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LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

LIMINA MUNDI

Archivi tag: Dino Buzzati

Sette piani

12 lunedì Ott 2020

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, LETTERATURA E POESIA, Racconti

≈ 1 Commento

Tag

Dino Buzzati, La boutique del mistero, racconto psicologico

 

“Sette piani” è un racconto breve di Dino Buzzati, scritto nel 1937 e inserito dapprima nell’antologia I sette messaggeri del 1942 e successivamente nella raccolta dal titolo “Sessanta racconti” del 1968.

La storia vede il protagonista, l’avvocato Giuseppe Corte, ricoverarsi in un ospedale per fare degli accertamenti e curare la leggerissima forma di malattia da cui è affetto. L’ospedale in questione ha una particolarità: ogni piano dei sette che lo costituiscono categorizza i pazienti in base alla gravità della loro malattia. Il Corte viene accolto subito al settimo piano, in attesa di guarire dalla malattia e quindi di poter tornare a casa, qui sono accettati i pazienti che devono fare solo degli accertamenti diagnostici di poco conto e che trascorrono il tempo della degenza come se si trattasse di una villeggiatura. Man mano che si scende, la gravità dello stato di salute dei pazienti aumenta fino ad arrivare al primo piano, dove le finestre sono sempre chiuse e su cui anche lo sguardo dei degenti dei piani alti non indugia per paura e scaramanzia. Dopo qualche giorno di permanenza, a Giuseppe Corte viene chiesto, con una scusa banale, di scendere al piano di sotto, in via temporanea. Ai suoi nuovi compagni di piano Giuseppe precisa che lui è del piano superiore dove, al più presto tornerà. Le cose però non andranno così. Corte si arrabbia, dibatte e litiga con i dottori per quella che ritiene un’ingiustizia e alle infermiere ribadisce che non è malato. Non si cura di quello che avviene dentro di lui, della “vera” malattia, su cui anche il lettore rimane all’oscuro. Proietta all’esterno il problema,  vuole e pretende solo di stare tra i “sani” ma cade nella solitudine, nella frustrazione e nell’impotenza. Il racconto è degno del miglior Buzzati, quello dei paesaggi introspettivi e desolati del “Deserto dei Tartari”, in questo caso però l’autore ci conduce all’interno del mondo sanitario. Quando scrive il suo racconto infatti si è in pieno periodo dello sviluppo dei grandi sanatori che accoglievano i pazienti affetti da TBC e da altri mali e fin da allora gerarchizzavano la cura attraverso il rispetto di terapie e protocolli. Il racconto offre una efficace metafora del mondo sanitario, dell’assistenza medica e infermieristica e ben rappresenta lo stillicidio che vive il Corte che coltiva sempre la speranza di tornare ai piani alti ma si rende conto della precarietà della salute. Dal racconto di Buzzati ne è stata tratta una pièce teatrale rappresentata per la prima volta al Piccolo Teatro di Milano nel 1953 e successivamente riproposta in molte città europee con il titolo: “Un caso clinico”. L’attore Ugo Tognazzi ne farà un film nel 1967: “Il fischio al naso”, e per la televisione, qualche anno dopo, Aroldo Tieri riprenderà la trasposizione curata da Albert Camus e rappresentata al Théatre La Bruyère nel 1955.

*

Dopo un giorno di viaggio in treno, Giuseppe Corte arrivò, una mattina di marzo, alla città dove c’era la famosa casa di cura. Aveva un po’ di febbre, ma volle fare ugualmente a piedi strada fra la stazione e l’ospedale, portandosi la sua valigetta. Benché avesse soltanto una leggerissima forma incipiente, Giuseppe Corte era stato consigliato di rivolgersi al celebre sanatorio, dove non si curava che quell’unica malattia. Ciò garantiva un’eccezionale competenza nei medici e la più razionale ed efficace sistemazione d’impianti. Quando lo scorse da lontano – e lo riconobbe per averne già visto la fotografia in una circolare pubblicitaria – , Giuseppe Corte ebbe un’ottima impressione. Il bianco edificio a sette piani era solcato da regolari rientranze che gli davano una fisionomia vaga d’albergo. Tutt’attorno era una cinta di alti alberi. Dopo una sommaria visita medica, in attesa di un esame più accurato Giuseppe Corte fu messo in una gaia camera del settimo ed ultimo piano. I mobili erano chiari e lindi come la tappezzeria, le poltrone erano di legno, i cuscini rivestiti di policrome stoffe. La vista spaziava su uno dei più bei quartieri della città. Tutto era tranquillo, ospitale e rassicurante. Giuseppe Corte si mise subito a letto e, accesa la lampadina sopra il capezzale, cominciò a leggere un libro che aveva portato con sé… Poco dopo entrò un’infermiera per chiedergli se desiderasse qualcosa… Giuseppe Corte non desiderava nulla ma si mise volentieri a discorrere con la giovane, chiedendo informazioni sulla casa di cura. Seppe così la strana caratteristica di quell’ospedale. I malati erano distribuiti piano per piano a seconda della gravità. Il settimo, cioè l’ultimo, era per le forme leggerissime. Il sesto era destinato ai malati non gravi ma neppure da trascurare. Al quinto si curavano già affezioni serie e così di seguito, di piano in piano. Al secondo erano i malati gravissimi. Al primo, quelli per cui era inutile sperare. Questo singolare sistema, oltre a sveltire grandemente il servizio, impediva che un malato leggero potesse venir turbato dalla vicinanza di un collega in agonia, e garantiva in ogni piano un’atmosfera omogenea. D’altra parte la cura poteva venir così graduata in modo perfetto. Ne derivava che gli ammalati erano divisi in sette progressive caste. Ogni piano era come un piccolo mondo a sé, con le sue particolari regole, con le sue speciali tradizioni. E siccome ogni settore era affidato a un medico diverso, si erano formate, sia pure minime, ma precise differenze nei metodi di cura, nonostante il direttore generale avesse impresso all’istituto un unico fondamentale indirizzo. Quando l’infermiera fu uscita, Giuseppe Corte, sembrandogli che la febbre fosse scomparsa, raggiunse la finestra e guardò fuori, non per osservare il panorama della città, che pure era nuovo per lui, ma nella speranza di scorgere, attraverso le finestre, altri ammalati dei piani inferiori. La struttura dell’edificio, a grandi rientranze, permetteva tale genere di osservazione. Soprattutto Giuseppe Corte concentrò la sua attenzione sulle finestre del primo piano che sembravano lontanissime, e che si scorgevano solo di sbieco. Ma non poté vedere nulla di interessante. La maggioranza erano ermeticamente sprangate dalle grigie persiane scorrevoli.

Il Corte si accorse che a una finestra di fianco alla sua stava affacciato un uomo. I due si guardarono a lungo con crescente simpatia, ma non sapevano come rompere il silenzio. Finalmente Giuseppe Corte si fece coraggio e disse: “Anche lei sta qui da poco?”
“0h no – fece l’altro – sono qui già da due mesi…” tacque qualche istante e poi, non sapendo come continuare la conversazione, aggiunse: “Guardavo giù mio fratello.” 

“Suo fratello?”
“Sì.” spiegò lo sconosciuto. “Siamo entrati insieme, un caso veramente strano, ma lui è andato peggiorando, pensi che adesso è già al quarto.”
“Al quarto che cosa?”
“Al quarto piano” spiegò l’individuo e pronunciò le due parole con una tale espressione di commiserazione e di orrore, che Giuseppe Corte restò quasi spaventato.
“Ma son così gravi al quarto piano?” domandò cautamente.
“Oh Dio” fece l’altro, scuotendo lentamente la testa “non sono ancora così disperati, ma comunque poco da stare allegri.”
“Ma allora”, chiese ancora il Corte, con una scherzosa disinvoltura come di chi accenna a cose tragiche che non lo riguardano, “allora, se al quarto sono già così gravi, al quinto chi mettono allora?” “0h, al primo sono proprio i moribondi. Laggiù i medici non hanno più niente da fare. C’è solo il prete che lavora. E naturalmente…”
“Ma ce n’è pochi al primo piano” interruppe Giuseppe Corte, come se gli premesse di avere una conferma “quasi tutte le stanze sono chiuse laggiù.”
“Ce n’è pochi, adesso, ma stamattina ce n’erano parecchi” rispose lo sconosciuto con un sottile sorriso. “Dove le persiane sono abbassate lì qualcuno è morto da poco. Non vede, del resto, che negli altri piani tutte le imposte sono aperte? Ma mi scusi, aggiunse ritraendosi lentamente “mi pare che cominci a far freddo. Io ritorno in letto.
Auguri, auguri…”

