Vorremmo conoscere qualcosa di più sul mestiere (o professione?) del traduttore, su questo “tradire” per “restituire” in altra lingua dall’originaria un testo che spesso è scelto per affinità: il contenuto, la forma, il significante esercitano sicuramente nel traduttore una fascinazione per la quale si sceglie di trasferire in altra lingua la bellezza percepita nel testo originario. Ci rivolgiamo al poeta Silvio Raffo, traduttore dall’inglese in lingua italiana di poetesse anglo–americane, in particolare di Emily Dickinson di cui è il maggiore studioso.
- Silvio Raffo, grazie di aver accolto il nostro invito. I lettori del blog “Limina Mundi” sono interessati a conoscere il lavoro del traduttore; tu, però, sei anche poeta, scrittore, saggista, collabori inoltre a riviste specialistiche di poesia e hai curato le opere di poetesse italiane dimenticate portando a nuova luce Sibilla Aleramo, Amalia Guglielminetti, Ada Negri: ci illustri la tua formazione, il percorso, l’evoluzione, la scelta di tradurre i libri degli altri e perché la preferenza della lingua inglese, in particolare la poesia delle poetesse?
Ho iniziato a tradurre poesia per puro diletto, diciamo per amore. Sentivo il bisogno di ricreare in italiano i testi dei miei poeti preferiti per correggere i difetti delle traduzioni che conoscevo, in molti casi aridamente letterali o pomposamente enfatiche (specie per i grandi dell’Ottocento). L’inglese è sempre stata la mia lingua prediletta, una sorta di lingua interiore, come del resto il greco. Il colpo di fulmine si è verificato con Emily Dickinson, di cui a 14 anni lessi sull’antologia To make a prairie it takes a clover and one bee. Fra i 14 e i 17 anni tradussi circa un centinaio di liriche su un quadernetto. Era soprattutto un modo di rimediare alla solitudine. Le altre poetesse sono tutte sue sorelle minori. Sono state sempre delle ‘relazioni’ oltre che delle traduzioni. Amori ultraterreni con amate invisibili. Solo nella maturità, verso i cinquant’anni, ho accolto nel mio harem anche figure maschili: Philip Larkin, Branwell Bronte, Alfred Douglas. Si trattava sempre di soggetti solitari, sradicati, incompresi o, per usare un termine abusato, “diversi”.
- Padronanza della lingua madre e della lingua da tradurre; fini conoscenze tecniche nell’ordine della parola, della grammatica, della sintassi; sensibilità inventiva e poetica sono le caratteristiche fondamentali che occorre possedere per la traduzione: tuttavia non è difficile pensare che il traduttore sia anche autore, sia corredato di un esprit de finesse indispensabile al buon esito dell’opera.
Sono convinto che per tradurre bene poesia occorra essere poeti. È proprio l’esprit de finesse che non può mancare, la sintonia profonda di due anime poetiche anche tecnicamente affini. Non potrei mai tradurre autori non melodici o perlomeno caratterizzati da una riconoscibile musicalità. Da Adelphi mi fu proposto Derek Walcott e rifiutai. Quando il traduttore è un poeta, il risultato è una ri-creazione vitale del modello di partenza, cui si mantiene fedele per metri, ritmi e spesso anche rime: traduzione e al tempo stesso opera autonoma, vivente di vita propria. E può talvolta accadere che una traduzione–miracolo, incredibile ma non impossibile, sia poeticamente più convincente dell’originale.
- Intorno alla figura del traduttore esiste un luogo comune: la “solitudine del traduttore”. È solo un retaggio romantico o realmente è condizione necessaria o, forse, acquisita nelle lunghe ore a contatto con “i libri degli altri”, i dizionari, l’ascolto del suono delle parole nella lingua originaria e in quella finale?
È condizione a mio avviso necessaria.
- Ancora: quanto è importante l’incontro con altri traduttori, il confrontarsi con altre esperienze, il viaggio, la conoscenza diretta con un autore per il quale si nutre un sentimento di ammirazione, una specchiatura derivante dall’uso della parola, dai contenuti dei testi?
Raramente, direi quasi mai, mi sono confrontato con altri traduttori. Solo quando ho lavorato su testi in spagnolo e francese ho tenuto conto di versioni altrui, sempre discostandomene, alla dovuta distanza. Piuttosto ho chiesto consigli nel corso di un lavoro di traduzione a persone della cui autorità mi fidavo, come ad esempio per la Dickinson a Margherita Guidacci.
