
Per Una vita in scrittura ho rivolto l’invito a Davide Morelli, che l’ha interpretato come segue.
Grazie Davide.
Perché ho iniziato a scrivere? Ho iniziato tardi e qualcuno penserà pure, a ragione, che si vede. Avevo 20 anni. Avevo conosciuto una ragazza all’occupazione della facoltà di psicologia di Padova. Erano sere colorate dal vino e in cui era facile fare amicizia. Ero pieno di amicizie allora. Lei mi sembrava la ragazza giusta. Era figlia di due poeti. Iniziai a scriverle lettere (la cosa oggi sembra alquanto strana perché non si usa più). Poi le scrissi delle canzonette. Erano cose scritte per conquistarla. Le piaceva ciò che scrivevo, mi incoraggiava a scrivere, ma non ottenni il risultato sperato. In realtà mi disse no. Lei voleva essere lasciata libera. Tempo dopo pensai che mi avesse addirittura preso in giro. Ne ero innamorato e fu una delusione sentimentale cocente. Ci perdemmo di vista. Continuai a scrivere per sfogo e per diletto. Qualcuno potrebbe obiettare che ho iniziato a scrivere per futili motivi e avrebbe ragione. Di solito i grandi poeti e i grandi scrittori adducono motivi molto più nobili e più edificanti. Avevo anche un mio amico, mio coinquilino, che fu il mio unico lettore per anni. Poi le nostre strade si separarono, lui addirittura morì poco più che trentenne (appresi la notizia facendo surfing, ovvero ricerche su Google su di lui). Per anni annotai i miei componimenti poetici in quaderni, che mi portavo quasi sempre dietro in uno zaino, che mi sembrava così prezioso e importante. A onor del vero non lo era per le patrie lettere: le mie poesiole giovanili oggi so con certezza che non passeranno alla storia. Avevo sempre paura che mi sfuggissero dalla mente le mie piccole intuizioni. Così correvo subito a scriverle per non dimenticarle. Le mie poche lettrici furono allora ragazze a cui nel chiuso di una cameretta con la luce soffusa con la voce un poco impostata declamavo i miei versicoli acerbi, immaturi, forse da liceale. Avevo trovato il trucco: l’importante non era la bellezza dei versi ma il pronunciarli con la giusta enfasi. Allora imparai che la poesia o sedicente tale poteva essere suggestione. Anni dopo con la maturità avrei imparato a mie spese che la poesia è anche una potente autosuggestione. Dopo aver recitato i miei versi a quelle ragazze ricevevo talvolta una gratificazione immediata, come rinforzo positivo ottenevo una notte d’amore (chiamiamola così). D’altronde c’era chi si comprava una bella macchina, chi diventava un ballerino provetto, chi faceva il d.j per conquistare le ragazze. Io invece scrivevo. Erano gli anni ’90 e allora i contenuti contavano ancora un poco, anche se si era sprovvisti di un bell’aspetto: l’immagine non era ancora tutto. Per anni poi scrissi senza alcun riscontro, senza alcun consenso. Quindi mi comprai un PC e iniziai a diffondere i miei scritti nel web. Oggi ho smesso di scrivere poesie o aspiranti tali. Scrivo articoli, aforismi, recensioni, saggi brevi, racconti brevi, riflessioni. Perché scrivo? Cercherò di dare una risposta più sincera possibile, cercando di evitare la vanagloria, il narcisismo, il compiacimento, l’orgoglio smisurato di alcuni artisti. Qualche editor e qualche talent scout dicono che per vedere se una persona può diventare uno scrittore e/o se ha dei margini di miglioramento bisogna chiederle perché scrive. In realtà questa domanda mi coglie alla sprovvista e mi lascia interdetto. Non posso che rispondere in modo caotico, confusionario e improvvisato. Scrivo perché è terapeutico, antidepressivo, riparatorio, catartico, conciliante, consolatorio. Scrivo per esplorare me stesso e per descrivere il mondo attorno. Scrivo per sublimare la mia sessualità, il mio dolore esistenziale, il mio disagio. Scrivo per ascoltare il mio daemon, per non uccidermi, per non uccidere, per non morire, per vivere, per affrontare i miei fantasmi mentali, per divertimento, per rispondere a dei miei interrogativi, per superare le mie crisi, per fare chiarezza dentro di me, per sopravvivere, per