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Anna Achmatova, Anna Maria Curci, Catullo, Didone, EMILY DICKINSON, Ingeborg Bachmann, Katia Chausheva, Mimnermo, Platone, Saffo, Silvia Plath, società, Ungaretti, Yava Suberg
Dai primi sguardi al corteggiamento, dallo scoppio della passione al suo soddisfacimento, dai dubbi della gelosia ai tormenti del tradimento o della separazione, l’amore rappresenta sicuramente un’esperienza universale. Ed è naturale che un fenomeno così complesso in cui convivono sentimenti misteriosi e spesso contraddittori e sconvolgenti sia al centro della poesia. Il tema dell’eros e le strane ambivalenze dei moti sentimentali sono ben presenti nella poesia antica: bisogna però cogliere le forti differenze di sensibilità che corrono, nella trattazione di tale motivo, tra gli scrittori moderni e gli antichi.
“E allora – dissi – che cosa sarebbe Amore? Un mortale?” “Per nulla” “Ma che cosa allora?” “Come i casi precedenti – rispose – qualcosa di intermedio tra il mortale e l’immortale” “Che cosa, dunque, Diotima?” “Un gran demone, Socrate, perché tutto ciò che è demonico è intermedio tra dio e mortale”.Platone sostiene che Eros non è un dio, perché altrimenti possederebbe già bellezza e bontà: è piuttosto un demone che aspira a possederle. L’amore viene così concepito come un cammino verso l’assoluto, una via che dal grado più basso, quello dell’amore fisico, conduce fino al culmine della scala, là dove è possibile contemplare l’idea stessa del Bello, non disgiunta da quella del Bene. Entrambi infatti conducono a quella generazione nella bellezza che esprime un desiderio di immortalità.
Bruno Snell ha collegato l’epica alla categoria del passato e la lirica a quella del presente; a ciò si aggiungano la individualità e la diversità dei soggetti poetanti, dal legislatore al politico, dal pensatore alla poetessa e si avrà così una prima caratterizzazione della produzione lirica. Ma la soggettività non è una categoria dominante della lirica antica, così come invece lo è per la lirica moderna; e anzi ogni raffronto troppo ravvicinato risulta forzato.
Nella letteratura greca, l’eros è stato rappresentato, come una delle forze decisive dell’esistenza, dai filosofi e dai tragici, oltre che dai primissimi poeti, Omero ed Esiodo. Invece l’epica arcaica non conosce le pene d’amore infelice; l’amore è un valore positivo dell’esistenza che, come la danza, il vino, il riposo, si associa naturalmente al piacere: “Eros fra gli dei immortale il più bello, colui che scioglie le membra” canta Esiodo nella Teogonia.
L’affermazione definitiva dell’amore in poesia avviene con la lirica, in una lunga stagione di fioritura che va dal VII al V secolo, preceduta quindi dallo splendore dell’epica omerica nell’ VIII secolo a.C.
Affrontare la visione dell’amore e i costumi sessuali nel mondo antico è un po’ come addentrarsi in un paese straniero, dove vigono criteri, valori, norme, divieti spesso totalmente diversi da quelli che sono familiari nella civiltà occidentale contemporanea.
Nozze Aldobrandini, affresco del I secolo a.C., Musei Vaticani, Città del Vaticano, Roma
Va precisato che parliamo di un mondo a netta predominanza maschile, in cui la riflessione morale sul comportamento amoroso non tende a definire regole e principi validi allo stesso modo per i due sessi: essa riguarda essenzialmente gli uomini. Solo questi sono considerati soggetti di bisogni e di desideri: la donna entra in tale riflessione solo indirettamente, in quanto oggetto di bisogni e desideri. In questa società di uomini, in cui la vita del maschio adulto si divide fra la guerra e la politica, l’amore modernamente inteso, ha scarsissimo spazio. La figura maschile crea instabilità, la prepotenza di Eros che entra nella vita senza chiedere permesso e senza bussare, sconvolge la mente, e la “delicata Afrodite” ha l’ultima parola ed è l’unica in grado di dare forza o placare il cuore di Saffo. Se la follia più grande è l’amore, allora Afrodite fu, per la poetessa di Lesbo, la dea della pazzia.