L’uomo scomparve dal davanzale e la finestra venne chiusa con energia; poi si vide accendersi dentro una luce. Giuseppe Corte se ne stette ancora immobile alla finestra fissando le persiane abbassate del primo piano. Le fissava con un’intensità morbosa, cercando di immaginare i funebri segreti di quel terribile primo piano dove gli ammalati venivano confinati a morire; e si sentiva sollevato di sapersene cosi lontano. Sulla città scendevano intanto le ombre della sera. Ad una ad una le mille finestre del sanatorio si illuminavano, da lontano si sarebbe potuto pensare a un palazzo in festa. Solo al primo piano, laggiù in fondo al precipizio, decine e decine di finestre rimanevano cieche e buie. Il risultato della visita medica generale rasserenò Giuseppe Corte. Incline di solito a prevedere il peggio, egli si era già in cuor suo preparato a un verdetto severo, e non sarebbe rimasto sorpreso se il medico gli avesse dichiarato di doverlo assegnare al piano inferiore. La febbre infatti non accennava a scomparire, nonostante le condizioni generali si mantenessero buone. Invece il sanitario gli rivolse parole cordiali e incoraggianti. Un principio di male c’era – gli disse – ma leggerissimo; in due o tre settimane probabilmente tutto sarebbe passato. “E allora resto al settimo piano?” aveva domandato ansiosamente Giuseppe Corte a questo punto. “Ma naturalmente!” gli aveva risposto il medico battendogli amichevolmente una mano su una spalla. E dove pensava di dover andare? Al quarto forse? chiese ridendo, come per alludere alla ipotesi più assurda. “Meglio così, meglio così!” fece il Corte. “Sa? Quando si è ammalati si immagina sempre il peggio”. Giuseppe Corte infatti rimase nella stanza che gli era stata assegnata originariamente. Imparò a conoscere alcuni dei suoi compagni di ospedale, nei rari pomeriggi in cui gli veniva concesso d’alzarsi. Seguì scrupolosamente la cura, mise tutto l’impegno a guarire rapidamente, ma ciononostante le sue condizioni pareva rimanessero stazionarie. Erano passati circa dieci giorni, quando a Giuseppe Corte si presentò il capo-infermiere del settimo piano. Aveva da chiedere un favore in via puramente amichevole: il giorno dopo doveva entrare all’ospedale una signora con due bambini; due camere erano, libere, proprio di fianco alla sua, ma mancava la terza; non avrebbe consentito il signor Corte a trasferirsi in un’altra camera, altrettanto confortevole? Giuseppe Corte non fece naturalmente nessuna difficoltà; una camera o un’altra per lui erano lo stesso; gli sarebbe anzi toccata forse una nuova e più graziosa infermiera. “La ringrazio di cuore”, fece allora il capo-infermiere con un leggero inchino; da una persona come lei le confesso non mi stupisce un così gentile atto di cavalleria. Fra un’ora, se lei non ha nulla in contrario, procederemo al trasloco. Guardi che bisogna scendere al piano di sotto” aggiunse con voce attenuata come se si trattasse di un particolare assolutamente trascurabile. “Purtroppo in questo piano non ci sono altre camere libere. Ma è una sistemazione assolutamente provvisoria, ” si affrettò a specificare vedendo che Corte, rialzatosi di colpo a sedere, stava per aprir bocca in atto di protesta, “una sistemazione assolutamente provvisoria. Appena resterà libera una stanza, e credo che sarà fra due o tre giorni, lei potrà tornare di sopra.”
“Le confesso”, disse Giuseppe Corte sorridendo, per dimostrare di non essere un bambino “le confesso che un trasloco di questo genere non mi piace affatto.”
“Ma non ha alcun motivo medico questo trasloco; capisco benissimo quello che lei intende dire, si tratta unicamente di una cortesia a questa signora che preferisce non rimaner separata dai suoi bambini… Per carità”, aggiunse ridendo apertamente “non le venga neppure in mente che ci siano altre ragioni”. “Sarà”, disse Giuseppe Corte “ma mi sembra di cattivo augurio”. 
Corte così passò al sesto piano, e sebbene fosse convinto che questo trasloco non corrispondesse a un peggioramento del male, si sentiva a disagio al pensiero che tra lui e il mondo normale, della gente sana, già si frapponesse un netto ostacolo. Al settimo piano, porto d’arrivo, si era in un certo modo ancora in contatto con il consorzio degli uomini; esso si poteva anzi considerare quasi un prolungamento del mondo abituale. Ma al sesto già si entrava nel corpo autentico dell’ospedale; già la mentalità dei medici, delle infermiere e degli stessi ammalati era leggermente diversa. Già si ammetteva che a quel piano venivano accolti dei veri e propri ammalati, sia pure in forma non grave. Dai primi discorsi fatti con i vicini di stanza, con il personale e con i sanitari, Giuseppe Corte si accorse come in quel reparto, il settimo piano venisse considerato come uno scherzo, riservato ad ammalati dilettanti, affetti più che altro da fisime; solo dal sesto, per così dire, si cominciava davvero. Comunque Giuseppe Corte capì che per tornare di sopra, al posto che gli competeva per le caratteristiche del suo male, avrebbe certamente incontrato qualche difficoltà; per tornare al settimo piano, egli doveva mettere in moto un complesso organismo, sia pure per un minuto sforzo; non c’era dubbio che se egli non avesse fiatato, nessuno avrebbe pensato a trasferirlo di nuovo al piano superiore dei “quasi-sani”.

