Silvia. La maestra muta, infreddolita, sporca, disidratata, diventerà parte integrante e viva del bosco, perché il bosco è vivo nelle muffe, nei parassiti, nei vermi, non muore ma si trasforma. Sarà Martino a portarle da bere e da mangiare e la maestra Silvia si fa convincere a mangiare e a bere fino a che Silvia si è trasformata in qualcos’altro. Alla fine qualcosa accade ma resta sempre aperto un interrogativo. C’è qualcosa che nel romanzo non si conclude, il cerchio resta incompleto. Sembra una fiaba all’incontrario, in genere nelle fiabe si perdono i bambini, qui invece è l’adulto che si perde e il bambino è il salvatore che la ritrova. Un adulto la cui esistenza, nel bene e nel male, dipende dalle azioni di due bambini ha qualcosa di inquietante. Nelle fiabe c’è sempre una morale, qui mi sembra ci sia una morale all’incontrario. È un romanzo cupo. Allora in questa atmosfera cupa attraversando il bosco canterò: Guarda come son tranquilla io/Anche se attraverso il bosco/con l’aiuto del buon Dio/stando sempre attenti al lupo.
Il romanzo è ispirato a storia vera occorsa a un lontano parente dell’autrice, Maddalena Vaglio Tanet, a Bioglio, un paesino di montagna in provincia di Biella, dove ha trascorso dai nonni tutte le sue vacanze estive. Nata nel 1985, ha studiato letteratura all’Università di Pisa e vive a Maastricht dove svolge la professione di scout letteraria. È stata finalista del premio Strega Ragazzi nel 2021 con il libro Il cavolo di Troia e altri miti sbagliati.

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Navi nel deserto di Luigi Weber

11 giovedì Mag 2023

Posted by Antonella Pizzo in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, LETTERATURA, NarЯrativa, Note critiche e note di lettura

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Antonella Pizzo, Luigi Weber, Navi nel deserto

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Navi nel deserto
di Luigi Weber
Il ramo e la foglia edizioni, gennaio 2023
pp. 376

Se c’era un detto autentico in bocca a quello sputasentenze di Schomberg, era “la mia strada la segnano i fuochi nella notte”.
In un deserto punteggiato di piccole oasi, di rocche fortificate alte su speroni di pietra, tra piste di terra battuta per navi a ruote e città abbandonate che emergono dalle sabbie come relitti, giocano a scacchi con il destino e la morte un giovane capitano inesperto, un traditore, un naufrago, un uomo ossessionato dal desiderio di vendetta, una ragazza inquieta e la sua nutrice.
Naviganti, Pirati, Isolane e Cittadini dividono una terra aspra, inospitale, e se la contendono intrecciando odio, pregiudizi, incomprensioni.
Attorno a loro, da ogni parte, si innalzano lenti nel cielo i sette pilastri della distruzione.
I grandi romanzi e i personaggi di Joseph Conrad, affondati, sbriciolati e dispersi in un mare solido, tornano a incontrarsi e scontrarsi lungo le piste di una storia tutta nuova.
*

«Sulla Kairos dormivano, tutti. Nessuno ancora sapeva dell’arrivo dei Pirati in quelle terre, e la sorveglianza semplicemente non esisteva.
Io non dormivo, invece. Il deserto è piatto, l’aria notturna tersa, e l’incendio dell’infelice vittima ardeva molto sopra le dune, come la porta dell’inferno spalancata. Perfino da terra lo vidi distintamente, e mi si agghiacciò il sangue.»
Luigi Weber è un insegnante di Letteratura Italiana Contemporanea all’Università di Bologna. Il Romanzo distopico Navi nel deserto è la sua opera prima. Nato dopo lunga gestazione, come dichiarato dall’autore in interviste apparse sul web, “Navi nel deserto è uno strano indefinibile oggetto, persino per me che ci convivo da un tempo lunghissimo. Un esordio romanzesco attempato, a cinquant’anni, e insieme paradossalmente giovanile, perché mi accompagna da quando ne avevo venti. A prima vista sembrerebbe un prodotto sospeso tra narrativa d’avventura per ragazzi, fantascienza e fantasy, mentre non è niente di tutto ciò. “