Carme 51
Non so cosa fare: la mia mente è divisa fra due pensieri.
La confessione arriva, non più rivolta ad un ipotetico lettore, ma direttamente alla madre.
Carme 102
“Mia dolce madre non mi riesce di tessere questa tela: mi viene il desiderio di un giovane per volere della delicata Afrodite“.
Saffo
Ode I
Φαίνεταί μοι κῆνος ἴσος θέοισιν
ἔμμεν᾽ ὤνηρ, ὄττις ἐνάντιός τοι
ἰσδάνει καὶ πλάσιον ἆδυ φωνεί-
σας ὐπακούει
καὶ γελαίσ‹ας› ἰμέροεν. τό μ᾽ἦ μάν
καρδίαν ἐν στήθεσιν ἐπτόαισεν.
ὢς γὰρ ἔς σ᾽ ἴδω βρόχε᾽, ὤς με φώνη-
σ᾽οὖδεν ἔτ᾽ εἴκει,
ἀλλὰ κὰμ μὲν γλῶσσα ἔαγε, λέπτον
δ᾽αὔτικα χρῶι πῦρ ὐπαδεδρόμακεν,
ὀππάτεσσι δ᾽ οὖδεν ὄρημμ᾽, ἐπιρρόμ-
βεισι δ᾽ἄκουαι,
ἀ δέ μ᾽ἴδρως κακχέεται, τρόμος δέ
παῖσαν ἄγρει, χλωροτέρα δὲ ποίας
ἔμμι, τεθνάκην δ᾽ὀλίγω ᾽πιδεύης
φαίνομ᾽ἔμ᾽αὔται·
ἀλλὰ πᾶν τόλματον, ἐπεὶ +καὶ πένητα
..e nella traduzione di Salvatore Quasimodo
A me pare uguale agli dei
chi a te vicino così dolce
suono ascolta mentre tu parli
e ridi amorosamente. Subito a me
il cuore si agita nel petto
solo che appena ti veda, e la voce
si perde sulla lingua inerte.
Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle,
e ho buio negli occhi e il rombo
del sangue alle orecchie.
E tutta in sudore e tremante
come erba patita scoloro:
e morte non pare lontana
a me rapita di mente.
Nel carme LI Catullo imita liberamente la celebre poetessa greca e cerca nuove soluzioni:
Ille mi par esse deo videtur,
Ille, si fas est, superare divos,
qui sedens adversus identidem te
spectat et audit
dulce ridentem, misero quod omnis
eripit sensus mihi: nam simul te,
Lesbia, aspexi, nihil est super mi.
Lingua sed torpet, tenuis sub artus
fiamma demanat, sonitu suopte
tintinant aures, gemina teguntur
lumina nocte.
Otium, Catulle, tibi molestum est,
otio exultas nimiumque gestis;
otium et reges prius et beatas
perdidit urbes.
La fenomenologia della passione d’amore sembra costituire l’oggetto reale del carme in Catullo ma già a partire dal secondo verso lo amplifica con un’iperbole. All’intensificazione iniziale determinata dall’anafora, altre se ne aggiungono: non basta a Catullo, paragonare la beatitudine dell’interlocutore di Lesbia a quella di un dio: egli è qualcosa di più degli dei….
Non basta a Catullo notare che l’altro siede di fronte a Lesbia, la guarda e l’ascolta. Catullo accentua con più forza la felicità dell’ “altro”, la moltiplica estendendola a sensazioni diverse: spectat et audit. L’adonio è un’autentica cerniera nella composizione del carme e sono proprio la vista e l’udito, oltre alla parola che in Catullo come in Saffo si confondono e si annebbiano nella dolorosa esperienza dell’esclusione da una felicità divina che appartiene ad altri.
