
Maria Grazia Galatà ha rivolto l’invito a Alberto Mori che l’ha interpretato come segue.
Grazie infinite ad Alberto

Nel ricondurre la mia esperienza nella poesia, mi attengo a due momenti di profonda consapevolezza verso me stesso che hanno inciso nella ricerca tuttora perdurante della parola.
Il primo è una auto consacrazione. In una notte dei primi anni ’80, dove una delusione amorosa, mi spinse a dedicare questa mancanza alla poesia al sopraggiungere del giorno. Scrivere divenne la mia condizione per stare al mondo.
Il secondo giunse quando intorno a me avvertii sempre più l’opacità di tutte le cose e stavolta, percepito unitamente al comporre versi:
Nel 1995 avevo scritto il mio unico poema intitolato “Nebbia”.
La poesia ora poteva aspettare. Allora mi chiesi, semplicemente: “Perché non attraversare la strada ed osservare senza immaginare?”.
Era la fine degli anni ’90. Entrai negli ipermercati e via via, con energia concettuale che assorbivo anche dall’arte, dai film, dalle immagini, in tutti i luoghi, o meglio i non luoghi, dove il vivere a contatto con la quotidianità del consumo e della permanenza temporanea (distributori, metrò, fast food, ecc.) generava forme sempre paradossalmente diverse d’interazione con i corpi, lo spazio.
Inziai a cercare segni, ad annotare, fotografare, testimoniare quanto accadeva davanti ai miei occhi. La parola diveniva per me un media verso la poesia. Tutto ciò perdura ancora oggi: vado a cercare quanto trovo di vivente nelle città. Questo per me è fare poesia. In economia essenziale nella parola ed utilizzando suoi linguaggi.
Quanto basta per riuscire ogni giorno ad essere.
Alberto Mori
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