***

Non importa come sia potuto accadere e perché, non si sa quando sia accaduto, non si conosce quale sia la catastrofe occorsa, se guerra atomica o spostamento dell’asse terrestre, o la caduta di un meteorite, ma la terra di un tempo non esiste più, i fiumi, i mari, le montagne, le città, tutto è coperto da una spessa coltre di sabbia. Affiora solo qui e là qualche spuntone metallico facente parte di qualche alta costruzione. Il mondo è sotto, è il Downtown, un mondo sommerso, “Indica la parte nevralgica delle antiche città, dove si alzavano tutti i grattacieli. Oh Dio, sapevo che c’era una in questa regione, ma come si fa a crederci…“ I personaggi portano i nomi dei protagonisti dei romanzi di Conrad, a partire dal protagonista principale, il capitano, che porta addirittura il nome dello scrittore Joseph Conrad. Ci sono molte citazioni che riguardano Conrad, ad esempio quando Freya, promessa a Julian Sands il naufrago che abita in una delle oasi, dice di sé che il suo è un cuore di tenebra. A differenza delle atmosfere di Conrad di Cuore di tenebra, che sono volontariamente ombrose e cupe; a differenza  del romanzo la strada di McCartey, dove era accaduto qualcosa di terribile alla terra, dove il paesaggio scena dopo scena, dall’inizio e fino alla fine del romanzo, è sempre grigio, dove tutto è coperto di cenere e anche l’atmosfera e satura di cenere, in questo romanzo c’è sempre un sole abbagliante, potente, infuocato , che brucia “…Uff, il sole! – non ne abbiamo abbastanza di sole, ogni giorno della nostra vita? Se c’è qualcosa che non manca mai, qui, potete giurarci, è proprio il sole.”

Le navi solcano i deserti su grandi ruote che seguono delle strade numerate su dei binari prestabili come una sorta di ferrovia dotata di scambi, come quelle dei treni, per passare da una strada numerata all’altra. Per quanto riguarda la struttura il libro è diviso in dieci interludi  e vari capitoli,  e coesistono diverse voci narranti. Alternando il punto di vista si vorrebbe accrescere il ritmo della narrazione. Notevoli le descrizioni dei paesaggi sabbiosi e dei colori, nonché degli stati d’animo complessi dei protagonisti. Benché l’ambientazione è futurista e post atomica,  a volte si ha l’impressione che i personaggi siano regrediti nel passato e vivano le atmosfere dei regni greco-romano, o egiziano, o minoico.
Questa terra di oggi è abitata da uomini uguali a quelli che abitavano la terra di prima. Gli uomini hanno sempre le stesse emozioni e gli stessi sentimenti, l’uomo è sempre uguale a se stesso, simile nei difetti e nei pregi. Sotto la cenere della città di Pompei sono state trovati oggetti e suppellettili che anche noi, uomini moderni, avremmo trovato comodi da usare. Sono state trovate iscrizioni nei muri contro certi personaggi politici e pubblicità varie, fontane dove bere e piazze dove incontrarsi e passeggiare. I bisogni dell’uomo saranno sempre uguali, il bisogno di stare in gruppo, di condividere, di amare, di classificare, di odiare e di disprezzare il diverso e di aggregarsi a chi si ritiene sia più simile a noi. I pregiudizi e le discriminazioni accompagneranno sempre gli uomini qualunque sia il mondo abitato. L’umanità abitante questa terra sabbiosa e infuocata è riuscita a trovare una sua organizzazione. La società del romanzo è divisa in due gruppi, stanziali e nomadi. Gli stanziali sono i cittadini cioè gli uomini che hanno preferito arroccarsi nelle fortificazioni, e gli isolani che abitano le oasi in mezzo al deserto dove attraccano le navi. I nomadi sono i naviganti, cioè quelli che in giovane età sono usciti dalle rocche e hanno costruito delle navi nelle quali hanno trascorso insieme tutta la loro vita, e i feroci pirati che in genere sono i fuoriusciti dalle rocche il cui scopo è quello di inseguire i naviganti. Non conta chi sei, da solo non hai identità e dignità, conta solo a quale gruppo appartieni, ed è un’anomalia che il capitano Conrad sia un cittadino diventato navigante.

Si tratta di un romanzo distopico, d’avventura, avveniristico, fantascientifico, ma non solo, questo romanzo parla principalmente di uomini, delle loro paure e dei loro sentimenti. Dello sforzo giornaliero di sopravvivere in un ambiente che è diventato ostile e pieno di pericoli o che ti costringe a vivere murato vivo pur di non perdere la vita. A cambiare faccia e a fingerti altro per non perire. A perire per non cambiare. Un romanzo molto particolare, adatto e consigliato a chi ama il genere distopico e apocalittico.