Il tema del dissidio tra amore e odio entra nella letteratura latina attraverso Terenzio, vissuto un secolo prima di Catullo, particolarmente attento nelle sue commedie alla descrizione dei sentimenti.
Terenzio Eunuchus ,vv.72-73
Et taedet et amore ardeo, et prudens sciens
Vivos vidensque pereo, nec quid agam scio.
Trad.
Non ne posso più e brucio d’amore, e lo so
Lo vedo, e vivo e muoio, tuttavia non so che fare.
Dopo Catullo lo stesso tema appare con maggiore o minore intensità, nei poeti elegiaci. In Ovidio lo ritroviamo ridotto a vero e proprio τόπος letterario, su cui il poeta costruisce una serie di eleganti variazioni, come in questi versi degli Amores:
Amores,III,12,vv.1-2
Luctantur pectusque leve in contraria tendunt
hac amor hac odium, sed, puto, vincit amor.
odero, si potero; si non, invitus amabo.
Trad.
Lottano e tirano il mio cuore leggero da parti opposte,
l’amore di qui, di là l’odio; ma credo che vinca l’amore.
Se ci riuscirò ti odierò; se no, ti amerò controvoglia.
Il contrasto tra ragione e cuore e il senso d’impotenza di fronte all’urgenza di un sentimento che si impossessa dell’uomo contro ogni disegno razionale costituiscono poi uno dei temi fondamentali del Canzoniere di Francesco Petrarca.
Sonetto CXXXIV , vv.1-4
Pace non trovo, et non ò da far guerra ;
e temo, et spero; e ardo, e sono un ghiaccio ;
et volo sopra ‘l cielo, et giaccio in terra;
e nulla stringo, et tutto ‘l mondo abbraccio
Chi è preda della passione è continuamente turbato da stati d’animo contrastanti.
Emily Dickinson (1830 – 1886)
AMORE, TU SEI ALTO
Amore, tu sei alto,
Non posso arrampicarmi fino a te:
Ma se fossimo due, forse, chi sa?
Attaccando di sghembo il Chimborazu,
Potremmo alfine giungere
All’altezza di te!
Amore, sei profondo,
E non posso tentare il guado sola:
Ma se fossimo due, forse, chi sa?
Potremmo in qualche estate portentosa
Toccare il sole!
Amore, sei velato, e a pochi è dato
Di contemplare te. —
Sorridono gli eletti, e si trasmutano,
Farneticano e muoiono.
Senza di te mostruosa
L’ebbrezza che Dio chiama Eternità.
SPIEGAMI AMORE
di Ingeborg Bachmann nella traduzione di Anna Maria Curci Lieve il tuo cappello si leva, saluta, fluttua nel vento, Spiegami, Amore! Il pavone, in solenne stupore, fa la ruota, Rosso si fa il pesce, supera il banco L’acqua sa parlare, Una pietra sa come ammorbidirne un’altra! Spiegami, Amore, ciò che non so spiegare: Tu dici: un altro spirito conta su di lui.
Erklär mir, LiebeDein Hut lüftet sich leis, grüßt, schwebt im Wind, Erklär mir, Liebe! Der Pfau, in feierlichem Staunen, schlägt sein Rad, Der Fisch errötet, überholt den Schwarm Erklär mir, Liebe! Wasser weiß zu reden, Ein Stein weiß einen andern zu erweichen! Erklär mir, Liebe, was ich nicht erklären kann: Du sagst: es zählt ein andrer Geist auf ihn … Ingeborg Bachmann |
Se l’amore non è ricambiato, se le speranze in esso sono state deluse, il conflitto può esasperarsi fino a una dolorosa incredulità dinanzi alla fine incomprensibile di un amore.
La poetessa russa Anna Achmatova descrive un amore fonte di solitudine e sofferenza.
La porta è socchiusa,
dolce respiro dei tigli…
Sul tavolo, dimenticati,
un frustino ed un guanto.
Giallo cerchio del lume…
tendo l’orecchio ai fruscii.
Perché sei andato via?