Giuseppe Corte si propose perciò di non transigere sui suoi diritti e di non cedere alle lusinghe dell’abitudine. Ai compagni di reparto teneva molto a specificare che trovarsi con loro, soltanto per pochi giorni, ch’era stato lui a voler scendere d’un piano per fare un piacere a una signora, e che appena fosse rimasta libera una stanza sarebbe tornato di sopra. Gli altri lo ascoltavano senza interesse e annuivano con scarsa convinzione. II convincimento di Giuseppe Corte trovò piena conferma nel giudizio del nuovo medico. Anche questi ammetteva che Giuseppe Corte poteva benissimo essere assegnato al settimo piano; la sua forma era as-so-lu-ta-men-te leg-ge-ra e scandiva tale definizione per darle importanza – ma in fondo riteneva che al sesto piano Giuseppe Corte forse potesse essere meglio curato. “Non cominciamo con queste storie”, interveniva a questo punto il malato con decisione. “Lei mi ha detto che il settimo piano è il mio posto e voglio ritornarci”. “Nessuno ha detto il contrario”. ribatteva il dottore
“il mio era un puro e semplice consiglio non da dot-to-re, ma da au-ten-ti-co a-mi-co! La sua forma, le ripeto, è leggerissima, non sarebbe esagerato dire che lei non è nemmeno ammalato, ma secondo me si distingue da forme analoghe per una certa maggiore estensione. Mi spiego: l’intensità del male è minima, ma considerevole l’ampiezza; il processo distruttivo delle cellule” (era la prima volta che Giuseppe Corte sentiva là dentro quella sinistra espressione “il processo distruttivo delle cellule”) è assolutamente agli inizi, forse non è neppure cominciato, ma tende, dico, solo tende, a colpire contemporaneamente vaste porzioni dell’organismo. Solo per questo, secondo me, lei può essere curato più efficacemente qui, al sesto, dove i metodi terapeutici sono più tipici ed intensi. Un giorno gli fu riferito che il direttore generale della casa di cura, dopo essersi lungamente consultato con i suoi collaboratori, aveva deciso un mutamento nella suddivisione dei malati. Il grado di ciascuno di essi – per così dire – veniva ribassato di un mezzo punto. Ammettendosi che in ogni piano gli ammalati fossero divisi, a seconda della loro gravità, in due categorie, (questa suddivisione veniva effettivamente fatta dai rispettivi medici, ma ad uso esclusivamente interno) l’inferiore di queste due metà veniva d’ufficio traslocata a un piano più basso. Ad esempio, la metà degli ammalati del sesto piano, quelli con forme leggermente più avanzate, dovevano passare al quinto; e i meno leggeri del settimo piano passare al sesto. La notizia fece piacere a Giuseppe Corte, perché in un così complesso quadro di traslochi, il suo ritorno al settimo piano sarebbe riuscito assai più facile. Quando accennò a questa sua speranza con l’infermiera egli ebbe però un’amara sorpresa. Seppe cioè che egli sarebbe stato traslocato, ma non al settimo, bensì al piano di sotto. Per motivi che l’infermiera non sapeva spiegargli, egli era stato compreso nella metà più “grave” degli ospiti del sesto piano e doveva perciò scendere al quinto. 
Passata la prima sorpresa, Giuseppe Corte andò in furore; gridò che lo truffavano, che non voleva sentir parlare di altri traslochi in basso, che se ne sarebbe tornato a casa, che i diritti erano diritti e che l’amministrazione dell’ospedale non poteva trascurare così sfacciatamente le diagnosi dei sanitari. Mentre egli ancora gridava arrivò il medico per tranquillizzarlo. Consigliò al Corte di calmarsi se non avesse voluto veder salire la febbre, gli spiegò che era successo un malinteso, almeno parziale. Ammise ancora una volta che Giuseppe Corte sarebbe stato al suo giusto posto se lo avessero messo al settimo piano, ma aggiunse di avere sul suo caso un concetto leggermente diverso, se pure personalissimo. In fondo in fondo la sua malattia poteva, in un certo senso s’intende, essere anche considerata di sesto grado, data l’ampiezza delle manifestazioni morbose. Lui stesso però non riusciva a spiegarsi come il Corte fosse stato catalogato nella metà inferiore del sesto piano. Probabilmente il segretario della direzione, che proprio quella mattina gli aveva telefonato chiedendo l’esatta posizione clinica di Giuseppe Corte, si era sbagliato nel trascrivere. o meglio la direzione aveva di proposito leggermente “peggiorato” il suo giudizio, essendo egli ritenuto un medico esperto ma troppo indulgente. Il dottore infine consigliava il Corte a non inquietarsi, a subire senza proteste il trasferimento; quello che contava era la malattia, non il posto in cui veniva collocato un malato. Per quanto si riferiva alla cura – aggiunse ancora il medico – Giuseppe Corte non avrebbe poi avuto da rammaricarsi; il medico del piano di sotto aveva certo più esperienza; era quasi dogmatico che l’abilità dei dottori andasse crescendo, almeno a giudizio della direzione, man mano che si scendeva. La camera era altrettanto comoda ed elegante. La vista ugualmente spaziosa: solo dal terzo piano in giù la visuale era tagliata dagli alberi di cinta. Giuseppe Corte, in preda alla febbre serale, ascoltava ascoltava le meticolose giustificazioni con una progressiva stanchezza. Alla fine si accorse che gli mancavano la forza e soprattutto la voglia di reagire ulteriormente all’ingiusto trasloco. E senza altre proteste si lasciò portare al piano di sotto. L’unica, benché povera, consolazione di Giuseppe Corte, una volta che si trovò al quinto piano, fu di sapere che per giudizio concorde di medici, di infermieri e ammalati, egli era in quel reparto il menu grave di tutti. Nell’ambito di quel piano insomma egli poteva considerarsi di gran lunga il più fortunato. Ma d’altra parte lo tormentava il pensiero che oramai ben due barriere si frapponevano fra lui e il mondo della gente normale. Procedendo la primavera, l’aria intanto si faceva più tepida, ma Giuseppe Corte non amava più come nei primi giorni affacciarsi alla finestra; benché un simile timore fosse una pura sciocchezza, egli si sentiva rimescolare tutto da uno strano brivido alla vista delle finestre del primo piano, sempre nella maggioranza chiuse, che si erano fatte assai più vicine. Il suo male sembrava stazionario. Dopo tre giorni di permanenza al quinto piano, si manifestò anzi sulla gamba destra una specie di eczema che non accennò a riassorbirsi nei giorni successivi. Era un’affezione – gli disse il medico – assolutamente indipendente dal male principale; un disturbo che poteva capitare alla persona più sana del mondo. Ci sarebbe voluta, per eliminarlo in pochi giorni, una intensa cura di raggi digamma.

“E non si possono avere qui i raggi digamma?”, chiese Giuseppe Corte.
“Certamente” rispose compiaciuto il medico, “il nostro ospedale dispone di tutto. C’è un solo inconveniente….
“Che cosa?” fece il Corte con un vago presentimento.
“Inconveniente per modo di dire”. si corresse il dottore, “volevo dire che l’installazione per i raggi si trova soltanto al quarto piano e io le sconsiglierei di fare tre volte al giorno un simile tragitto”.
“E allora niente?”
“Allora sarebbe meglio che fino a che l’espulsione non sia passata lei avesse la compiacenza di scendere al quarto.”
“Basta!” urlò allora esasperato Giuseppe Corte. Ne ho già abbastanza di scendere! Dovessi crepare, al quarto non ci vado!”
“Come lei crede” fece conciliante il medico per non irritarlo “come medico curante, badi che le proibisco di andar da basso tre volte al giorno”. 

Il brutto fu che l’eczema, invece di attenuarsi, andò lentamente ampliandosi. Giuseppe Corte non riusciva a trovare requie e continuava a rivoltarsi nel letto. Durò così, rabbioso, per tre giorni, fino a che dovette cedere. Spontaneamente pregò il medico di fargli praticare la cura dei raggi e di essere trasferito al piano inferiore. Quaggiù il Corte notò, con inconfessato piacere, di rappresentare un’eccezione. Gli altri ammalati del reparto erano decisamente in condizioni molto serie e non potevano lasciare neppure per un minuto il letto. Egli invece poteva prendersi il lusso di raggiungere a piedi, dalla sua stanza, la sala dei raggi, fra i complimenti e la meraviglia delle stesse infermiere. Al nuovo medico, egli precisò con insistenza la sua posizione specialissima. Un ammalato che in fondo aveva diritto al settimo piano veniva a trovarsi al quarto. Appena l’espulsione fosse passata, egli intendeva ritornare di sopra. Non avrebbe assolutamente ammesso alcuna nuova scusa. Lui, che sarebbe potuto trovarsi legittimamente ancora al settimo. 

“Al settimo, al settimo!.” esclamò sorridendo il medico, che finiva proprio allora di visitarlo. Sempre esagerati voi ammalati. Sono il primo io a dire che lei può essere contento del suo stato; a quanto vede, dalla tabella clinica, grandi peggioramenti non ci sono stati. Ma da questo a parlare di settime, piano – mi scusi la brutale sincerità – c’è una certa differenza! Lei è uno dei casi meno preoccupanti, ne convengo io, ma è pur sempre un ammalato!” 

“E allora, allora” fece Giuseppe Corte accendendosi tutto nel volto, “lei a che piano mi metterebbe?”
“0h, Dio, non è facile dire, non le ho fatto che una breve visita, per poter pronunciarmi dovrei seguirla per almeno una settimana.”
“Va bene” insistette Corte “ma pressapoco lei saprà”
Il medico per tranquillizzarlo, fece finta di concentrarsi un momento in meditazione e poi, annuendo con il capo a se stesso, disse lentamente: “Oh Dio, proprio per accontentarla, ecco, ma potremo in fondo metterla al sesto!”
“Sì sì” aggiunse come per persuadere se stesso. “Il sesto potrebbe andar bene.” 

II dottore credeva così di far lieto il malato. Invece sul volto di Giuseppe Corte si diffuse un’espressione di sgomento: si accorgeva, il malato, che i medici degli ultimi piani l’avevano ingannato; ecco, qui questo nuovo dottore, evidentemente più abile e più onesto, che in cuor suo – era evidente – lo assegnava, non al settimo, ma al quinto piano, e forse al quinto inferiore! La delusione inaspettata prostrò il Corte. Quella sera la febbre salì sensibilmente. La permanenza al quarto piano segnò il periodo più tranquillo passato da Giuseppe Corte dopo l’entrata all’ospedale. Il medico era persona simpaticissima, premurosa e cordiale; si tratteneva spesso anche per delle ore intere a chiacchierare degli argomenti più svariati. Giuseppe Corte discorreva pure molto volentieri, cercando argomenti che riguardassero la sua solita vita d’avvocato e d’uomo di mondo. Egli cercava di persuadersi di appartenere ancora al consorzio degli uomini sani, di essere ancora legato al mondo degli affari, di interessarsi veramente dei fatti pubblici. Cercava, senza riuscirvi. Invariabilmente il discorso finiva sempre per cadere sulla malattia. Il desiderio di un miglioramento qualsiasi era divenuto in Giuseppe Corte un’ossessione. Purtroppo i raggi digamma, se erano riusciti ad arrestare il diffondersi dell’espulsione cutanea, non erano bastati ad eliminarla. Ogni giorno Giuseppe Corte ne parlava lungamente col medico e si sforzava in questi colloqui di mostrarsi forte, anzi ironico, senza mai riuscirvi.