mpluchi@yahoo.it

Antonella Pizzo 

bio Luigi Weber
Nato nel 1972 a Rimini, ma dall’incontro tra un trentino di Rovereto e una toscana di Marradi, quindi sospeso tra il mare, le Alpi e gli Appennini, Luigi Weber da lungo tempo ormai si è risolto per la pianura, e vive e lavora nella città che più gli è congeniale, Bologna, con la sua famiglia. Qui ha studiato e si è laureato in Lettere Classiche, nel 1998; qui, dopo una pausa di alcuni anni trascorsa come giornalista in Romagna, è tornato definitivamente ad abitare, iniziando una collaborazione ormai più che ventennale con l’Ateneo in cui adesso insegna Letteratura Italiana Contemporanea. Nel frattempo ha vissuto anche nel magico mondo del teatro di ricerca, partecipando a nove indimenticabili edizioni del Festival di Santarcangelo come caporedattore del Quaderno del Festival. Per alcuni anni ha insegnato a scuola, a bambini delle medie di Imola e adulti nelle serali di Vergato, e anche quelli sono stati anni e incontri impossibili da scordare. Dal 2012 è diventato Ricercatore e poi dal 2014 Professore Associato presso il Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica di Bologna. Ha scritti libri e curato edizioni e pubblicato saggi su molti autori e fenomeni letterari dell’Otto e del Novecento, da Manzoni al Gruppo 63, occupandosi di letteratura fantastica, poesia e romanzo sperimentale, letteratura di guerra e di viaggio. Dal 2021 fa parte del Comitato Direttivo della MOD, Società Italiana per lo Studio della Modernità Letteraria.

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Nostalgia di Ermanno Rea

27 giovedì Apr 2023

Posted by Antonella Pizzo in Appunti letterari, Cinema, Consigli e percorsi di lettura, CRITICA LETTERARIA, LETTERATURA, NarЯrativa, Note critiche e note di lettura

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Antonella Pizzo, Ermanno Rea, Favino, Mario Martone, Nostalgia, romanzo

OIP

Dal greco: nostos ritorno a casa e algos dolore. Il dolore del ritorno. Nostalgia, dolore del ritorno, quel malessere che ti prende quando ripensi alle cose del passato, ai luoghi in cui hai abitato, alle persone che hai conosciuto e amato. Il libro racconta la Sanità e le sue bellezze nascoste, visibili solo a chi ama il quartiere, un quartiere ricco di storia e di umanità. Racconta anche della nostalgia provata per Napoli di Felice Lasco, un sessantenne nato e cresciuto al Rione sanità e che ha vissuto per altri quaranta anni all’estero. Il rione della sanità viene descritto in modo particolareggiato e poetico da Ermanno Rea, sono luoghi che amava perché i suoi nonni abitavano nel cuore del rione in quella lunga strada che è Via Cristallini. Frequentando quei luoghi era venuto a conoscenza della vera storia da cui ha tratto il romanzo. Il libro racconta la storia di due ragazzi, Oreste Spasiano, detto Malommo, e Felice Lasco. Sono nati negli anni 50 in quel quartiere che è come fosse un mondo a sé stante, ai piedi di Capodimonte, un quartiere che aveva visto passare principi e re, costruito sulle catacombe, su grotte, su strapiombi di tufo, piena di orti e giardini misteriosi, la chiamavano la valle dei morti per via del cimitero delle Fontanelle e per le spoglie mortali di San Gaudioso e San Severo in quei luoghi custodite. Continua a leggere →

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TITANiO di Loredana Semantica, Terra d’ulivi 2023. Una lettura di Antonella Pizzo

18 martedì Apr 2023

Posted by Antonella Pizzo in Appunti letterari, Consigli e percorsi di lettura, CRITICA LETTERARIA, LETTERATURA, Note critiche e note di lettura, POESIA, Poesie, Recensioni

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Antonella Pizzo, Loredana Semantica, POESIA, poesia contemporanea, Terra d'ulivi, titanio

TITANiO

Dopo L’informe amniotico [appunti numerati e qualchepoesia]  edito da Limina Mentis edizioni, 2015, opera prima di Loredana Semantica,  con prefazioni di Giorgio Bonacini e Rosa Pierno segnalato al premio Lorenzo Montano, esce la nuova raccolta di Loredana Semantica TITANiO edita da Terra d’Ulivi 2023.  Il titanio è un elemento metallico conosciuto per la sua resistenza alla corrosione, quasi pari a quella del platino, nonché per il suo alto rapporto tra resistenza e peso. È un metallo leggero, duro ma con bassa densità. Allo stato puro è molto duttile, lucido, di colore bianco metallico.

