Ci sono letture più sfidanti di altre. Non solo da intendere come lettura del testo, riga dopo riga, fino alla sua fine, ma anche nel riferirne impressioni da lettore. L’opera Rethorica Novissima di Gualberto Alvino è tra queste. Si tratta di una raccolta di poesie, pubblicata nel 2021 dalla Casa editrice “Il ramo e la foglia”. Uno scritto che non lascia indifferenti. Impegnativo sarebbe aggettivo adatto, ma non sufficiente per chiarirne corpo e complessità.
In premessa occorre dire che Gualberto Alvino è noto e stimato filologo e critico letterario. Già per solo questo fatto, è presuntuoso pensare di penetrare pienamente il senso poetico del suo degnissimo lavoro, questo tuttavia sembrerebbe più un libro destinato agli “studiosi di poesia” che agli “amanti della poesia”. Non per niente in fine è riservata una pagina bianca per le note.
L’opera di Alvino già dal titolo presenta un’inclinazione decisamente colta. “Rethorica” con slittamento della muta nel cuore, piuttosto che con l’ortografia “Rhetorica”, è un chiamare in causa la retorica, cioè, insieme a grammatica e dialettica, una delle discipline d’insegnamento cardine delle scuole antiche medievali. Le origini di questa parola, già presente presso i latini, risale alla civiltà greca e alla sua ῥητορική, tecnica della parola, dalla radice del verbo εἴρω, eírō dico. L’aggettivo “novissima” superlativo dell’aggettivo latino novus declinato al femminile singolare concorda con la parola retorica e non può non riportare alla mente “i Novissimi”, Alfredo Giuliani, gli anni sessanta e lo sforzo delle neoavanguardie di rigenerazione del linguaggio poetico. L’opera s’intitola quindi Retorica nuovissima. Il titolo introduce al contenuto non meno della citazione di Proust posta al principio dell’opera riguardo alla necessità dello scrittore di farsi una propria lingua, similmente al violinista col suono.
“Rethorica novissima” è quadripartita ed ogni partizione raccoglie i testi secondo caratteristiche eminentemente formali espressive, raggruppate da un minimo di 4 componimenti – “Epigrammi” – ad un massimo di 12 componimenti di “Salvo trasgredir norma”.
Quest’ultima, prima e più sostanziosa sezione, probabilmente è il canto a cui giunge il poeta seguendo il filo degli intenti dichiarati. Più oltre invece sembra che egli esponga il necessario attraversamento – deragliamento per giungere alla propria voce. Il titolo della prima sezione è, ritengo, la dichiarazione consapevole di contrapporsi al canone.
Aliena dal lirismo coltivato da secoli nella poesia, la poesia di Alvino si presenta in controtendenza rispetto al “poetichese” dominante, lo squalificato linguaggio poetico del nostro tempo intriso di sentimentalismi, farcito d’ego, con pretese di liricità, ma più spesso sconsolatamene privo di qualunque barlume di grazia poetica, ripetitivo, noioso, artefatto. L’autore nell’esacalogo per aspiranti poeti precisa “cos’è sbagliato in poesia”. Sono indicazioni che esprimono una critica al modo di far poesia oggi e che lette a contrariis verbis indicano gli elementi innovativi da introdurre nel linguaggio. Obiettivi:
• svincolarsi dalle connotazioni spirituali-auliche-vaticinanti
• sconfessare un ruolo sacro del testo
• eliminare parossismi e verticalizzazione del dettato, concedendo spazio ad asprezze sonore
• spogliarsi dall’enfasi autocelebrativa
• disporre accapo ad arte anche spiazzanti.
L’operazione di creare un proprio suono/lingua, può dirsi riuscita, ma non immediatamente percepibile. Le poesie infatti non poggiano volutamente il proprio dettato sull’”accattivante” del linguaggio: musicalità, nenia, refrain, paronomasia, assonanze ecc. e si delineano con le connotazioni dichiarate nei punti sopra riportati, per cui i tempi e suoni all’orecchio giungono asincroni e dissonanti.