“Mi dica, dottore. disse un giorno, come va il processo distruttivo delle mie cellule?”
“0h, ma che brutte parole!” lo rimproverò scherzosamente il dottore. “Dove mai le ha imparate? Non sta bene, non sta bene, soprattutto per un malato! Mai più voglio sentire da lei discorsi simili”
“Va bene” obiettò il Corte “ma così lei non mi ha risposto”
“0h, le rispondo subito” fece il dottore cortese. “Il processo distruttivo delle cellule, per ripetere la sua orribile espressione, è, nel suo caso minimo, assolutamente minimo. Ma sarei tentato di definirlo ostinato” “Ostinato, cronico vuol dire?”
“Non mi faccia dire quello che non ho detto. lo voglio dire soltanto ostinato. Del resto sono così la maggioranza dei casi. Affezioni anche lievissime spesso hanno bisogno di cure energiche e lunghe”
“Ma mi dica, dottore, quando potrò sperare in un miglioramento?”
“Quando? Le predizioni in questi casi sono piuttosto difficili… Ma senta” aggiunse dopo una pausa meditativa “vedo che lei ha una vera e propria smania di guarire… se non temessi di farla arrabbiare, sa che cosa le consiglierei?”
“Ma dica, dica pure, dottore….”
“Ebbene, le pongo la questione in termini molto chiari. Se io, colpito da questo male in forma anche tenuissima, capitassi in questo sanatorio, che è forse il migliore che esista, mi farei assegnare spontaneamente, e fin dal primo giorno, fin dal prima giorno, capisce? a uno dei piani più bassi. Mi farei mettere addirittura al….”
“Al primo?” suggerì con uno sforzato sorriso il Corte.
“Oh no! al primo no!” rispose ironico il medico, “questo poi no! Ma al terzo o anche al secondo di certo. Nei piani inferiori la cura è fatta molto meglio, le garantisco, gli impianti sono più completi e potenti, il personale è più abile. Lei sa poi chi è l’anima di questo ospedale?”
“Non è il professor Dati?”
“Già il professor Dati. E’ lui I’inventore della cura che qui si pratica, lui il progettista dell’intero impianto. Ebbene, lui, il maestro, sta, per così dire, fra il primo e il secondo piano. Di là irraggia la sua forza direttiva. Ma, glielo garantisco io, il suo influsso non arriva oltre al terzo piano; più in là si direbbe che gli stessi suoi ordini si sminuzzino, perdano di consistenza, deviino; il cuore dell’ospedale è in basso e in basso bisogna stare per avere le cure migliori”
“Ma insomma” fece Giuseppe Corte con voce tremante, “allora lei mi consiglia …”
“Aggiunga una cosa” continuò imperterrito il dottore “aggiunga che nel suo caso particolare ci sarebbe da badare anche all’espulsione. Una cosa di nessuna importanza ne convengo, ma piuttosto noiosa, che a lungo andare potrebbe deprimere il suo “morale”; e lei sa quanto è importante per la guarigione la serenità di spirito. Le applicazioni di raggi che io le ho fatte sono riuscite solo a metà fruttuose. Il perché può darsi che sia un puro caso, ma può darsi anche che i raggi non siano abbastanza intensi. Ebbene, al terzo piano le macchine dei raggi sono molto più potenti. Le probabilità di guarire il suo eczema sarebbero molto maggiori. Poi vede? una volta avviata la guarigione, il passo più difficile è fatto. Quando si comincia a risalire, è poi difficile tornare ancora indietro. Quando lei si sentirà davvero meglio, allora nulla impedirà che lei risalga qui da noi o anche più in su, secondo i suoi “meriti” anche al quinto, al sesto, persino al settimo oso dire”
“Ma lei crede che questo potrà accelerare la cura?”
“Ma non ci può essere dubbio. Le ho già detto che cosa farei io nei suoi panni”
Discorsi di questo genere il dottore ne faceva ogni giorno a Giuseppe Corte. Venne infine il momento in cui il malato, stanco di patire per l’eczema, nonostante l’istintiva riluttanza a scendere, decise di seguire il consiglio del medico e si trasferì al piano di sotto. 
Notò subito al terzo piano che nel reparto ‘regnava una speciale gaiezza’, sia nel medico, sia nelle infermiere, sebbene laggiù fossero in cura ammalati molto preoccupanti. Si accorse anzi che di giorno in giorno questa gaiezza andava aumentando: incuriosito, dopo che ebbe preso un po’ di confidenza con l’infermiera, domandò come mai fossero tutti così allegri. 

“Ah, non lo sa?” rispose l’infermiera “fra tre giorni andiamo in vacanza”
“Come andiamo in vacanza?”
“Ma sì. Per quindici giorni, il terzo piano si chiude e il personale se ne va a spasso. Il riposo tocca a turno ai vari piani”
“E i malati? come fate?”
“Siccome ce n’è relativamente pochi, di due piani se ne fa uno solo..”
“Come? riunite gli ammalati del terzo e del quarto?”
“No, no” corresse l’infermiera “del terzo e del secondo. Quelli che sono qui dovranno discendere da basso” “Discendere al secondo?” fece Giuseppe Corte, pallido come un morto. “lo dovrei cosi scendere al secondo?” “Ma certo. E che cosa c’è di strano? Quando torniamo, fra quindici giorni, lei ritornerà in questa stanza. Non mi pare che ci sia da spaventarsi.”

Invece Giuseppe Corte – un misterioso istinto lo avvertiva – fu invaso da una crudele paura. Ma, visto che non poteva trattenere il personale dall’andare in vacanza, convinto che la nuova cura coi raggi più intensi gli facesse bene – l’eczema si era quasi completamente riassorbita – egli non osò muovere formale opposizione al nuovo trasferimento. Pretese però, incurante dei motteggi delle infermiere, che sulla porta della sua nuova stanza fosse attaccato un cartello con su scritto “Giuseppe Corte, del terzo piano, di passaggio”. Una cosa simile non trovava precedenti nella storia del sanatorio, ma i medici non si opposero, pensando che in un temperamento nervoso quale il Corte anche una piccola contrarietà potesse provocare una grave scossa. Si trattava in fondo di aspettare quindici giorni non uno di più, non uno di meno. Giuseppe Corte si mise a contarli con avidità ostinata, restando per delle ore intere immobile sul letto, con gli occhi fissi sui mobili, che al secondo piano non erano più così moderni e gai come nei reparti superiori, ma assumevano dimensioni più grandi e linee più solenni e severe. E di tanto in tanto aguzzava le orecchie poiché gli pareva di udire dal piano di sotto, il piano dei moribondi, il reparto dei “condannati”, vaghi rantoli di agonie. Tutto questo naturalmente contribuiva a scoraggiarlo. E la minore serenità sembrava aiutare la malattia, la febbre tendeva a salire, la debolezza generale si faceva più fonda. Dalla finestra – si era oramai in piena estate e i vetri si tenevano quasi sempre aperti – non si scorgevano più i tetti e neppure le case della città, ma soltanto la muraglia verde degli alberi che circondavano l’ospedale. Dopo sette giorni, un pomeriggio verso le due, entrarono improvvisamente il capo-infermiere e tre infermieri, che spingevano un lettuccio a rotelle.

“Siamo pronti per il trasloco?” domandò in tono di bonaria celia il capo-infermiere.
“Che trasloco?” domandò con voce stentata Giuseppe Corte “che altri scherzi sono questi? Non tornano fra sette giorni quelli del terzo piano?”
“Che terzo piano?” disse il capo-infermiere come se non capisse “io ho avuto l’ordine di condurla al primo, guardi qua.” e fece vedere un modulo stampato per il passaggio al piano inferiore firmato nientemeno che dallo stesso professore Dati.

