Morto è tutto. Tutto morto.
E nel mio portapane d’argento
ammuffisce il pezzo di torsolo avvelenato
che non scendeva più.
Chi mangia nei miei piatti?
dev’esserci ancora un resto della
corda con cui sono stata intrappolata.
Chi dorme nel mio letto?
certo di notte fruscia ancora il foglietto
che vi ho cucito dentro.
Quanto poco presente! Solo
negli oggetti lontani mi aggiro ancora,
nella lampada, nella luce,
allora accendo e voglio dire:
tutto il sangue, il molto sangue che
è scorso. Miei assassini.
.
Ingeborg Bachmann

Guernica, Pablo Picasso
Ingeborg Bachman, è nata a Klagenfurt in Austria nel 1926 ed è morta a Roma nel 1973 per le gravi lesioni a seguito di un incidente domestico le cui circostante non sono mai state del tutto chiarite. Forse s’era addormentata in soggiorno fumando una sigaretta, altre fonti parlano di ustioni procuratesi mentre era nella sua vasca da bagno, di certo nel suo appartamento si sviluppò un incendio e la morte sopraggiunse all’ospedale dove fu ricoverata per le ferite che aveva riportato.
La Bachman è un’autrice che conferma la mia personale idea che quasi ogni poeta nasce nel trauma, una specie di doglia che partorisce uno spirito “diverso”, uno spirito drammaticamente segnato, un’anima che nonostante ripetutamente tenti e liberi attraverso la parola il fascino e l’ incanto subito dalla parola, nonostante ripetutamente tenti il risanamento e liberi per questa via la ferita subita e restituita, mai riesce a raggiungere la pace o, il che è lo stesso, la piena espressione di tutto quello che è necessario dire, a cui forse potrebbe conseguire la restitutio in integrum.
Ingeborg non manifestò questa irrequietezza soltanto nella scrittura e nello studio, ma anche nella ricerca continua di un luogo dove poter stare, girovagò infatti a lungo in Europa: Londra, Berlino, Parigi, Vienna, prima di stabilirsi a Roma nel 1965, dove visse fino alla morte.
Pare che la (prima) ferita inferta alla Bachman, quella che presumibilmente, insieme ad altre traumatiche esperienze, la portò alla scelta della parola, fu l’invasione tedesca di Klagenfurt dove lei viveva una tranquilla esistenza piccolo borghese con due fratelli, il padre insegnante, la madre casalinga. Aveva appena dodici anni e la percezione dei soldati che marciavano in strada oltre la finestra frettolosamente chiusa, non fu quella di un’avanzata nel territorio ma di un calpestamento dei corpi. Il massacro di un mondo.
La Bachman sospinta verso la scrittura e lo studio da questo sbilanciamento del proprio equilibrio, divenne ben presto una stella della letteratura in lingua tedesca, inserendosi nel Gruppo 47 e ricevendo premi e riconoscimenti. Ebbe modo di conoscere, tra gli altri Celan, anch’egli profondamente segnato dalla guerra, dall’esperienza dei campi di concentramento nei quali aveva perso entrambi i genitori. Con Celan la Bachman intrattenne un rapporto sentimentale ed epistolare negli anni intorno al 1948.
Io credo che nella poesia che propongo oggi ci sia tutta la potenza cupa della Bachman, la tensione drammatica di un’anima tormentata. Specialmente l’esordio del testo contenente un richiamo alla morte così pesante e brutale è di profonda desolazione. Tutto è morto dentro e fuori, senza rimedio, senza salvezza. Le successive strofe alternano la descrizione di oggetti della quotidianità corrotti dal marcio o dall’espropriazione, il torsolo ammuffito nel portapane d’argento, il letto occupato da estranei, quel letto nel cui materasso è ancora nascosto e fruscia il foglietto sul quale è trascritto il segreto. Non so perché mi piace immaginarlo tenero, come un primo amore, delicato e rosa, come un’alba. Ci sono i piatti dove invece delle pietanze si trova la corda che lega. Tutta la memoria conservata rovina il qui e l’ora li rende inesistenti, senza speranza. Di tutta la poesia è soprattutto la chiusa che coinvolge e sconvolge. Essa è chiaramente un atto di accusa, contro gli uomini che uccidono, contro gli assassini che versano il sangue di altri uomini. L’orrore del molto sangue versato.
Non può dirsi se la Bachman con questa poesia abbia inteso esprimersi per metafore e riferirsi alla vicenda della deportazione e delle molteplici uccisioni che la guerra e i campi di concentramento hanno determinato oppure se avesse in mente una specifica uccisione che ha devastato la sua vita, molto probabilmente i riferimenti si sovrappongono essendo l’uno dentro l’altro, enorme il primo e sconvolgente per la sua vastità, altrettanto enorme e sconvolgente il singolo assassinio per l’eco nell’animo della poetessa. Certo che non potrebbe esprimere con più dolore ciò che ha da dire, creando con la penultima strofa quello squarcio di luce che illumina rosso sangue la scena nel modo più inaspettato e perciò conturbante. Nella lampada, nella luce, /allora accendo e voglio dire: Questi due versi prodromici del finale si potrebbero dire un gran colpo di teatro, se non fossi quasi certa che questa, come tutte le poesie veramente poesie, non è nata per costruzione ma per impeto, ispirazione e padronanza perfetta della parola.
Non poteva mancare tra le mie perle poetiche una così chiara dichiarazione di dolore infinito, senza consolazione, quel dolore che quasi ognuno, ciascuno per una sua personale ragione, si porta dentro, e un poeta non tanto con più forza, bensì con maggiore consapevolezza che occorre pronunciare all’infinito le parole che possano descriverlo nel modo più efficace possibile, un poeta con la grande consapevolezza che la parola ha la potenzialità per esprimerlo, ma non riesce mai a sufficienza a contenerlo, rappresentarlo, trasmetterlo, da ciò deriva la serie continua di tentativi che costituiscono poi il “corpo” del poeta stesso, cioè tutta intera la sua anima, tranne quel fondo inenarrabile di sconvolgente che egli porta con se, in nuce, dapprima nella vita come bagaglio/peso e poi, una volta morto, come corredo/accredito, se mai esiste un’aldilà.
Per l’idea visiva di distruzione, rovina e sgomento non posso far ricorso se non al celeberrimo Guernica, col quale anche Picasso cercò di rappresentare il caos doloroso della guerra, l’atto di terrorismo perpetrato contro la popolazione inerme che bene mi sembra si sposi all’agonia spirituale di Ingeborg Bachman.
Loredana Semantica
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