Riporto la seconda parte della poesia il cui titolo è lo stesso dell’intera raccolta.
“è indispensabile una conoscenza dell’evoluzione semantica
i vocaboli diventano specifici quando si applicano
termini generici a oggetti individuali resta il fatto
inoppugnabile che il significato di una parola
è indipendente dal suo etimo inutile dire
ci aiuta a conoscere la sapienza questo sì
e la poesia celata nelle radici nelle desinenze
a cercare nelle lingue i monumenti
degli abiti remoti e delle credenze
il criterio per distinguere i vocaboli affini
le variazioni di suono e senso
son cosa capitale a conoscere
oh se potessimo scordare le origini tutte”
Singolare leggere lo stesso passo disposto sul foglio come prosa.
“è indispensabile una conoscenza dell’evoluzione semantica i vocaboli diventano specifici quando si applicano termini generici a oggetti individuali resta il fatto inoppugnabile che il significato di una parola è indipendente dal suo etimo inutile dire ci aiuta a conoscere la sapienza questo sì e la poesia celata nelle radici nelle desinenze a cercare nelle lingue i monumenti degli abiti remoti e delle credenze il criterio per distinguere i vocaboli affini le variazioni di suono e senso son cosa capitale a conoscere oh se potessimo scordare le origini tutte”
Si evidenzia maggiormente che gli accapo sono risultato di una scelta stilistica che mira a frangere il testo, costringendo il lettore a riprendere fiato in modo non consueto, non punteggiato, sfumano i disseminati enjambement spiazzanti. Mi tornano alla mente le esperienze di lettura passate dei testi di Eminia Passannanti e Marco Saya, animati da analoghi intendimenti antilirici, la prima per volere di contrasto alla “poesia dell’anima”. Il secondo per l’orecchio allenato alle sonorità del jazz.
La poesia della raccolta mantiene quanto promette: eminentemente antimelodica, non indulge in sentimentalismi, non conduce alcuna indagine psicologica, nessun scadimento confessionale o incursioni nell’intimismo, non è poesia emozionale come la s’intende spesso ed erroneamente da poeti giovani e meno giovani che animano l’attuale scena letteraria, non si specchia narcisisticamente, non si affligge, non si esalta, non piange, semmai osserva, ricorda, riporta, analizza, squarta. Sperimenta e scarta.
Proseguendo la lettura di “Rethorica novissima”, passando per “Epigrammi” – quattro distillati critico satirici – si giunge alla parte intitolata ”Humanitas”. Qui ci si rende conto che, senza un minimo di studi classici, la lettura si complica, la successione delle poesie, per quanto preminentemente descrittive e scientifiche, decisamente mitraglia la comprensione di chi non ha frequentato Catullo o Cicerone nella lingua originale. Il contenuto è talvolta scabroso, vestirlo di latino non maschera la minuzia dei vestiboli. Approfondisce il senso nella carne, non risparmiando genitali di entrambi i sessi. Sarebbe già sufficiente per qualunque stomaco poetico reggere tanta corporea ostentazione “fisica” e culturale, nel senso che qualunque lettore – o meglio il lettore qualunque – che non sia stato già scoraggiato in precedenza dalla scelta di preferire il latino lo sarebbe adesso per il vestito di perbenismo che molti indossano e del quale non riescono a spogliarsi, se non facendosi violenza. Questi testi raccontano gli organi, i corpi, le porzioni, i vasi, gli arti, essi vengono sezionati come avviene sul tavolo di un esaltato anatomopatologo, come fa Leonardo da Vinci per la conoscenza propria e altrui in preda alla furia di scienziato. Stare chini su ossa e legamenti, liquori e liquami e dire quello che avviene, taglio e ritrazione. Effetti dissoluzioni.
I più probabilmente preferiscono provare tali livelli di emozioni nel genere strappalacrime oppure applicati a youporn o ai film horror. E’ in una parola una lettura “sconvolgente”. C’è da ammettere che dalla poesia, ritenuta dai profani deputata a esprimere emozioni, da meno profani a provocare emozioni, dire (in) poesia qualcosa che riesce a provocare questa risposta ir-razionale è un risultato eccellente.