Il terrore, la rabbia infernale di Giuseppe Corte esplosero allora in lunghe irose grida che si ripercossero per tutto il reparto. “Adagio, adagio per carità”, supplicarono gli infermieri “ci sono dei malati che non stanno bene”. Ma ci voleva altro per calmarlo. Finalmente accorse il medico che dirigeva il reparto, una persona gentilissima e molto educata. Si informò, guardò il modulo, si fece spiegare dal Corte. Poi si rivolse incollerito al capo-infermiere, dichiarando che c’era stato uno sbaglio, lui non aveva dato alcuna disposizione del genere, da qualche tempo c’era un’insopportabile confusione, lui veniva tenuto all’oscuro d tutto… Infine, detto il fatto suo al dipendente, si rivolse, in tono cortese, al malato, scusandosi profondamente. “Purtroppo però” aggiunse il medico “purtroppo il professor Dati proprio un’ora fa è partito, per una breve licenza, non tornerà che fra due giorni. Sono assolutamente desolato, ma i suoi ordini non possono essere trasgrediti. Sarà lui il primo a rammaricarsene, glielo garantisco… un errore simile! Non capisco come possa essere accaduto!” Ormai un pietoso tremito aveva preso a scuotere Giuseppe Corte. La capacità di dominarsi gli era completamente sfuggita. Il terrore l’aveva sopraffatto come un bambino. I suoi singhiozzi risuonavano lenti e disperati per la stanza. Giunse così, per quell’esecrabile errore, all’ultima stazione. Nel reparto dei moribondi lui, che in fondo, per la gravità del male, a giudizio anche dei medici più severi, aveva il diritto di essere assegnato al sesto, se non al settimo piano! La situazione era talmente grottesca che in certi istanti Giuseppe Corte sentiva quasi la voglia di sghignazzare senza ritegno. Disteso nel letto, mentre il caldo pomeriggio dell’estate passava lentamente sulla grande città, egli guardava il verde degli alberi attraverso la finestra con l’impressione di esser giunto in un mondo irreale, fatto di assurde pareti a piastrelle sterilizzate, di gelidi androni mortuari, di bianche figure umane vuote di anima. Gli venne persino in mente che anche gli alberi che gli sembrava di scorgere attraverso la finestra non fossero veri; finì anzi per convincersene, notando che le foglie non si muovevano affatto. Questa idea lo agitò talmente, che il Corte chiamò col campanello l’infermiera e si fece porgere gli occhiali da miope, che in letto non adoperava; solo allora riuscì a tranquillizzarsi un poco: con l’aiuto delle lenti poté assicurarsi che erano proprio alberi veri e che le foglie, sia pur leggermente, ogni tanto erano mosse dal vento. Uscita che fu l’infermiera, passò un quarto d’ora di completo silenzio. Sei piani, sei terribili muraglie, sia pure per un errore formale, sovrastavano adesso Giuseppe Corte con implacabile peso. In quanti anni, sì, bisognava pensare proprio ad anni, in quanti anni egli sarebbe riuscito a risalire fino all’orlo di quel precipizio? Ma come mai la stanza si faceva improvvisamente così buia? Era pur sempre pomeriggio pieno. Con uno sforzo supremo Giuseppe Corte, che si sentiva paralizzato da uno strano torpore, guardò l’orologio, sul comodino, di fianco al letto. Erano le tre e mezzo. Voltò il capo dall’altra parte, e vide che le persiane scorrevoli, obbedienti a un misterioso comando, scendevano lentamente, chiudendo il passo alla luce.

 

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Il bambino tiranno

07 lunedì Ott 2019

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, LETTERATURA E POESIA, Racconti

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Dino Buzzati, Il bambino tiranno

Figli-tiranni

“Il bambino tiranno” è un racconto del 1954 di Dino Buzzati, nel quale lo scrittore descrive le tragiche conseguenze di un’educazione troppo accondiscendente e dell’incapacità di esercitare l’autorità da parte degli adulti che rinunciano al proprio ruolo educativo, perseguono  il consenso del figlio e finiscono per rovinarlo.

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Il colombre

28 martedì Mag 2019

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, LETTERATURA E POESIA, Racconti

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Dino Buzzati, Il colombre

La produzione di Dino Buzzati spazia dal teatro al libretto d’opera, dalla poesia al fumetto, dal romanzo al racconto. Il colombre è uno dei racconti più celebri e significativi di Buzzati, pubblicato nel 1966, ha per protagonista Stefano Roi, figlio di un capitano di mare e desideroso di intraprendere la stessa carriera del padre. Un giorno, andando per mare, il ragazzo scorge il colombre, un animale astuto, misterioso e temuto dai marinai che può essere visto solo dalla vittima che la creatura ha scelto e che sarà perseguitata tutta la vita.

 