Non comprendo…
Luminoso e lieto
domani sarà il mattino.
Questa vita è stupenda,
sii dunque saggio cuore.
Tu sei prostrato, batti
più sordo, più a rilento…
Sai, ho letto
che le anime sono immortali.
L’amore come “malattia” è anche esperienza dolorosa e frustante avvelenata dalla gelosia e dall’inganno. Una pagina interessante dello Zibaldone di Giacomo Leopardi (1798-1837), datata 30 Novembre 1828, Recanati, nega appunto lucidità e capacità propositive al grande dolore, che inibisce la comprensione di sé e del mondo e riduce chi ne è vittima ad uno stato di assopimento della ragione.
Sir Frank Dicksee (1853-1928) – Sylvia
La tragedia della passione nel monologo drammatico di Didone si conclude senza risposte se non quella del suicidio.
La storia di Didone ispirò Giuseppe Ungaretti, che compose diciannove brevi Cori descrittivi di stati d’animo di Didone, compresi nell’opera incompiuta La Terra promessa (sottotitolo Frammenti:1935-1953).
Didone, marmo bianco attribuito a Christophe Cochet, Parigi, Musée du Louvre.
III
Ora il vento s’è fatto silenzioso
E silenzioso mare;
Tutto tace; ma grido
Il grido, solo, del mio cuore,
Del cuore che brucia
Da quando ti mirai e m’ha guardata
E più non sono che un oggetto debole.
Grido e brucia il mio cuore senza pace
Da quando più non sono
Se non cosa in rovina e abbandonata
L’antinomia amore – morte è un τόπος della poesia universale e forse possiamo scoprire le sue remote radici nell’elegia di Mimnermo, fr. 7, traduzione di Salvatore Quasimodo.
ph. Katia Chausheva
CATALEPTON
Quale vita, che dolcezza senza Afrodite d’oro?
Meglio morire quando non avrò più cari
gli amori segreti e il letto e le dolcissime offerte,
che di giovinezza sono i fiori effimeri
per gli uomini e le donne.
E ancora nel fr.8 dello stesso Mimnermo, traduzione di S.Quasimodo:
Al modo delle foglie che nel tempo
fiorito della primavera nascono
e ai raggi del sole rapide crescono,
noi simili a quelle per un attimo
abbiamo diletto del fiore dell’età,
ignorando il bene e il male per dono dei Celesti.
Ma le nere dèe ci stanno a fianco,
l’una con il segno della grave vecchiaia
e l’altra della morte. Fulmineo
precipita il frutto di giovinezza,
come la luce d’un giorno sulla terra.
E quando il suo tempo è dileguato
è meglio la morte che la vita.
Ma è nell‘elegia latina che il binomio eros/thanatos diventa tema dominante, a contatto con l’originale esperienza del distico funerario. Ricordiamo, ad esempio,Tibullo I 1, 69 ss.
Interea, dum fata sinunt, iungamus amores: | Iam veniet tenebris Mors adoperta caput, | Iam subrepet iners aetas…
E ancora Properzio II 15,23 s.
dum nos fata sinunt, oculos satiemus amore: nox tibi longa venit, nec reditura dies.
Al nostro carme catulliano si rifà esplicitamente Marziale 6, 34: basia da nobis, che si chiude così:
nolo quot arguto dedit exorata Catullo/Lesbia: pauca cupit qui numerare potest.
Il tema catulliano si trova ancora nell’Aminta del Tasso, versi 719ss.
Amiam, che non ha tregua
con gli anni umana vita, e si dilegua.
Amiam, che ‘l sol si muore e poi rinasce,
a noi sua breve luce
s’asconde, e ‘l sonno eterna notte adduce.
Anche nei versi del Leopardi, tratti dal “Tramonto della luna”, 63-68, sentiamo una reminiscenza catulliana che si ricollega alla sensibilità di Mimnermo:
Ma la vita mortal, poi che la bella
Giovinezza sparì, non si colora
D’altra luce giammai, nè d’altra aurora.