Metaforicamente, anzi per similitudine, “Humanitas” racconta ciò che avviene con i testi, quando si studiano approfonditamente, quando la filologia o la semantica si applicano a tutte le a, e, i, o, u delle parole. Scarnificandole fino al midollo, cercandone l’etimo e la radice, riconoscendone desinenza e origine. Senso, segno, significato, grafema. Misurando tutte le possibili “geografie” del suono. Affettando consonanti, lemmi, la loro polpa, il fegato, estraendo i loro denti.

“Autopsia”, Enrique Simonet, 1987, noto anche col titolo “Aveva un cuore!”
Infine c’è la quarta sezione “Varianti formali”. In questa parte della “Rethorica novissima” il linguaggio, come comunemente inteso, è stravolto. L’operazione di “interpretazione”, è messa continuamente in scacco, ancor più di quanto non avvenga in precedenza, e il lettore si arrende all’evidenza, che la parola espressa non può essere compresa come avviene solitamente nella comunicazione. Incomunicabilità e rescissione, dissoluzione e frammentazione sono coordinate del “sorvegliatissimo” testo. La lettura deve avvenire accantonando i normali strumenti di decodificazione del linguaggio parlato e scritto. Gli occhi singhiozzano tra le sconnessioni sintattiche, i salti, le obliterazioni, il verso crolla alla sua fine, il senso affonda appresso, è un groviglio caotico. Al contempo questo magma verbale si intuisce essere come il brodo da cui, per sgrammaticature, segni grafici, numeri, caratteri corsivi, richiami tecnologici e rovi si perviene a estrarre il neonato, appena prima che venga gettato insieme all’acqua sporca, vestito d’amnio, quando non sguazzante nel meconio, senza nessuna camicia. Dentro la lingua, fino al suo cuore, come una dannazione pervicace e disperata insieme.
Perché se è vero che “la poesia può comunicare ancora prima di essere compresa” (Thomas Stearn Elliot), allora sembra di leggere qualcosa espressa dalla mente di qualcuno reso folle. Folle d’amore per la parola.
“non saprei ma sia chiaro fin d’ora
che lo sconfinato amore per la lingua
rivendico il diritto d’affermare
in piena scienza e coscienza
è il primo movimento d’un percorso
florebat olim
a raggiera in mille direzioni
che ne sarà del ciliegio?”
da “Pepe” in “Varianti formali”
Eppure nell’atto dello scrivere – non meno del leggere – non si può non riconoscere con Giorgio Caproni che” Nessuno è mai riuscito a dire/cos’è, nella sua essenza, una rosa” senza con ciò intendere che si debba desistere dal tentativo, anzi tutt’altro, e ciò finché permangono l’incanto, il bisogno, l’osservazione, le percezioni, lo stupore, gli interrogativi. L’ esperienza individuale, il personale orizzonte esistenziale proiettano necessariamente nell’espressione poetica la propria “visione” della lingua (che dice) del mondo. “Io vedo il mondo come un caos e nel centro una rosa” (Julio Cortazar). Nonostante il lucido controllo del dettato, emerge dal conato del dire il parossismo che pervade, se non il singolo testo, comunque nell’insieme un’opera, che, in quanto autenticamente poetica, tenta con ogni mezzo verbale l’impossibile. D’altra parte come non pensare a quanto diceva di sé Pablo Picasso “A quattro anni dipingevo come Raffaello, poi ho impiegato una vita per imparare a dipingere come un bambino”.
Deliziosa la dedica iniziale. La piccola pasta di zucchero, con apposizione felice, ne sarà lieta. La benedizione degli affetti, uno spaccato di tenerezza.
L’ha ripubblicato su Di poche foglie.
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Grazie
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L’ha ripubblicato su antonella pizzo letture e scritture.
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Articolo più che interessante per la profonda lettura critica di un testo/autore che si pone , mi pare, tra la poesia attuale e un nuova anatomia del verso, della parola e della stessa poesia con indiscutibili capacità tecniche.
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