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by Darknesss

Quando Stefano Roi compì i dodici anni, chiese in regalo a suo padre, capitano di mare e padrone di un bel veliero, che lo portasse con sé a bordo. “Quando sarò grande” disse “voglio andar per mare come te. E comanderò delle navi ancora più belle e grandi della tua.” “Che Dio ti benedica, figliolo” rispose il padre. E siccome proprio quel giorno il suo bastimento doveva partire, portò il ragazzo con sé. Era una giornata splendida di sole; e il mare tranquillo. Stefano, che non era mai stato sulla nave, girava felice in coperta, ammirando le complicate manovre delle vele. E chiedeva di questo e di quello ai marinai che, sorridendo, gli davano tutte le spiegazioni. Come fu giunto a poppa, il ragazzo si fermò, incuriosito, a osservare una cosa che spuntava a intermittenza in superficie, a distanza di due-trecento metri, in corrispondenza della scia della nave. Benché il bastimento già volasse, portato da un magnifico vento al giardinetto, quella cosa manteneva sempre la distanza. E, sebbene egli non ne comprendesse la natura, aveva qualcosa di indefinibile, che lo attraeva intensamente. Il padre, non vedendo Stefano più in giro, dopo averlo chiamato a gran voce invano, scese dalla plancia e andò a cercarlo. “Stefano, che cosa fai lì impalato?” gli chiese scorgendolo infine a poppa, in piedi, che fissava le onde. “Papà, vieni qui a vedere.” Il padre venne e guardò anche lui, nella direzione indicata dal ragazzo, ma non riuscì a vedere niente. “C’è una cosa scura che spunta ogni tanto dalla scia” disse “e che ci viene dietro.” “Nonostante i miei quarant’anni” disse il padre “credo di avere ancora una vista buona. Ma non vedo assolutamente niente.” Poiché il figlio insisteva, andò a prendere il cannocchiale e scrutò la superficie del mare, in corrispondenza della scia. Stefano lo vide impallidire. “Cos’è? Perché fai quella faccia?” “Oh, non ti avessi ascoltato” esclamò il capitano. “Io adesso temo per te. Quella cosa che tu vedi spuntare dalle acque e che ci segue, non è una cosa. Quello è un colombre. È il pesce che i marinai sopra tutti temono, in ogni mare del mondo. È uno squalo tremendo e misterioso, più astuto dell’uomo. Per motivi che forse nessuno saprà mai, sceglie la sua vittima e, quando l’ha scelta la insegue per anni e anni, per una intera vita, finché è riuscito a divorarla. E lo strano è questo: che nessuno riesce a scorgerlo se non la vittima stessa e le persone del suo stesso sangue.” “Non è una favola?” “No. Io non l’avevo mai visto. Ma dalle descrizioni che ho sentito fare tante volte, l’ho subito riconosciuto. Quel muso da bisonte, quella bocca che continuamente si apre e chiude, quei denti terribili. Stefano, non c’è dubbio, purtroppo, il colombre ha scelto te e fin che tu andrai per mare non ti darà pace. Ascoltami: ora noi torniamo subito a terra, tu sbarcherai e non ti staccherai mai più dalla riva, per nessuna ragione al mondo. Me lo devi promettere. Il mestiere del mare non è per te, figliolo. Devi rassegnarti. Del resto, anche a terra potrai fare fortuna.” Ciò detto, fece immediatamente invertire la rotta, rientrò in porto e, col pretesto di un improvviso malessere, sbarcò il figliolo. Quindi ripartì senza di lui. Profondamente turbato, il ragazzo restò sulla riva finché l’ultimo picco dell’alberatura sprofondò dietro l’orizzonte. Di là dal molo che chiudeva il porto, il mare restò completamente deserto. Ma, aguzzando gli sguardi, Stefano riuscì a scorgere un puntino nero che affiorava a intermittenza dalle acque: il “suo” colombre, che incrociava lentamente su e giù, ostinato ad aspettarlo. Da allora il ragazzo con ogni espediente fu distolto dal desiderio del mare. Il padre lo mandò a studiare in una città dell’interno, lontana centinaia di chilometri. E per qualche tempo, distratto dal nuovo ambiente, Stefano non pensò più al mostro marino. Tuttavia, per le vacanze estive, tornò a casa e per prima cosa, appena ebbe un minuto libero, si affrettò a raggiungere l’estremità del molo, per una specie di controllo, benché in fondo lo ritenesse superfluo. Dopo tanto tempo, il colombre, ammesso anche che tutta la storia narratagli dal padre fosse vera, aveva certo rinunciato all’assedio. Ma Stefano rimase là, attonito, col cuore che gli batteva. A distanza di due-trecento metri dal molo, nell’aperto mare, il sinistro pesce andava su e giù, lentamente, ogni tanto sollevando il muso dall’acqua e volgendolo a terra, quasi con ansia guardasse se Stefano Roi finalmente veniva. Così, l’idea di quella creatura nemica che lo aspettava giorno e notte divenne per Stefano una segreta ossessione. E anche nella lontana città gli capitava di svegliarsi in piena notte con inquietudine. Egli era al sicuro, sì, centinaia di chilometri lo separavano dal colombre. Eppure egli sapeva che, di là dalle montagne, di là dai boschi, di là dalle pianure, lo squalo era ad aspettarlo. E, si fosse egli trasferito pure nel più remoto continente, ancora il colombre si sarebbe appostato nello specchio di mare più vicino, con l’inesorabile ostinazione che hanno gli strumenti del fato. Stefano, ch’era un ragazzo serio e volonteroso, continuò con profitto gli studi e, appena fu uomo, trovò un impiego dignitoso e remunerativo in un emporio di quella città. Intanto il padre venne a morire per malattia, il suo magnifico veliero fu dalla vedova venduto e il figlio si trovò ad essere erede di una discreta fortuna. Il lavoro, le amicizie, gli svaghi, i primi amori: Stefano si era ormai fatto la sua vita, ciononostante il pensiero del colombre lo assillava come un funesto e insieme affascinante miraggio; e, passando i giorni, anziché svanire, sembrava farsi più insistente. Grandi sono le soddisfazioni di una vita laboriosa, agiata e tranquilla, ma ancora più grande è l’attrazione dell’abisso. Aveva appena ventidue anni Stefano, quando, salutati gli amici della città e licenziatosi dall’impiego, tornò alla città natale e comunicò alla mamma la ferma intenzione di seguire il mestiere paterno. La donna, a cui Stefano non aveva mai fatto parola del misterioso squalo, accolse con gioia la sua decisione. L’avere il figlio abbandonato il mare per la città le era sempre sembrato, in cuor suo, un tradimento alle tradizioni di famiglia. E Stefano cominciò a navigare, dando prova di qualità marinare, di resistenza alle fatiche, di animo intrepido. Navigava, navigava, e sulla scia del suo bastimento, di giorno e di notte, con la bonaccia e con la tempesta, arrancava il colombre. Egli sapeva che quella era la sua maledizione e la sua condanna, ma proprio per questo, forse, non trovava la forza di staccarsene. E nessuno a bordo scorgeva il mostro, tranne lui. “Non vedete niente da quella parte?” Chiedeva di quando in quando ai compagni, indicando la scia. “No, noi non vediamo proprio niente, perché?” “Non so. Mi pareva…” “Non avrai mica visto per caso un colombre” facevano quelli, ridendo e toccando ferro. “Perché ridete? Perché toccate ferro?” “Perché il colombre è una bestia che non perdona. E se si mettesse a seguire questa nave, vorrebbe dire che uno di noi è perduto.” Ma Stefano non mollava. La ininterrotta minaccia che lo incalzava pareva anzi moltiplicare la sua volontà, la sua passione per il mare, il suo ardimento nelle ore di lotta e di pericolo. Con la piccola sostanza lasciatagli dal padre, come egli si sentì padrone del mestiere, acquistò con un socio un piccolo piroscafo da carico, quindi ne divenne il solo proprietario e, grazie a una serie di fortunate spedizioni, poté in seguito acquistare un mercantile sul serio, avviandosi a traguardi sempre più ambiziosi. Ma i successi, e i milioni, non servivano a togliergli dall’animo quel continuo assillo; né mai, d’altra parte, egli fu tentato di vendere la nave e di ritirarsi a terra per intraprendere diverse imprese. Navigare, navigare era il suo unico pensiero. Non appena, dopo lunghi tragitti, metteva piede a terra in qualche porto, subito lo pungeva l’impazienza di ripartire. Sapeva che fuori c’era il colombre ad aspettarlo, e che il colombre era sinonimo di rovina. Niente. Un indomabile impulso lo traeva senza requie, da un oceano all’altro. Finché, all’improvviso, Stefano un giorno si accorse di essere diventato vecchio, vecchissimo; e nessuno intorno a lui sapeva spiegarsi perché, ricco com’era, non lasciasse finalmente la dannata vita del mare. Vecchio, e amaramente infelice, perché l’intera esistenza sua era stata spesa in quella specie di pazzesca fuga attraverso i mari, per sfuggire al nemico. Ma più grande che le gioie di una vita agiata e tranquilla era stata per lui sempre la tentazione dell’abisso. E una sera, mentre la sua magnifica nave era ancorata al largo del porto dove era nato, si sentì prossimo a morire. Allora chiamò il secondo ufficiale, di cui aveva grande fiducia, e gli ingiunse di non opporsi a ciò che egli stava per fare. L’altro, sull’onore, promise. Avuta questa assicurazione, Stefano, al secondo ufficiale che lo ascoltava sgomento, rivelò la storia del colombre, che aveva continuato a inseguirlo per quasi cinquant’anni, inutilmente. “Mi ha scortato da un capo all’altro del mondo” disse “con una fedeltà che neppure il più nobile amico avrebbe potuto dimostrare. Adesso io sto per morire. Anche lui, ormai, sarà terribilmente vecchio e stanco. Non posso tradirlo.” Ciò detto, prese commiato, fece calare in mare un barchino e vi salì, dopo essersi fatto dare un arpione. “Ora gli vado incontro” annunciò. “È giusto che non lo deluda. Ma lotterò, con le mie ultime forze.” A stanchi colpi di remi, si allontanò da bordo. Ufficiali e marinai lo videro scomparire laggiù, sul placido mare, avvolto nelle ombre della notte. C’era in cielo una falce di luna. Non dovette faticare molto. All’improvviso il muso orribile del colombre emerse di fianco alla barca. “Eccomi a te, finalmente” disse Stefano. “Adesso, a noi due!” E, raccogliendo le superstiti energie, alzò l’arpione per colpire. “Uh” mugolò con voce supplichevole il colombre “che lunga strada per trovarti. Anch’io sono distrutto dalla fatica. Quanto mi hai fatto nuotare. E tu fuggivi, fuggivi. E non hai mai capito niente.” “Perché?” fece Stefano, punto sul vivo. “Perché non ti ho inseguito attraverso il mondo per divorarti, come pensavi. Dal re del mare avevo avuto soltanto l’incarico di consegnarti questo.” E lo squalo trasse fuori la lingua, porgendo al vecchio capitano una piccola sfera fosforescente. Stefano la prese fra le dita e guardò. Era una perla di grandezza spropositata. E lui riconobbe la famosa Perla del Mare che dà, a chi la possiede, fortuna, potenza, amore e pace dell’animo. Ma era ormai troppo tardi. “Ahimè!” disse scuotendo tristemente il capo. “Come è tutto sbagliato. Io sono riuscito a dannare la mia esistenza: e ho rovinato la tua.” “Addio, pover’uomo” rispose il colombre. E sprofondò nelle acque nere per sempre. Due mesi dopo, spinto dalla risacca, un barchino approdò a una dirupata scogliera. Fu avvistato da alcuni pescatori che, incuriositi, si avvicinarono. Sul barchino, ancora seduto, stava un bianco scheletro: e fra le ossicine delle dita stringeva un piccolo sasso rotondo. Il colombre è un pesce di grandi dimensioni, spaventoso a vedersi, estremamente raro. A seconda dei mari, e delle genti che ne abitano le rive, viene anche chiamato kolomber, kahloubrha, kalonga, kalu-balu, chalung-gra. I naturalisti stranamente lo ignorano. Qualcuno perfino sostiene che non esiste.