Il Titanio è il metallo ideale perché porta in sé due qualità opposte e ugualmente importanti, rappresenta l’equilibrio fra due proprietà intrinseche, la leggerezza e la resistenza.

La parola Titano deriva dal latino Titanus. I Titani vengono considerati come le forze primordiali del cosmo, che imperversavano sul mondo prima dell’intervento regolatore e ordinatore degli dei olimpici. C’è anche un IO graficamente inserito con la i in minuscolo a formare la parola che dà il titolo alla raccolta, suggerendo probabilmente che l’io poetico dell’autrice si qualifica,  si colloca, si identifica con la leggerezza e la durezza.

Le poesie sono sotto datate e seguono un ordine cronologico preciso,  sono in ordine progressivo cronologico dalla più vecchia alla più recente all’interno di ogni sezione,  ordinata per senso e omogeneità di stile e ispirazione. TITANiO raccoglie settanta poesie ripartite in 4 sezioni: 12 in Je est un autre, 21 in Biografia, 12 in Calligrafia, infine 25 in Sacrario. Esse scaturiscono da un lavoro, durato un anno, di riordino della produzione poetica dell’autrice degli anni che vanno dal 2010 al 2021, lavoro iniziato con la raccolta inedita In absentia vocis che è stata segnalata al Premio Lorenzo Montano del 2022.

Riporta l’autrice in prima pagina un breve testo tratto dalle Memorie di Adriano di Margherita Yourcenar    “Sono giunto a quell’età per cui la vita è, per ogni uomo una sconfitta accettata…  Ritrovavo in quel mito, (dei Titani n.d.r)  ambientato ai confini del mondo, le teorie dei filosofi di cui mi ero nutrito: ogni uomo, nel corso della sua breve esistenza, deve scegliere eternamente tra la speranza insonne e la saggia rinuncia ad ogni speranza, tra i piaceri dell’anarchia e quelli dell’ordine, tra il Titano e l’Olimpico. Scegliere tra essi, o riuscire a comporre, tra essi l’armonia.”  Ciò ci induce a credere che questo lavoro di riordino sia scaturito dal  bisogno di Loredana Semantica di riuscire a comporre un’armonia, un equilibrio, fra la sua vita quotidiana ordinata e regolare e le bruttezze del vivere, fra le forze irrequiete dell’inconscio generatrici di metafore e sogni, fra il sonno  e la veglia,  fra il suo bisogno di bellezza che salva e la necessità dell’amaro pane, quell’armonia necessaria che non porta alla rinuncia della speranza e che consente piuttosto di bilanciare le due  parti contrastanti.

Da questo equilibrio di forze, proprio quando dall’incontro delle due parti potrebbero scaturire lampi e saette,  dall’attrito delle due, fluisce piuttosto precisa e misurata la sua poesia, quasi un lento ritmare,  a tratti nostalgica, velata di ironia, non cinica ma disincantata, rassegnata ma non troppo, che osserva con freddezza la  nuda e cruda realtà sperando però che le sue parole siano come semi dai quali un giorno nasceranno  fiori. Spargo semi nel mondo/non appariscenti/gli occhi profondi/chissà se ne sbocceranno fiori. Una poesia che ha una sua musica interna come una musica da camera che sembrerebbe tranquillizzare Io vorrei dormire/di più e più a lungo/il sonno dovrebbe coprire/ogni pensiero con la sua/coltre bianca di silenzi e neve.// in realtà provoca un vago senso di malessere, il suo sguardo disincantato si ferma sulle cose inanimate, su un fantomatico  direttore, che rappresenta il potere, sul lavoro che aliena e che spesso ci è alieno, negli immensi bla bla, sapessi come tutto gira intorno/senza senso/c’è un bla bla immenso/ nel quale non mi riconosco/quattro fessi al tavolo di fronte/ parlano e ridono/con la bocca ripiena di cibo. La casa e gli affetti familiari che sono il suo porto sicuro e la ripagano di quel senso di non appartenenza e ostilità avvertito nel quotidiano andare. Scrivo una dopo l’altra/cose elementari/quasi uno scavare dentro/ fino all’essenza//,  appartenenza che ritrova però nelle sue radici e nella loro ricerca delle quale lei sente d’essere la foglia terminale.

Non se questa sia ricerca spirituale/o piuttosto di radici.  C’è un acclamare alla parola salvifica che può essere occasione di riscatto e di ritrovamento del sé più autentico. Lo calpesto  se posso e l’odio/lo danneggio e rivendico/ inneggio alla parola/mio unico luogo labirintico. Oppure ancora Io starei immota al caldo/beata in un respiro lieve/aperto ai movimenti del corpo/e del torace lenti e morbidi/come una schiuma soffice. Bisogna comunque leggerla questa raccolta e farsi un’idea propria perché nessuna nota può essere esaustiva perché è vasta la materia trattata, trattandosi di vita.