Vedova è insino al fine; ed alla notte
Che l’altre etadi oscura,
Segno poser gli Dei la sepoltura.
La sopravvivenza del topos amore-morte domina anche nei versi di Silvia Plath, poetessa e scrittrice statunitense, l’autrice che più ha contribuito allo sviluppo del genere della poesia confessionale.
Sylvia & Ted in their Boston’s apartment
Testamento spirituale in versi
Non voglio una cassa qualunque, voglio un sarcofago
Con striature di tigre e una faccia dipinta
Tonda come la luna, con gli occhi sgranati in su.
Voglio sembrare che li guardo quando verranno
A scavarmi fra ottusi minerali e radici.
Già li vedo – pallide facce, a una distanza astrale.
Adesso non sono nulla, non sono nemmeno in fasce.
Li penso senza né padri né madri, come gli dei primigeni.
Si domanderanno se io sia stata importante.
Dovrei come frutta candire e conservare i miei giorni!
Il mio specchio si appanna –
Ancora qualche fiato e non specchierà più niente del tutto.
I fiori e le facce si sbiancano come un lenzuolo.
Dello spirituale non mi fido. Sguscia via come vapore
Nei sogni, per le fessure della bocca o degli occhi. Non posso
Fermarlo, né mai tornerà. Ma non così le cose.
Loro restano, con quel piccolo brillìo particolare,
Da tante mani scaldato, con un brusìo di piacere.
Se avrò freddo alle piante dei piedi,
Mi consolerà l’occhio azzurro del mio turchese.
Siano con me le mie casseruole di rame, i miei vasi di coccio
Mi fioriscano intorno notturni fiori, dal buon profumo.
Mi avvolgeranno nelle bende, deporranno il mio cuore
Sotto i miei piedi in un bel pacchettino.
Non mi riconoscerò quasi. Sarà tutto buio,
Ma ci sarà il fulgore di questi piccoli oggetti più dolce che il viso di Ishtar.
“Lady Lazarus e altre poesie”
Mondadori, 1998.
Un piacere coltivato l’amore di Sylvia per Ted, impiantato nella scrittura e nato da un bisogno pressoché permanente di sanare un dolore originario, spaventoso e viscerale. Il giornale di bordo di una scrittrice dalla sensibilità acuta, lacerata e drammatica: una scrittrice che per i suoi versi e per il suo tragico destino è diventata, anche a sproposito, oggetto di “culto”. Piccole violente scosse: diversa intensità, alta frequenza. Sfogliare in lettura le pagine dei Diari di Sylvia Plath è come maneggiare fili elettrici scoperti. Quella che passa è energia pura: creativa e distruttiva, vivificante e mortifera. Energia propria dell’essere umano, ma che nel caso della Plath raggiunge stature e potenze impressionanti. Tutte le fibre emotive che fanno da trama agli stati d’animo più banali e più estremi, dall’amore, all’odio, dalla tristezza senza fondo alla felicità indicibile, sono prese, strizzate, scomposte, sfilacciate, ricomposte e poi di nuovo disfatte fino allo stremo. Tutte le corde nervose, in particolare quelle più intime e fragili, vengono pizzicate insistentemente e lasciate risuonare ed echeggiare a lungo.
Solo una sensibilità acuta, forse troppo acuta, come quella di Sylvia Plath poteva toccare al contempo vertici e abissi di estremo sentimento umano e rimanerne per la vita e per la morte incantata; solo un’intelligenza critica, consapevole eppur mai paga di sé come la sua, poteva appassionarsi a sciogliere nodi nevralgici tra i più difficili e delicati che i fili della mente umana possano formare.
Ha poca, pochissima, importanza conoscere l’opera poetica di questa autrice o avere familiarità con la sua figura letteraria carismatica; può servire ad avere un ritratto completo per scrivere di lei su un manuale o una storia della letteratura americana (la Plath nacque il 27 ottobre 1932 a Jamaica Plain, nel Massachusetts e morì suicida a Londra l’11 febbraio del 1963) ma non è sicuramente indispensabile a scoprire e apprezzare il suo talento intellettuale, la sofferta genialità, la ricerca esistenziale affannata: basta leggere questi Diari.