 Dino Buzzati, Il colombre, Mondadori, Milano, 1966

Secondo la sua stessa testimonianza, il nome del mostro nacque nella fantasia di Dino Buzzati, dalla  frase How many kilometers? (“Quanti chilometri?), pronunciata da un conoscente americano. La parola piacque foneticamente a Buzzati e gli ispirò il mostro, capace di condizionare l’intera esistenza di Stefano. Il narratore onnisciente dapprima presenta al lettore la figura di Stefano Roi, poi quella dell’animale. Il colombre può essere visto soltanto dalla vittima e dai suoi familiari, solo Stefano e suo padre dunque si accorgono della sua presenza; il padre, preoccupato per il figlio, lo fa sbarcare e gli raccomanda di non lasciare mai la terraferma, mandandolo a studiare in una città dell’entroterra. Diversi anni più tardi, dopo la morte di suo padre, Stefano, ormai ventiduenne, torna  dalla madre dicendole di voler fare il marinaio. La madre, ignara della vicenda, acconsente felice. Stefano passa da una nave all’altra e il colombre lo segue per tutto il mondo. Ad un certo punto si rende conto di essere invecchiato e finalmente decide di  andare incontro al suo destino e di affrontare il colombre. Si fa calare in mare su una scialuppa con un arpione e in breve incontra il colombre. L’animale è enorme; quando Stefano sta per colpirlo questi lo ferma, dicendogli che il Re del Mare lo ha incaricato di dargli una perla in grado di esaudire ogni suo desiderio e di donargli fortuna, potenza, amore e pace dell’animo. Quel pesce leggendario lo aveva inseguito per tutta la vita non per ucciderlo, ma per regalargli la Perla del Mare. Il racconto si conclude con il ritrovamento della barca e del cadavere di Stefano che stringe un sassolino bianco nella mano ormai scheletrica. Nel racconto torna il tema dell’attesa già trattato ne Il Deserto dei Tartari: sia Stefano che il colombre, infatti, aspettano per tutta la loro vita il momento dell’incontro. Il protagonista rinuncia a condurre una vita agiata e tranquilla perché ossessionato dalla paura del colombre, trasmessagli dal padre. Invece di affrontare la creatura il protagonista ne diventa la vittima. L’insegnamento che se ne deduce è che dobbiamo affrontare le nostre paure per realizzare i nostri sogni, seguire dunque le nostre passioni perché ad un certo punto, senza che ce ne rendiamo conto, arriva il momento in cui quei sogni sono diventati rimpianti.

Deborah Mega

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La giacca stregata

17 giovedì Mag 2018

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA E POESIA, Racconti

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Dino Buzzati, La giacca stregata

La giacca stregata è un racconto di Dino Buzzati, pubblicato nel 1968 nel volume La boutique del mistero. Il protagonista conosce casualmente  ad una festa, un uomo che indossa un vestito dal taglio impeccabile il quale gli consiglia di affidarsi ad un abile sarto di sua conoscenza. Egli si reca dal misterioso sarto, che gli confeziona una giacca di pregevole fattura.

