Mi parlarono le onde
Risuonano tra le onde eco disperse di
altre voci, di uomini
vissuti in altre età, boati e gemiti di
Atlantidi dimenticate, il rombo di
uragani e naufragi
anche se per la distanza smorzato si
prolunga nel rantolo
della risacca che cresce dal largo
e che parla alla spiaggia, e le confessa il
remoto martirio di qualcuno
che si annegò, e di cui si ignora il nome; e
brandelli riemergono
di rotoli e di codici, in un vortice
di spume, avvolti dalle alghe, cocci
alla rinfusa, formule sbiadite
da acqua e sale, di rune e di saghe,
e tavole ma infrante tra gli scogli
e pagine di silice ma in pezzi
con sopra incise e quasi cancellate
le prime leggi e stralci del racconto
di come ebbe origine il mondo;
e sull’acqua prendono forma a volte
i tratti di quello che sembra un volto.
Mare, di fronte a te, sulle tue sponde
a lungo siedo, da solo, in ascolto.
Soglia
Il mare piange un figlio mai tornato:
ascolta, invoca un nome
e lo ripete a vuoto
fino allo sfinimento, tante volte
quante le onde che fanno al suo grido
una ironica eco,
e andare in cerca sembra
anche se esausto, in una via deserta, da
solo e scalzo, sotto il temporale, di
qualcuno, chiamandolo
a piena voce: implorante orfeo
di un volto che le ombre reclamarono,
troppo presto rapito
da un Averno che ha lungo la battigia la
sua soglia vorace.
Rapsodia marina
Le galassie raccontano
alle conchiglie il proprio lungo viaggio;
e lui, il mare, raccoglie e poi disperde
l’eco di quella lunga confessione:
dissipa sillabe d’alghe e di schizzi
sopra la pergamena delle spiagge,
senza posa versifica
perduti amori e la storia del mondo
e quella del gigante senza nome
che espia una certa colpa
da quando in tufo si mutò il suo corpo, in
sbraccianti scogliere;
mare, ossesso in catene
che sbraita e strepita, voce straniera
che innalza la propria preghiera
e le distanze scavalca e le ere.
“Ama celarsi, parla per enigmi…”
Metamorfico mare, ha molte maschere
ma una sola anima: suo è il dono
di mutare, di assumere
qualunque profilo, a capriccio,
quando l’onda disegna sulla riva
ora un cavallo, o un’idra, o una fanciulla,
ma sempre confonde i suoi esegeti
e dei loro pronostici si beffa,
e il suo vero volto non mostra
a chi si affacci sul suo specchio; mare, a
ogni nostro bussare il tuo silenzio è la
sola risposta.
L’azzurro rotolo della sapienza
Quanto per te è dio, per me è il mare;
è il gelsomino che soffoca quasi
chi il suo alito esali, tanto è dolce,
ed è il fabbro operoso delle ere
che lascia su costoni e rupi traccia
della sua mano d’acque e venti e lave,
è il fremito che percorre il fogliame
ed è il boato che stacca le frane,
il ronzio in mezzo agli steli dell’ape
e l’eco montante delle risacche,
la chiocciola che su un tronco o su un muro
impercettibile all’occhio risale,
la lunghissima marcia dei ghiacciai
che il calcare scavò con la sua unghia
tracciando corridoi, gole dai fianchi
a precipizio invase poi dai laghi,
le piste che i capodogli tramandano
alla ricerca di plancton ogni anno
sulle mappe delle correnti oceaniche,
le orbite che gli infuocati globi
attraverso distanze buie battono;
è come una colorata voragine
che sul proprio orlo srotola una danza
di corpi che un solo brivido infiamma,
è quel trasalimento dello sguardo
che allo scoccare del fulmine segue
o quando spiega il suo incendio il tramonto e
allestisce la sua coreografia
fastosa drappeggiando con le nuvole
vascelli in fiamme; è la prima fonte
di meraviglia e di angoscia di fronte
ad ogni epifania dell’esistenza,
è la terribile magnificenza
che non si sa come chiamare, e a cui tu
dai nome di dio, io di mare.
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