Da tempo, forse per una sorta di suggestiva deformazione professionale, vedo il libro – in particolare la silloge di poesia – come la materializzazione del tempio greco: la copertina è simbolo del pronao; pertanto la relazione che intercorre tra il titolo e l’immagine non è tanto malia sul lettore eventuale, quanto indicazione, presentazione, elementi che suggeriscono a livello immaginativo l’interno, il naos dove è collocata la statua del dio. Presenza oppure no dell’immagine, colore, titolo sono – in molti casi – suggerimento di ciò che si tratterà nelle pagine: che sia vicenda, rito o liturgia il corpo di un libro è quanto l’autore officia derivandolo dal Sé in rapporto con l’Io in una dinamica che M. Heidegger così connota «(…) La parola del poeta non è mai la sua propria parola e non è mai sua proprietà. Il poeta ha capito che solo la parola fa sì che una cosa appaia, e sia pertanto presente, come quella cosa che è. La parola poetante nomina qualcosa che va oltre il poeta e lo spinge in un’appartenenza che non ha stabilito egli stesso, un’appartenenza che può solo accettare. La parola del poeta, e quel che in tale parola è poetato, superano, poetando, il poeta e il suo dire. Quando attribuiamo alla poesia questo carattere, ci limitiamo sempre alla poesia essenziale. Essa soltanto compone poeticamente cose iniziali, essa soltanto svincola cose originarie in vista del loro proprio avvento. L’arte – di cui fa parte anche la poesia – è sorella della filosofia. Ma solo la poesia è la custode privilegiata della verità dell’essere. (…) La natura poetica del pensiero è ancora avvolta nell’ombra. Ora essa si manifesta, assomiglia per lungo tempo all’utopia di un intelletto semipoetico. Ma il poetare pensante è, in verità, la topologia dell’essere.» I masticatori di stagnola di Guglielmo Aprile, LietoColle, 2018 si pone nella luce sopracitata: assertivo e incidente il titolo, l’immagine dichiarante il gesto in atto e dunque inconcluso, che non si può non avvertire che la loro coniugazione ci prospetta che quanto avverrà all’interno è il rito dello sforzo vano, la fatica di Sisifo. Nelle tre sezioni – Il mozzo che gira a vuoto, Costeggiando le secche della Grande Sirte, La gabbia di Faraday – l’autore costruisce la poetica di una ragione oscura, ottusamente cruda, che si avvale di velami per affermare il suo moto perpetuo investito dall’assurdo, che non di rado declina il grottesco e quasi sempre l’isolamento, l’impotenza di raggiungere l’intenzione originaria: «c’è un pianoforte sulla luna / che non sa nulla /delle nostre dita unte.» dove i tre versi che concludono la poesia alla pagina 14 della prima sezione, staccati dalla prima stanza, evocano l’aridità di ogni cura verso le questioni dell’essere che non sono mera quotidianità, ma faccenda ontologica, postura individuale e sociale.
Guglielmo Aprile si situa nel piano della poesia fortemente sostenuta dal pensiero in quanto non sono solo i problemi dell’essere a interessare il poeta, ma anche quelli della conoscenza: I masticatori di stagnola è libro sul quale è lecito porsi la domanda se ci si trovi davanti a “poesia filosofica”, e tale definizione, tale ossimoro non devono stupire poiché la querelle esiste: è antica, se già Mario Rapisardi dedica un saggio alla questione licenziandolo in data 2 marzo 1898, e Friedrich Schiller nell’ultimo ventennio del 1700 compone poesie di tale altezza polisemica da esservi chiara la costanza del logos sia nei modi della poesia, sia nei modi della filosofia, tanto da essere presto considerate “filosofiche”; è ancora più antica indagando i nostri grandi poeti classici fino a raggiungere Lucrezio e certi lirici greci, e al tempo stesso è contemporanea dato che nel 2007 vi fu presso l’Università degli Studi di Milano il Convegno interdisciplinare i cui contributi sono raccolti negli atti del convegno proprio sotto il titolo La poesia filosofica a cura di Alessandro Costazza. Il binomio “poesia filosofica” non è dunque da intendersi quale etichetta riduttiva, ma quale osservazione sulla pregnanza di una costituzione che attiene principalmente non tanto al «pensiero del cuore» – per usare una espressione di J. Hillman – quanto alla materia che preme a livello concettuale, ciò che transita come rimosso e problematizza, urge trovare collocazione e risposta a livello di coscienza tanto da inaugurare la parola che si mostri autentica, spregiudicata e, in tal modo, generare il turbamento necessario a interrogarsi sulla natura della condizione umana, liberamente, senza interferenze di ordine etico: la triade delle sezioni sembra infatti situarsi nel quadro del teorema in cui la dimostrazione segue le tappe di tesi antitesi sintesi. In effetti, ne Il mozzo che gira a vuoto, l’autore avvia la dimostrazione dello sforzo vano, con una serie di testi che esprimono la tesi «il primo regno di chi nasce / è piangere, la morte ha inizio / appena l’ossigeno affonda la sua vampa rabbiosa / nel cigno dell’imene.» p. 15; «Ruotano i cieli, senza scopo, come / fanno le auto la domenica / intorno ai marciapiedi già occupati.» p. 17; «… l’acqua / che versiamo una brocca dopo l’altra / non riempie la vasca …» p. 23.
Costeggiando le secche della Grande Sirte, antitesi alla tesi della sezione precedente, presenta il tentativo di individuare la possibilità dell’incontro dell’io con il tu affinché si realizzi il noi: sforzo che resta inesaudito poiché «Non ho imparato a vivere, / a pilotare tricicli di barbiturici, / a cucire bandiere di sassi, / a dipanare un filo di ferro / per orientarmi nella pioggia e uscire dalla grotta…»: laddove è necessario il compromesso o l’avvento della mediazione, le determinazioni strutturali della psiche non possono accogliere ciò che contrasta con la natura di esse: non può generarsi relazione quando la percezione che il mondo sia «anchilosato» e i suoi riti «sotto secoli di nebbia» producono il ritrarsi entro le fortezze, le «cavità riparate» dell’estraneità e sopra tutto domina la «causa prima»: «bisogna non soffrire di vertigine / per guardare dritto negli occhi un uomo.». Tuttavia, se l’orizzonte raggiungibile resta tentativo vano, l’orizzonte visibile resta nel campo dell’esistenza come in «Cambiare è l’essenza di ogni isola, / fino a che non ti scrolli / la brina dai capelli, / non infrangerai la placenta, / non spezzerai l’incantesimo amniotico / che uniforma il disegno delle vene / a una roccia di sonno…» che introduce, quasi breccia entro altezze di fortificazioni, all’ultima sezione La gabbia di Faraday, la sintesi, ovvero il raggiungimento di un qualche congruo, ergonomico modus vivendi: «antidoti contro una frana», «… le leggi del galleggiamento», «Non pensarci, fingersi in mezzo a un mare…» mentre su tutta la silloge aleggia il “nulla” leopardiano che trova in «siamo nulla che fa ritorno al nulla» la forma della poesia dimostrando, nella struttura del contenuto, le appartenenze alla filosofia, consegnando pensiero al lettore, come accade quando la poesia è tale.
Adriana Gloria Marigo
Luino, 21 gennaio 2019
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