immagine di Luis Velezmoro

Benché io apprezzi l’eleganza nel vestire, non bado, di solito, alla perfezione o meno con cui sono tagliati gli abiti dei miei simili. Una sera tuttavia, durante un ricevimento in una casa di Milano, conobbi un uomo, dall’apparente età di quarant’anni, il quale letteralmente risplendeva per la bellezza, definitiva e pura, del vestito. Non so chi fosse, lo incontravo per la prima volta, e alla presentazione, come succede sempre, capire il suo nome fu impossibile. Ma a un certo punto della sera mi trovai vicino a lui, e si cominciò a discorrere. Sembrava un uomo garbato e civile, tuttavia con un alone di tristezza. Forse con esagerata confidenza – Dio me ne avesse distolto – gli feci i complimenti per la sua eleganza; e osai perfino chiedergli chi fosse il suo sarto. L’uomo ebbe un sorrisetto curioso, quasi che si fosse aspettato la domanda. “Quasi nessuno lo conosce” disse “però è un gran maestro. E lavora solo quando gli gira. Per pochi iniziati.” “Dimodoché io… ?” “Oh, provi, provi. Si chiama Corticella, Alfonso Corticella, via Ferrara 17.” “Sarà caro, immagino.” “Lo presumo, ma giuro che non lo so. Quest’abito me l’ha fatto da tre anni e il conto non me l’ha ancora mandato.” “Corticella? Via Ferrara 17, ha detto?” “Esattamente” rispose lo sconosciuto. E mi lasciò per unirsi ad un altro gruppo. In via Ferrara 17 trovai una casa come tante altre e come quella di tanti altri sarti era l’abitazione di Alfonso Corticella. Fu lui che venne ad aprirmi. Era un vecchietto, coi capelli neri, però sicuramente tinti. Con mia sorpresa, non fece il difficile. Anzi, pareva ansioso che diventassi suo cliente. Gli spiegai come avevo avuto l’indirizzo, lodai il suo taglio, gli chiesi di farmi un vestito. Scegliemmo un pettinato grigio quindi egli prese le misure, e si offerse di venire, per la prova, a casa mia. Gli chiesi il prezzo. Non c’era fretta, lui rispose, ci saremmo sempre messi d’accordo. Che uomo simpatico, pensai sulle prime. Eppure più tardi, mentre rincasavo, mi accorsi che il vecchietto aveva lasciato un malessere dentro di me (forse per i troppi insistenti e melliflui sorrisi). Insomma non avevo nessun desiderio di rivederlo. Ma ormai il vestito era ordinato. E dopo una ventina di giorni era pronto. Quando me lo portarono, lo provai, per qualche secondo, dinanzi allo specchio. Era un capolavoro. Ma, non so bene perché, forse per il ricordo dello sgradevole vecchietto, non avevo alcuna voglia di indossarlo. E passarono settimane prima che mi decidessi. Quel giorno me lo ricorderò per sempre. Era un martedì di aprile e pioveva. Quando ebbi infilato l’abito – giacca, calzoni e panciotto – constatai piacevolmente che non mi tirava o stringeva da nessuna parte, come accade quasi sempre con i vestiti nuovi. Eppure mi fasciava alla perfezione. Di regola nella tasca destra della giacca io non metto niente, le carte le tengo nella tasca sinistra. Questo spiega perché solo dopo un paio d’ore, in ufficio, infilando casualmente la mano nella tasca destra, mi accorsi che c’era dentro una carta. Forse il conto del sarto? No. Era un biglietto da diecimila lire. Restai interdetto. Io, certo, non ce l’avevo messo. D’altra parte era assurdo pensare a un regalo della mia donna di servizio, la sola persona che, dopo il sarto, aveva avuto occasione di avvicinarsi al vestito. O che fosse un biglietto falso? Lo guardai controluce, lo confrontai con altri. Più buono di così non poteva essere. Unica spiegazione possibile, una distrazione del Corticella. Magari era venuto un cliente a versargli un acconto, il sarto in quel momento non aveva con sé il portafogli e, tanto per non lasciare il biglietto in giro, l’aveva infilato nella mia giacca, appesa ad un manichino. Casi simili possono capitare. Schiacciai il campanello per chiamare la segretaria. Avrei scritto una lettera al Corticella restituendogli i soldi non miei. Senonché, e non ne saprei dire il motivo, infilai di nuovo la mano nella tasca. “Che cos’ha dottore? Si sente male?” mi chiese la segretaria entrata in quel momento. Dovevo essere diventato pallido come la morte. Nella tasca, le dita avevano incontrato i lembi di un altro cartiglio; il quale, pochi istanti prima, non c’era. “No, no, niente” dissi. “Un lieve capogiro. Da qualche tempo mi capita. Forse sono un po’ stanco. Vada pure, signorina, c’era da dettare una lettera, ma lo faremo più tardi.” Solo dopo che la segretaria fu andata, osai estrarre il foglio dalla tasca. Era un altro biglietto da diecimila lire. Allora provai una terza volta. E una terza banconota uscì. Il cuore mi prese a galoppare. Ebbi la sensazione di trovarmi coinvolto, per ragioni misteriose, nel giro di una favola come quelle che si raccontano ai bambini e che nessuno crede vere. Col pretesto di non sentirmi bene, lasciai l’ufficio e rincasai. Avevo bisogno di restare solo. Per fortuna, la donna che faceva i servizi se n’era già andata. Chiusi le porte, abbassai le persiane. Cominciai a estrarre le banconote una dopo l’altra con la massima celerità, dalla tasca che pareva inesauribile. Lavorai in una spasmodica tensione di nervi, con la paura che il miracolo cessasse da un momento all’altro. Avrei voluto continuare per tutta la sera e la notte, fino ad accumulare miliardi. Ma a un certo punto le forze mi vennero meno. Dinanzi a me stava un mucchio impressionante di banconote. L’importante adesso era di nasconderle, che nessuno ne avesse sentore. Vuotai un vecchio baule pieno di tappeti e sul fondo, ordinati in tanti mucchietti, deposi i soldi, che via via andavo contando. Erano cinquantotto milioni abbondanti. Mi risvegliò al mattino dopo la donna, stupita di trovarmi sul letto ancora tutto vestito. Cercai di ridere, spiegando che la sera prima avevo bevuto un po’ troppo e che il sonno mi aveva colto all’improvviso. Una nuova ansia: la donna mi invitava a togliermi il vestito per dargli almeno una spazzolata. Risposi che dovevo uscire subito e che non avevo tempo di cambiarmi. Poi mi affrettai in un magazzino di abiti fatti per comprare un altro vestito, di stoffa simile; avrei lasciato questo alle cure della cameriera; il “mio”, quello che avrebbe fatto di me, nel giro di pochi giorni, uno degli uomini più potenti del mondo, l’avrei nascosto in un posto sicuro. Non capivo se vivevo in un sogno, se ero felice o se invece stavo soffocando sotto il peso di una fatalità troppo grande. Per la strada, attraverso l’impermeabile, palpavo continuamente in corrispondenza della magica tasca. Ogni volta respiravo di sollievo. Sotto la stoffa rispondeva il confortante scricchiolio della carta moneta. Ma una singolare coincidenza raffreddò il mio gioioso delirio. Sui giornali del mattino campeggiava la notizia di una rapina avvenuta il giorno prima. Il camioncino blindato di una banca che, dopo aver fatto il giro delle succursali, stava portando alla sede centrale i versamenti della giornata, era stato assalito e svaligiato in viale Palmanova da quattro banditi. All’accorrere della gente, uno dei gangster, per farsi largo, si era messo a sparare. E un passante era rimasto ucciso. Ma soprattutto mi colpì l’ammontare del bottino: esattamente cinquantotto milioni (come i miei). Poteva esistere un rapporto fra la mia improvvisa ricchezza e il colpo brigantesco avvenuto quasi contemporaneamente? Sembrava insensato pensarlo. E io non sono superstizioso. Tuttavia il fatto mi lasciò molto perplesso. Più si ottiene e più si desidera. Ero già ricco, tenuto conto delle mie modeste abitudini. Ma urgeva il miraggio di una vita di lussi sfrenati. E la sera stessa mi rimisi al lavoro. Ora procedevo con più calma e con minore strazio dei nervi. Altri centotrentacinque milioni si aggiunsero al tesoro precedente. Quella notte non riuscii a chiudere occhio. Era il presentimento di un pericolo? O la tormentata coscienza di chi ottiene senza meriti una favolosa fortuna? O una specie di confuso rimorso? Alle prime luci balzai dal letto, mi vestii e corsi fuori in cerca di un giornale. Come lessi, mi mancò il respiro. Un incendio terribile, scaturito da un deposito di nafta, aveva semidistrutto uno stabile nella centralissima via San Cloro. Fra l’altro erano state divorate dalle fiamme le casseforti di un grande istituto immobiliare, che contenevano oltre centotrenta milioni in contanti. Nel rogo, due vigili del fuoco avevano trovato la morte. Devo ora forse elencare uno per uno i miei delitti? Sì, perché ormai sapevo che i soldi che la giacca mi procurava venivano dal crimine, dal sangue, dalla disperazione, dalla morte, venivano dall’inferno. Ma c’era pure dentro di me l’insidia della ragione la quale, irridendo, rifiutava di ammettere una mia qualsiasi responsabilità. E allora la tentazione riprendeva, e allora la mano – era così facile! – si infilava nella tasca e le dita, con rapidissima voluttà, stringevano i lembi del sempre nuovo biglietto. I soldi, i divini soldi! Senza lasciare il vecchio appartamento (per non dare nell’occhio), mi ero in poco tempo comprato una grande villa, possedevo una preziosa collezione di quadri, giravo in automobili di lusso, e, lasciata la mia ditta per “motivi di salute”, viaggiavo su e giù per il mondo in compagnia di donne meravigliose. Sapevo che, ogniqualvolta riscuotevo denari dalla giacca, avveniva nel mondo qualcosa di turpe e doloroso. Ma era pur sempre una consapevolezza vaga, non sostenuta da logiche prove. Intanto, a ogni mia nuova riscossione, la coscienza mia si degradava, diventando sempre più vile. E il sarto? Gli telefonai per chiedere il conto, ma nessuno rispondeva. In via Ferrara, dove andai a cercarlo, mi dissero che era emigrato all’estero, non sapevano dove. Tutto dunque congiurava a dimostrarmi che, senza saperlo, io avevo stretto un patto col demonio. Finché nello stabile dove da molti anni abitavo, una mattina trovarono una pensionata sessantenne asfissiata dal gas; si era uccisa per aver smarrito le trentamila lire mensili riscosse il giorno prima (e finite in mano mia). Basta, basta! per non sprofondare fino al fondo dell’abisso, dovevo sbarazzarmi della giacca. Non già cedendola ad altri, perché l’obbrobrio sarebbe continuato (chi mai avrebbe potuto resistere a tanta lusinga?). Era indispensabile distruggerla. In macchina raggiunsi una recondita valle delle Alpi. Lasciai l’auto su uno spiazzo erboso e mi incamminai su per un bosco. Non c’era anima viva. Oltrepassato il bosco, raggiunsi le pietraie della morena. Qui, fra due giganteschi macigni, dal sacco da montagna trassi la giacca infame, la cosparsi di petrolio e diedi fuoco. In pochi minuti non rimase che cenere. Ma all’ultimo guizzo delle fiamme, dietro di me – pareva a due o tre metri di distanza – risuonò una voce umana: “Troppo tardi, troppo tardi!”. Terrorizzato, mi volsi con un guizzo da serpente. Ma non si vedeva nessuno. Esplorai intorno, saltando da un pietrone all’altro, per scovare il maledetto. Niente. Non c’erano che pietre. Nonostante lo spavento provato, ridiscesi al fondovalle con un senso di sollievo. Libero, finalmente. E ricco, per fortuna. Ma sullo spiazzo erboso, la mia macchina non c’era più. E, ritornato che fui in città, la mia sontuosa villa era sparita; al suo posto, un prato incolto con dei pali che reggevano l’avviso “Terreno comunale da vendere”. E i depositi in banca, non mi spiegai come, completamente esauriti. E scomparsi, nelle mie numerose cassette di sicurezza, i grossi pacchi di azioni. E polvere, nient’altro che polvere, nel vecchio baule. Adesso ho ripreso stentatamente a lavorare, me la cavo a mala pena, e, quello che è più strano, nessuno sembra meravigliarsi della mia improvvisa rovina. E so che non è ancora finita. So che un giorno suonerà il campanello della porta, io andrò ad aprire e mi troverò di fronte, col suo abietto sorriso, a chiedere l’ultima resa dei conti, il sarto della malora.

da La boutique del mistero, Mondadori, Milano, 2000

Il racconto è costruito come un lungo flashback, come è possibile notare nel momento in cui il protagonista-narratore si esprime per la prima volta al tempo presente (Adesso […] me la cavo a mala pena […] E so ecc.) Nonostante la possibile suddivisione del testo in quattro sequenze narrative (l’incontro con lo sconosciuto alla festa e con il sarto Corticella; la scoperta del potere della giacca e il rapido arricchimento; la scoperta della natura demoniaca della giacca; la distruzione della giacca e la scomparsa dei beni accumulati), il racconto si presenta coeso e perfettamente collegato nelle varie parti. Continua a leggere →

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L’agonia del congiuntivo

10 venerdì Giu 2016

Posted by Deborah Mega in Appunti letterari, Ispirazioni e divagazioni, LETTERATURA E POESIA, Racconti

≈ 3 commenti

Tag

congiuntivo, Deborah Mega, Dino Buzzati

salviamo-il-congiuntivo

Da tempo ormai il modo congiuntivo é in lenta ma inesorabile decadenza. Al suo posto regna incontrastato e sovrano l’indicativo, il modo della realtà, dell’obiettività e della certezza. Il 21 marzo del 1967, sulle pagine del Corriere della Sera, Dino Buzzati scriveva un raccontino dal titolo Povero Congiuntivo che propongo qui di seguito e che già manifestava la crisi che avrebbe inesorabilmente colpito il modo verbale della soggettività.

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