non pensare alla morte, per trascenderla. I motivi sono i più svariati, ma non scrivo per fare i soldi perché so che è un compito arduo e oggi, giunto alla cinquantina, anche se volessi “vendermi” intellettualmente, probabilmente nessuno mi comprerebbe. Non scrivo per avere la gloria postuma. L’unica cosa di postumo che conosco per ora sono i postumi di una sbornia (che non posso più permettermi di avere, considerati i miei alti livelli di colesterolo, nonostante assuma delle statine). Talvolta penso che sono solo un piccolo mestierante delle parole e poi mi correggo subito perché il mio non è un lavoro e allora mi dico che sono solo un povero habitué delle parole. Ogni giorno cerco parole, talvolta le trovo, anche se non sempre mi lasciano soddisfatto e spesso non mi sembrano calzanti. Nella mia cittadina nessuno sa che scrivo oramai. Venti anni fa c’era chi ce l’aveva con me e prendeva come pretesto i miei scritti per sostenere che fossi un ritardato mentale. D’altra parte nessuno è profeta in patria. Diciamo che alcuni angoli del web sono diventati la mia seconda patria. Oggi scrivere è un modo anche di rompere la solitudine, per diffondere ciò che penso e ciò che provo, talvolta anche ciò che mi accade. Scrivo anche per dimenticare le cose negative e ricordare quelle positive. Scrivo perché il mio essere si manifesti, anche se talvolta mi accorgo di nascondere delle parti di me nella scrittura. Ma a volte penso che scrivo perché continuo ad associare alla scrittura quella promessa di felicità giovanile, le conquiste amorose, l’incoscienza e i sogni di quegli anni. Oggi è parte preponderante della letteratura la scrittura del trauma, la mia agli inizi è stata invece scrittura che celebrava l’incanto, la bellezza, la vitalità della gioventù. Era scrittura non incantevole, ma era scrittura dell’incanto. Oggi sono disilluso, amareggiato. La mia sensibilità, se esiste ancora, è ferita. In verità oggi su di me è sceso il disincanto. Se dovessi pubblicare un libro avrei un solo amico reale che lo leggerebbe e forse pochi amici virtuali. Oggi sono solo, senza una donna al mio fianco, come si suol dire. La scrittura mi ricorda ciò che è stato, ciò che sono stato. Oggi scrivo con un tablet. Non ho neanche più il Pc perché così risparmio. Ogni giorno è una piccola sfida perché devo scrivere qualcosa. Ogni giorno o quasi mi impongo di scrivere qualcosa. A volte mi sembra di non aver niente da dire, ma prima o poi si affaccia nella mia mente una piccola idea, appena abbozzata, che a poco a poco sviluppo. Elaboro delle tematiche, sviluppo i concetti, approfondisco le questioni. A volte le idee mi vengono dopo aver preso un caffè con la moka, altre volte mentre cammino, altre volte mentre guardo il tramonto o contemplo comunque la natura. Mi fa piacere quando persone a me lontane geograficamente si rispecchiano in ciò che scrivo, anche se non scrivo per i like, per i follower, per pubblicare presso una grande casa editrice. Ma forse scrivere per me è solo un modo di passare il tempo, di mantenere in esercizio la mente, di calmarmi dopo aver incamerato dei malumori. A ogni modo non bisogna mai chiedere troppo alla propria scrittura in termini di qualità e neanche come valvola di sfogo. La scrittura non salva l’anima e talvolta non salva neanche a livello psicologico. A livello economico la scrittura aiuta molto raramente a pagare le tasse, l’affitto, i medici e non aiuta a pagare neanche la spesa. Tondelli in punto di morte con la mano tremante scrisse come ultime parole: “La letteratura non salva. Solo l’amore salva”. Resta un’unica possibilità, ovvero mettere un minimo di amore nella scrittura.
Nota biografica:
Davide Morelli è nato a Pontedera nel 1972. Si è laureato in psicologia. È un ex commerciante. Collabora a testate giornalistiche online, siti letterari, blog culturali. Un tempo le sue poesie sono state pubblicate su literary blog, riviste letterarie, antologie non scolastiche. Non partecipa a premi letterari.
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.