- È corretto pensare che, riguardo al linguaggio, l’esperienza della traduzione «insieme al tempo che scorre, forma degli strati nella nostra lingua madre, e inevitabilmente le parole che usiamo sono sempre nostre», come dichiara la traduttrice Gioia Guerzoni?
Le parole, si, sono sempre nostre.
- Quanto è importante la fedeltà al testo? È pensabile, accettabile l’idea di fare la sovrapposizione della lingua finale a quella iniziale? Oppure la lingua, ogni lingua, ha una struttura psichica che non consente il calco e, pertanto, l’invenzione è non solo naturale, ma addirittura auspicabile come atto del pensiero immaginale, soprattutto nei luoghi della poesia?
Come ci insegna la psicolinguistica, disciplina che ho insegnato per anni ai traduttori e interpreti, ogni lingua ha una sua specifica struttura psichica (come un suo specifico effetto fonetico) che non consente calchi. Certo è compito del traduttore trovare combinazioni il più possibile simili a quelle del testo originale. Se Edgar Allan Poe usa fonemi dal suono e dall’effetto lugubri per rendere una determinata situazione psichica, il traduttore dovrà cercare di fare altrettanto nella sua lingua. Se Verlaine nella sua Chanson d’Automne usa i fonemi «sanglots longs», il traduttore preferirà in italiano il vocabolo ‘singulto’ a ‘singhiozzo’ per riprodurre l’effetto della liquidità strangolata.
- Ne deriva che la traduzione presenta sempre un problema, poiché si va a compiere non solo la versione della psiche di una lingua nella psiche di un’altra lingua, ma anche la versione della psiche dell’autore nella psiche del traduttore, il quale viene a trovarsi nella posizione di decifratore del mondo logico– immaginifico dell’autore senza mai raggiungerne gli abissi, testimoniando invece che sussistono, imprendibili, gli «arcani più segreti del meraviglioso fenomeno della parola» (José Ortega y Gasset, Miseria e splendore della traduzione)
Sì, certo, è un gioco di interazione osmotica. Non si può compiere senza una comunicazione intrapsichica.
- Inoltre: esiste un “talento”, una disposizione innata al linguaggio per cui il traduttore avvicina la parola dell’autore in una sorta di invisibilità in modo da non far percepire la propria abilità linguistica?
Il talento è qualità indispensabile, condicio sine qua non.
- Ritieni appropriata anche a te l’espressione del traduttore messicano Hiram Barrios «Costruiamo ponti» da cui si deduce che il traduttore si pone in una relazione etica, da mediatore culturale, per cui la traduzione è non solo rendere al lettore l’ambiente vibrante l’anima del testo, ma anche l’avvicinare culture e saperi differenti, prospettare scambi culturali, incontri di intelletti?
Sottoscrivo alla lettera: il traduttore è mediatore culturale.

Silvio Raffo
Biobibliografia
Silvio Raffo, nato a Roma, vive e insegna a Varese. Traduttore di una dozzina di poeti angloamericani, autore di romanzi e più di dieci raccolte di poesia, dirige a Varese il centro di cultura “La Piccola Fenice”. Ha vinto numerosi premi di prestigio, fra cui il Gozzano, il Cardarelli, il Montale e il Valdicomino. Dal suo romanzo La voce della pietra, Elliot Edizioni, 2018 è stato tratto il film omonimo di produzione americana. Ultime opere: il romanzo Gli angeli della casa, Elliot Edizioni, 2021, la silloge poetica Il taccuino del recluso, Interno Poesia, 2021, la traduzione di una scelta dei “Bollettini dell’Immortalità” di E. Dickinson Natura la più dolce delle madri, Elliot Edizioni, 2021. È autore dell’antologia di poesia italiana del Novecento Muse del disincanto, Castelvecchi, 2019
da Natura la più dolce delle madri
12
The morns are meeker than they were –
The nuts are getting brown –
The berry’s cheek is plumper –
The Rose is out of town.
The Maple wears a gayer scarf –
The field a scarlet gown –
Lest I sh’ d be old fashioned
I’ll put a trinket on.
12
Si son fatte più miti le mattine –
son diventate più scure le noci –
e le bacche hanno un viso più rotondo –
la Rosa ha abbandonato la città.
L’Acero indossa una sciarpa più gaia,
e la campagna una gonna scarlatta.
Per non esser fuori moda
indosserò un gioiello.
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