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“Il ritratto ovale”, The Oval Portrait, inizialmente edito con il titolo “Life and Death”, è un racconto breve di Edgar Allan Poe, scritto nel 1842. Il narratore della storia, misteriosamente ferito, si trova a dover forzare l’ingresso di un castello trovato casualmente sugli Appennini insieme al suo valletto. I due vi si introducono per passarvi la notte e scelgono di dormire in una delle tante stanze del castello: una camera della torre, riccamente adornata di quadri e pitture di ogni tipo. Il protagonista resta estasiato dai dipinti che decorano le pareti della stanza e, mentre il domestico si assopisce, comincia a sfogliare un libro, trovato su un cuscino, che descrive la storia di ciascun quadro. Spostando un candelabro per leggere meglio, l’uomo scorge un ritratto ovale, raffigurante il viso di una giovane donna, da cui rimane intensamente colpito. Dopo averlo osservato a lungo, si concentra sulla vitalità espressa dal volto della giovane e decide di conoscerne la storia. Leggendo nel libretto, scopre che la donna era la moglie del pittore stesso il quale aveva deciso di farle un ritratto proprio in una stanza buia e fredda in cima alla torre. La donna si era dimostrata una moglie devota e servizievole, tanto da accettare di posare per lui, nonostante vedesse nell’arte un’acerrima rivale. Qui aveva posato per lunghissime ore per settimane intere, mentre il marito, preso da una sorta di delirio artistico, si era dimenticato di lei, tanto da non accorgersi che via via che il tempo passava la sua salute diventava sempre più cagionevole e lei deperiva, perdendo la sua bellezza e il vigore. Il pittore però, preso dalla sua creazione, aveva continuato a dipingere forsennatamente, senza distogliere lo sguardo dalla tela. Arrivato il momento di dare l’ultima pennellata, aveva osservato il ritratto compiacendosi di quanto vitale apparisse la moglie nel dipinto, accorgendosi solo allora che la donna che aveva di fronte era morta. L’idea centrale del racconto è il rapporto conflittuale tra l’arte e la vita. Nel racconto la dipendenza dall’arte da parte del pittore e la bellezza della donna, infatti, diventano responsabili della morte della giovane sposa. Non va dimenticato anche un altro motivo, il ruolo della donna all’interno della coppia: la donna del ritratto, docile e ubbidiente, sacrifica se stessa sino alla morte per soddisfare il desiderio del marito di ritrarla, infatti, continuava a sorridere senza mai lamentarsi. Senza ombra di dubbio al centro del racconto vi è l’arte che per il pittore è un’esperienza totalizzante, per la giovane sposa un’acerrima nemica che la priva perfino della vita; per l’uomo ferito è salvifica perché l’osservazione dei dipinti offre giovamento dai suoi dolori fisici. Poe ci presenta tutti questi aspetti, senza mai propendere per uno o l’altro. Riportare su tela un viso prima dell’avvento della fotografia, significa sfidare la natura; la ritrattistica, infatti, consiste nel ricreare una copia dell’essere umano. Come molti altri racconti di Poe, anche “Il ritratto ovale” fu tradotto ed edito nel 1855 sul giornale Le Pays da Charles Baudelaire e, verosimilmente, Oscar Wilde ne venne a conoscenza traendone ispirazione per il “Il ritratto di Dorian Gray”. In entrambe le opere si descrive la storia di un ritratto oltre al parallelismo tra arte e vita: come al deperire della giovane donna corrisponde una vitalità sempre più nitida della tela, così al compimento di azioni terribili da parte di Dorian Gray corrisponde un deperimento del suo doppio artistico. In entrambe le vicende, inoltre, ci vengono presentati due pittori talmente affascinati dalla loro opera da non accorgersi di quanto accade alla persona che la ispira: nel ritratto di Dorian Gray, infatti, Basil Hallward idealizza il suo modello sino a quando scopre la verità dopo aver visto in che stato si trovi la sua opera. Solo un dubbio è quello che resta al lettore: il pittore del ritratto ovale era davvero disposto a rinunciare a sua moglie per amore dell’arte e per ottenerne una riproduzione che fosse eterna o era ignaro delle conseguenze del suo delirio? Allo stesso modo, Dorian Gray, dopo aver compreso l’identificazione tra la sua anima e il ritratto, era certo di riuscire a uccidere solo l’uomo del ritratto o sapeva che accoltellando il dipinto avrebbe ucciso anche se stesso?