Certo: le poesie, a diritto, sono considerate la sua opera più importante. La Plath è una poetessa. Ma è nelle pagine diaristiche, scritte tra il 1950 e il 1962, che la poetessa dà completa testimonianza di sé: della sua esistenza, del suo lavoro, della sua vita interiore – carica di accumuli e lacerazioni – e dunque anche della sua poesia. “Che cos’è la vita?” – scrive – “Per me è una quantità minima di idee. Le idee mi tiranneggiano – le idee del mio superego geloso da stronza-regina – quel che dovrei, quel che mi toccherebbe”. Come chiarisce Ted Hughes (l’ex marito) nella prefazione, purtroppo, molte parti sono state tagliate; lui stesso ammette di aver distrutto la terza parte del diario della moglie, perché non voleva che i figli lo leggessero. Mentre il secondo taccuino sembra sia andato perduto. Al lettore giunge così solo una parte (peraltro consistente) dell’autobiografia originale, ma considerato che non è qui la quantità a significare valore ciò non può essere assolutamente motivo di discredito o sottovalutazione.
Nel diario che la stessa Plath definisce “litania di sogni, di indicazioni e imperativi”, in questo “deposito dell’immaginazione da cui estrarre il pressante materiale inconscio” ci sono in embrione, non solo le sue opere (poesie e romanzi), ma anche la sua storia, i fatti, le scelte mancate e compiute: la possibilità, lampante e tragica, evocata e poi realizzata di togliersi la vita. Ci sono le descrizioni di cose che la fanno inorridire: cause ed effetti. “Un’altra cosa che mi fa inorridire” – scrive – “è il modo in cui dimentico: un tempo sapevo tutto di Platone, di James Joyce, eccetera. Se non si usa quel che si sa, se non lo si riprende per mantenerlo, lo si lascia affondare nel mar dei Sargassi e s’incrosta di conchiglie. Un lavoro che m’immergesse nella vita altrui sarebbe utile. Giornalista, sociologa, qualsiasi cosa”.
La Plath cerca ancore concrete che la trattengano dal naufragio, ma con la stessa lucidità con cui le vorrebbe sa che non le appartengono. “L’astratto uccide, il concreto protegge. […] Quanto aiuta spolverare, lavare i piatti tutti i giorni, parlare con gli amici che non sono matti e [che] spolverano, lavano e pensano che questa sia la vita che c’è da vivere…”. Un anelito lacerante di soddisfazione e tregua, riversato nella scrittura con una dedizione ossessiva, vorticosa. Ecco cosa significa per lei.
“La scrittura è un rito religioso: è un ordine, una riforma, una rieducazione al riamore per gli altri e per il mondo come sono e come potrebbero essere. Una creazione che non svanisce come una giornata alla macchina da scrivere o in cattedra. La scrittura resta: va sola per il mondo. Tutti la leggono, vi reagiscono come si reagisce a una persona, a una filosofia, a una religione, a un fiore: può piacergli o meno. Può aiutarli o meno. La scrittura prova delle emozioni per dare intensità alla vita: offri di più, indaghi, chiedi, guardi, impari e modelli: ottieni di più: mostri, risposte, colore, forma e sapere. All’inizio è un atto gratuito. Se ti fa guadagnare tanto meglio. […] La cosa peggiore, peggiore di tutte, sarebbe vivere senza scrittura. E allora, come vivere con i mali minori e sminuirli ancora?”
