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Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Emilio Capaccio, Manuel González Zeledón, Per giustizia il tempo, Racconti, TRADUZIONI
PER GIUSTIZIA IL TEMPO
(1913)
Manuel González Zeledón (1864-1936)
Traduzione di Emilio Capaccio
Conosciuto come “Magón”, fu scrittore, politico, educatore e grande promotore della cultura del suo paese, tale da essere considerato il creatore dell’immagine nazionale del Costa Rica. La sua opera si caratterizza per una narrazione in stile costumbrista, in cui emergono quadri di vita campesina e ambientazioni rurali, raccontati con una pungente ironia, lepidezza e arguzia che non sfocia mai nella beffa o nella derisione. I suoi racconti costumbristi furono pubblicati su vari giornali e riviste. Per volontà dell’autore, tali racconti furono raccolti e pubblicati nel 1913, con il titolo: “La propia y otros tipos y escenas costarricenses”. Nel 1920, fu pubblicata una seconda edizione con l’aggiunta di altri testi. Tuttavia, l’edizione più accurata e completa si ebbe postuma, nel 1968, quando fu pubblicata “Cuentos de Magón”, che può essere considerata la raccolta definitiva.
I
Era la vigilia di Natale del 1872 e se fosse stata quella dell’anno scorso, i miei ricordi non avrebbero potuto essere più chiari. Quella notte compivamo gli anni Nostro Signore e io, e con tanto plausibile motivo, in casa nostra c’era molto trambusto, perché la mia famiglia allestiva il vestibolo e di striscio mi festeggiava il compleanno. Quantomeno credevo che tutte le feste, musiche, canti natalizi, balli di pastori, giochi pirotecnici e altre baldorie, non avessero altro scopo che di celebrare l’anniversario della mia venuta in questa, che ai tempi credevo, valle di miele e di frittelle. Inoltre, mi ero appena laureato Dottore in Abbecedario e Dottrina Cristiana, un po’ come in utroque jure [1] , nella mai ben ponderata e ricordata scuola delle prime lettere di Donna Eusebia Quirós, precorritrice di Froebel e di tutti i kindergarten [2] . Pertanto, il mio compleanno, la conclusione del mio percorso dell’infanzia e la concomitanza della vigilia di Natale, venivano a essere un magnifico pretesto per inusitate sarabande.
Non so se fu in occasione di tali eventi o solo il caso che, per quella notte, nella Plaza Principal si annunciava il debutto del Circo Ciarini [3] , il primo ad arrivare in Costa Rica con leoni, tigri e zebre, il primo che ci rendeva il grandissimo onore di presentarci il gran salto Léotard [4] , e il primo che ci allietava con le spassose gracchiate di un clown, “invidia d’arlecchini e pagliacci nell’universo intero”. Così dicevano i cartelloni pubblicitari che ostentavano i loro sgargianti colori in tutti gli angoli, anche in quello di casa mia, dove una furibonda tigre del Bengala, frustata da un bel gladiatore romano, saltava in un cerchio di fuoco, che a una notevole altezza reggeva una gladiatrice, mentre sul dorso di un leone di Numidia [5] , altri piccoli gladiatori, anch’essi romani, eseguivano un esercizio.
Ero a corto di monete; un posto sulla gradinata costava “per bambini sotto i dieci anni, cinquanta centavos; per adulti, un peso [6]. ”Io ero un “bambino sotto i dieci anni”, ma non avevo la minima idea di cosa fosse essere un adulto e siccome allo “storto tutto gli capita”, ben poteva essere che io risultassi pure un adulto, ovviamente proprio quando meno mi serviva esserlo. Bisognava mettere in chiaro questo punto importante, prima di andare in giro in cerca di reales per l’ingresso. Fortunatamente, Juan Castro, vecchio soldato del ‘56, e imbianchino di lunga data della mia dimora, mi tirò fuori dal tremendo dilemma. Stava sputando rospi e serpenti a causa di un cartellone incollato sul lato appena imbiancato della nostra casa, quando mi avvicinai a domandargli:
— Buon uomo, Juan! Potete dirmi chi sono gli adulti?
— Cosa?
— Sapete chi è un adulto?
— Certo che lo so, perché vuoi saperlo?
— Per l’ingresso al circo.
— Per te sono quattro reales; ora smettila di infastidirmi e vattene con le tue sciocche domande.
Mi tolsi un gran peso. Juan, aveva avuto le sue buone ragioni per non spiegarmi il significato della misteriosa parola, però ora sapevo che qualunque fosse non mi riguardava. E me andai in cerca del prestito.
Vendetti i miei buoni senza interessi e senza commissioni, cinque sabati prima della scadenza, al mio padrino di battesimo, eccellentissimo dottor Martin Mérida, inviato straordinario della Repubblica del Guatemala in Costa Rica, e impegnai la mia parola d’onore, libera fino ad allora da ogni sorta di gravami e di servitù. Alla memoria del mio illustre padrino devo rispetto e bene per tanti altri favori, ma quello occupa senza dubbio un posto particolare nei miei ricordi. Che Dio lo tenga in conto, di qualunque forma di avallo avessi avuto bisogno quel compianto ministro di Dio e della sua patria, eccellente cavaliere e nobile amico, era sempre a tendermi una mano.