Di certo si può dire che l’autrice sa scrivere bene, che la sua scrittura è matura, che scrive e frequenta il web poetico da vent’anni, che ha fatto bene a riordinare la sua significativa produzione poetica, affinché non venga perduta nei meandri di una memoria volatile di un pc, come quelle foto, spesso importanti e belle, che non facciamo stampare mai e che ci dimentichiamo di aver fatto, negandoci il piacere della vicinanza, ma che dovremmo trasformare in concretezza cartacea affinché si squarci la siepe della dimenticanza che oscura i ricordi e il sole. (Antonella Pizzo)

Testi

Abbiatemi per lontanissima
così lontana che tremano i cieli
nella mia bocca d’amianto
costretta da un solo cunicolo
abbiatemi per rarefatta
così sperduta molecola
che nello spazio non piove
neanche un raggio di luce
a forare coltre maledetta
la piracanta spinosa.

10.02.2017

Io sono qui
e qui è la mia casa
i miei profumi la crema
per il viso le borse le ciabatte
i miei vestiti e arredi
qui il mio cane il frigo ricco
di cose buone il mio lavoro
gravoso e senza sole
atomica che sfianca e fagocita
l’uranio impoverito dei miei giorni
qui il mio centro e debolezza
mia forza e sicurezza la sagoma
del tuo corpo confortevole
il capo bianco dei tuoi capelli corti
qui i miei figli quando capita talvolta
a ristorare l’attesa ostinata
tra un’uscita e l’altra
con gli amici.

5.4.2017

Dentro di me un romanzo
dalla nascita brulicante di cortili
alle gebbie d’acqua fredda e anguille
sperdute tra rovi cicale e frinire
oltre le cancellate in cima alle scale
nei posti della memoria
dimenticati dalla storia spariti dalla terra
arati dalle ruspe al suolo
che compaiono solamente
in flash incerti dei ricordi
quasi fossero dei sogni.
In un altro capitolo il presente
arroccato a qualcosa che si sgretola
mentre avanza il tempo inesorabile
senza fretta con la calma sicurezza
di chi non ha precisi appuntamenti
dagli ostacoli si vede
che franano i punti fermi
gli stessi che sul foglio con la penna
erano uniti in progressione
in forme di una certa consistenza
a cui appuntare piedi medaglie o certezze
d’essere un preciso essere
un puntino esatto sulla terra.
Adesso il finale ad effetto
sui palmi le stimmate rosse
nel costato lo squarcio incrostato
dell’eremita.

10.01.2020

biografia

Siti dell’autrice

https://liminamundi.com 

https://lunacentrale.wordpress.com/

Loredana Semantica

Nata a Catania, laureata in giurisprudenza, sposata, ha due figli, vive e lavora a Siracusa. Si interessa da molti anni di poesia, fotografia e lavorazione digitale di immagini. Proviene dall’esperienza  di partecipazione e/o collaborazione a gruppi poetici, di fotografia, arte digitale, litblog, associazioni culturali nel web e su facebook. Ha pubblicato in rete all’indirizzo http://issuu.com/loredanasemantica le seguenti raccolte visuali e/o poetiche: 

Silloge minima (7/11/2009) 

Metamorfosi semantica (3.2.2010), 

Ora pro nomi(s) (27.3.2010) 

Parole e cicale (13.8.2010) 

L’informe amniotico (27.2.2011), quest’ultima raccolta  opera selezionata al premio Opera Prima 2012 e finalista al premio Lorenzo Montano 2012” è stata pubblicata nel 2015 da Liminamentis.

Il 4 agosto 2012 ha pubblicato, sempre su issuu, la raccolta di riflessioni e racconti “I sette vizi capitali” e da ultimo una Trilogia poetica, formata dalle tre seguenti raccolte: “Apologia del silenzio“, “Nulla Parola” di 30 poesie ciascuna, e “Poesia delle feste” .

Con Feltrinelli/ilmiolibro, insieme a Deborah Mega e Maria Rita Orlando nel 2015 ha pubblicato La prima rosa antologia di 160 poesie e 28 immagini d’autore sul tema della rosa. Gestisce il blog personale  “Di poche foglie” all’indirizzo https://lunacentrale.wordpress.com/.

antonella pizzo

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