Sylvia non può vivere senza scrittura come non può vivere senza riconoscere la violenza inquietante che la pervade e senza misurarsi con essa. Nel giugno del 1958 dopo aver osservato, durante una passeggiata con Ted, delle ragazze impegnate a deturpare un cespuglio si dice disgustata e innervosita e scrive: “In me c’è una violenza incandescente come il sangue della morte. Potrei suicidarmi adesso lo so, o persino uccidere qualcun altro. Sarei capace di ammazzare una donna e ferire un uomo. Penso che ci riuscirei. Ho stretto i denti per tenere a bada le mani, ma mentre guardavo fisso quella sfacciata ho sentito in testa un’esplosione di stelle sanguinose e un desiderio sanguinario di [saltarle] addosso e ridurla in maledetti brandelli sanguinolenti e pulsanti”. Questo desiderio sanguinario, primitivo e pulsante, così come la paura, l’ambizione, la frenesia e una radicale sensazione di “esilio” dal mondo, non abbandoneranno mai la Plath. “Guardo giù nel caldo mondo terrestre. Nel groviglio di letti di amanti, culle di bambini, tavole apparecchiate, tutto il solito viavai vitale di questa terra, e mi sento estromessa, chiusa dietro una parete di vetro. Presa tra la speranza e la promessa del mio lavoro”.
Ted Hughes nella prefazione scrive di lei: “Forse, in una cultura diversa, sarebbe stata felice”; ma non è chiaro a quale cultura si riferisca. Diversamente è ben comprensibile la “brama di comunione con lo spirito o con la realtà” che Hughes le attribuisce. Quella “disposizione a sacrificare tutto a una nuova nascita”. Dice Hughes: “Logicamente, il lato negativo di questo atteggiamento è il suicidio. Ma quello positivo (più familiare in termini religiosi) è la morte del vecchio e falso io al momento della nascita dell’io nuovo e autentico”. Comunione e fede di rinascita. Davvero quello che Sylvia Plath ha inseguito nella vita e nella morte: “C’è qualcosa che mi sta aspettando. Forse un giorno avrò una rivelazione improvvisa e potrò vedere l’altra faccia di questo enorme, grottesco scherzo. E allora riderò. E saprò cos’è la vita”. Davvero quello che forse, solo, le è mancato: un dono.
Lettera d’amore
Non è facile dire il cambiamento che operasti.
Se adesso sono viva, allora ero morta
anche se, come una pietra, non me ne curavo
e me ne stavo dov’ero per abitudine.
Tu non ti limitasti a spingermi un po’ col piede, no-
e lasciare che rivolgessi il mio piccolo occhio nudo
di nuovo verso il cielo, senza speranza, è ovvio,
di comprendere l’azzurro, o le stelle.
Non fu questo. Diciamo che ho dormito: un serpente
mascherato da sasso nero tra i sassi neri
nel bianco iato dell’inverno-
come i miei vicini, senza trarre alcun piacere
dai milioni di guance perfettamente cesellate
che si posavano a ogni istante per sciogliere
la mia guancia di basalto. Si mutavano in lacrime,
angeli piangenti su nature spente,
Ma non mi convincevano. Quelle lacrime gelavano.
Ogni testa morta aveva una visiera di ghiaccio.
E io continuavo a dormire come un dito ripiegato.
La prima cosa che vidi fu l’aria, aria trasparente,
e le gocce prigioniere che si levavano in rugiada
limpide come spiriti. Tutt’intorno giacevano molte
pietre stolide e inespressive,
Io guardavo e non capivo.
Con un brillio di scaglie di mica, mi svolsi
per riversarmi fuori come un liquido
tra le zampe d’uccello e gli steli delle piante
Non m’ingannai. Ti riconobbi all’istante.
Albero e pietra scintillavano, senz’ombra.
La mia breve lunghezza diventò lucente come vetro.
Cominciai a germogliare come un rametto di marzo:
un braccio e una gamba, un braccio, una gamba.
Da pietra a nuvola, e così salii in lato.
Ora assomiglio a una specie di dio
e fluttuo per l’aria nella mia veste d’anima
pura come una lastra di ghiaccio. È un dono.
ph. Yava Suberg
Come dice Stendhal, l’amore è un bellissimo fiore, ma bisogna avere il coraggio di coglierlo sull’orlo di un precipizio.
M
aria Allo
L’ha ribloggato su .
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