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Il castello di cui il mio servitore aveva osato forzare l’ingresso, per non farmi trascorrere la notte all’aperto, rischiando così la vita a causa delle gravi ferite che avevo subito, era uno di quegli edifici lugubri e splendidi al tempo stesso che sono stati a lungo una cupa presenza nel cuore degli Appennini. Da quanto si poteva vedere, l’avevano abbandonato di recente, e solo temporaneamente. Ci sistemammo in una torretta isolata, in una delle stanze più piccole e dall’arredamento meno sontuoso, abbellita da decorazioni ricche ma ormai logore. Le pareti tappezzate erano ornate da stemmi e araldi di forma diversa, oltre che da un numero incredibilmente alto di quadri moderni e vivaci, dalle cornici d’oro arabescate. Quei dipinti, appesi anche nelle rientranze create dalla bizzarra architettura del castello, avevano suscitato il mio interesse, forse per via del delirio che mi tormentava. Poiché era già notte, chiesi a Paolo di chiudere le imposte, di accendere le candele del candelabro posto ai piedi del letto e di aprire le tendine di velluto nero, ornate di frange, che avvolgevano il letto stesso. In quel modo, se non fossi riuscito ad addormentarmi avrei potuto distrarmi contemplando le tele e leggendo con attenzione il volumetto che avevo trovato sul cuscino, dove quelle opere d’arte erano descritte e commentate. Lessi e contemplai a lungo, animato da una profonda ammirazione. Le ore volarono, e arrivò mezzanotte. A un tratto spostai il candelabro, girandolo in modo che potesse illuminare meglio il libro, allungando faticosamente il braccio piuttosto di disturbare il domestico che si era già addormentato. Il mio gesto ebbe una conseguenza inaspettata. Le fiamme delle numerose candele rischiaravano ora una nicchia della stanza che fino a quel momento era rimasta oscurata da una colonnina del letto. Scorsi allora un quadro che mi era sfuggito; era il ritratto di una giovane donna. Lo sbirciai, e senza sapere perché chiusi subito gli occhi. Con le palpebre ben strette, cercai di capire le ragioni del mio gesto: avevo agito d’impulso per guadagnare tempo e pensare, per essere sicuro di non aver visto male, per calmare e tenere sotto controllo la fantasia, in modo da guardare quell’immagine con calma, senza agitarmi. Pochi istanti dopo la fissai di nuovo. Non potevo e non volevo mettere in dubbio ciò che vedevo: il chiarore che illuminava la tela sembrava aver cancellato lo stordimento che aveva avvolto i miei sensi, risvegliandomi del tutto. Come ho già detto, era il ritratto di una ragazza. L’autore aveva raffigurato la testa e le spalle nello stile chiamato “vignetta”, quello delle celebri teste sfumate di Sully. Le braccia, il seno e i capelli luminosi si fondevano nell’ombra confusa e al tempo stesso intensa che formava lo sfondo. La cornice dorata era ovale, decorata con filigrane secondo il gusto alla moresca. Come opera d’arte, non avrebbe potuto esserci niente di più bello. Ma non fu certo il modo in cui era stato eseguito quel lavoro, e nemmeno la bellezza immortale del volto, a colpirmi in maniera così intensa. E non era stata nemmeno la mia immaginazione, risvegliatasi all’improvviso, a scambiare il viso per quello di una creatura vivente: il tipo di disegno, dello sfumato, e della cornice avrebbero subito cancellato una simile illusione, impedendomi di ingannarmi per un solo istante. Rimasi quindi per circa un’ora semisdraiato con gli occhi fissi sul ritratto, a riflettere sulla questione. Alla fine, soddisfatto per aver capito il vero motivo di quello strano incanto, mi lasciai ricadere sul letto: avevo infatti scoperto che la magia del dipinto stava nella perfetta vitalità dell’espressione che mi aveva tanto colpito, confuso, conquistato e spaventato. Intimidito, rimisi il candelabro nella sua posizione iniziale. In questo modo non potevo più vedere l’oggetto che aveva provocato in me tanta agitazione, e mi affrettai a riprendere in mano il testo che parlava dei dipinti e della loro storia. Trovato il numero che corrispondeva al ritratto ovale, lessi le parole vaghe e strane che ho qui riportato:

Era una fanciulla di rara bellezza, allegra e gentile. E tragica fu l’ora in cui vide, amò e sposò il pittore, un individuo passionale, amante degli studi e inflessibile, che aveva sposato l’Arte. Lei era affascinante, dolce e serena, luminosa e sorridente, vivace come una cerbiatta, piena d’amore e sempre felice, che odiava solo l’Arte, e temeva soltanto i pennelli e la tavolozza, gli orrendi arnesi che le rubavano la compagnia del suo sposo. Quando lui espresse il desiderio di farle un ritratto, la ragazza provò un grande dolore, ma poiché era docile e ubbidiente, posò per molte settimane nella camera in cima alla torretta, dove la luce scendeva dall’alto sulla tela candida. Il pittore era entusiasta di quella sua opera che procedeva di ora in ora, giorno dopo giorno. Stravagante, capriccioso ed esaltato, si smarriva nelle sue fantasticherie, e non si accorgeva di come la luce spettrale che scendeva nella torre solitaria stesse soffocando la salute e lo spirito della sua sposa. La ragazza, che tutti tranne lui trovavano visibilmente sciupata, continuava a sorridere senza mai lamentarsi. Si rendeva infatti conto che quel lavoro suscitava un piacere intenso e bruciante nell’artista, molto famoso e acclamato, che si impegnava giorno e notte per ritrarla senza accorgersi che lei diventava sempre più debole e spenta. Chi ebbe la possibilità di ammirare il dipinto riferì con grande stupore che era identico all’originale, e giudicò tale somiglianza come la dimostrazione delle immense capacità del pittore, oltre che dell’amore profondo che provava per colei che aveva ritratto. Ma quando giunse alla fine di quella fatica, il maestro non permise più a nessuno di entrare nella torre, sconvolto dalla sua stessa foga, distoglieva a stento gli occhi dal suo capolavoro, guardando appena il volto che stava ritraendo. E non voleva vedere che i colori che stendeva sulla tela venivano tolti dalle guance della sua sposa. Molte settimane dopo, quando gli restava ormai poco da fare, giusto una pennellata sulla bocca e una sfumatura sull’occhio, per un istante lo spirito della ragazza guizzò come la fiammella all’interno della lampada. Il pittore diede poi l’ultimo colpo di pennello, sfumò per l’ultima volta il colore, e per un attimo rimase in estasi davanti alla sua opera. Senza staccare gli occhi dal quadro, pallido e tremante, gridò:

«Questa è davvero la Vita».

Si voltò poi di scatto a guardare la sua amata: era morta!

da Racconti fantastici e del terrore di Edgar Allan Poe, traduzione a cura di Alessandra De Vizzi, Edizioni Piemme, Casale Monferrato, 2001