Dal momento che ero “bambino sotto i dieci anni”, e avevo nella tasca i benedetti “cinquanta centavos”, mi diressi dritto dritto al circo per acquistare il biglietto e un posto sulla gradinata. Erano le tre del pomeriggio, gli annunci dicevano che lo spettacolo sarebbe iniziato alle venti. Naturalmente la biglietteria era ancora chiusa; dentro la tenda spaziosa che si estendeva nella zona sud-est della Plaza Principal, arricchita da bandierine e gagliardetti di tutti i colori e nazionalità, si svolgeva il lavoro di sterrare il suolo dell’arena, dove i cavalli avrebbero dovuto eseguire le loro prodezze, e lo si copriva con segatura, che era ammassata vicino alla tenda. Gli animali, la meravigliosa zebra, la collezione di sapienti scimmie, i cavalli, i pony, l’abile mula, e gli altri elementi della collezione zoologica, stavano già occupando una piccola tenda vicina a quella dello spettacolo; i garzoni non si davano tregua nel sistemare trapezi e anelli, uncini, pulegge e leve; i grandi lampioni o le lampade traboccavano di petrolio; le impalcature della gratinata risuonavano per i continui colpi di mazze e di martelli; i teli della grande tenda ondulavano sotto gli impulsi dell’aliseo di dicembre, formando crespe contenute a stento dai robusti cavi dei tiranti e facevano rumori sordi come di tuono lontano. In mezzo a quel andirivieni di passanti e di acrobati, si stagliava la figura del signor Ciarini, con i suoi alti stivali verniciati e il suo cappello chambergo [7] , i suoi grossi baffi e pizzetto in stile casa Savoia, e un piccolo frustino che la sua impazienza faceva sibilare. Splendida figura e maestoso portamento!
Mi avvicinai a lui con i miei cinquanta centavos e rispettosamente gli chiesi di darmi il posto migliore che potesse offrirmi. Non si degnò neppure di ascoltarmi; con voce imperiosa mi ordinò:
— Aiuta a portare la segatura nell’arena, spicciati!
Finii per trasformarmi in aiutante del circo per opera e grazia della sua insolente imposizione. Trasportai segatura fino a che l’arena non fu completamente preparata; poi mi mandarono a portare acqua agli animali; il secchio era pesante, ma la mia energia era incrollabile, per quanto feci cadere parecchia acqua, bagnandomi da mezza gamba in giù e ne arrivò poca all’abbeveratoio delle bestie assetate.
Alla fine, tutto era pronto, i piccoli aiutanti, come me, furono buttati fuori dalla tenda, senza neppure un cenno di ringraziamento. Non ce n’era bisogno. Avevo avuto l’onore di conoscere il signor Ciarini; avevo incontrato il clown ed ero andato a comprargli persino un real di tabacco; era stato a cinque passi dalla gabbia del leone e a sei o sette da quella delle tigri; avevo visto la zebra e avevo assistito all’atto di dipingerla con nitrato d’argento, che macchiava le dita di nero e nemmeno il sapone riusciva a pulire. Avevo visto, osservato, registrato; ero il più felice dei bambini sotto i dieci anni che viveva nella tranquilla città di San José di Costa Rica, nel mese di dicembre del 1872.
Aspettai vicino a un lampione che aprissero la biglietteria; comprai il primo biglietto e corsi a casa a lavarmi e a rassettarmi bene, per tornare al più presto a scegliere un posto sulla gradinata, dove mi sarei sistemato nel punto più adatto per godere delle peripezie dello spettacolo. Non avevo tempo di mangiare, al diavolo l’appetito; la cosa più importante era il circo, perciò vi feci ritorno senza perdere tempo.
Si dovette aspettare che gli agenti della pubblica sicurezza arrivassero a occupare i posti riservati per i vigilanti; nessuno poteva spingermi via dalla corda che fissava la cortina dell’ingresso. Finalmente!
Il faro centrale illuminava a giorno tutti gli angoli della grande tenda; scelsi un posto, lo cambiai più volte; troppo in alto o troppo in basso o non permetteva di vedere frontalmente il trapezio, poi scovai quello migliore, da dove si poteva vedere lo spazio in cui era stata sistemata la banda militare, alle spalle del palco del governatore, davanti all’apertura del sipario da cui dovevano comparire gli artisti; sì, era senza dubbio il posto migliore perciò mi piantai lì come se mi avessero fissato con i chiodi o stretto con viti e bulloni.
Cominciò ad arrivare la gente, prima a coppie, poi a gruppi e, infine, a frotte. Si riempirono le gallerie, i palchetti, i corridoi; non c’era più neppure lo spazio per lanciare a terra uno spillo. Era presente il governatore don Mateo Mora con il suo segretario e il procuratore e molti altri signorotti e signore con crinoline, veli, boccoli e grandi fermagli. C’era la banda che suonava i suoi più belli pasos dobles, e i bambini che vendevano confetti e distribuivano programmi, e il leone che ruggiva nella sua gabbia, e le tigri che miagolavano come gatti, e le scimmie che strillavano, e io che salivo al paradiso, come quello che mi figuravo nel catechismo di Ripalda, quello che si promette ai buoni, ai giusti, agli innocenti.
Da uno dei gruppetti ritardatari che cercava di farsi largo nella mia direzione, si staccò un ragazzo di circa venticinque anni, piccolo di statura, massiccio, capelli crespi, occhi azzurri, barba e baffi rossicci; percorse con lo sguardo la galleria e quando mi adocchiò, mi venne diritto incontro, facendosi spazio tra la folla numerosa che occupava le gradinate inferiori; mi prese bruscamente il polso e pose il dito della mano sinistra sull’arteria del mio pugno.
— Piccoletto, che cos’hai? – mi chiese con aria di grande apprensione.
— Niente, signore, non ho niente.
Mi passò la mano sulla fronte e mi disse:
— Tu scotti, dove abiti?
— A due isolati da qui, l’angolo opposto al seminario.
— Allora, figliolo, corri a casa e fatti preparare qualcosa, perché sei molto malato, va’, non perdere tempo, io ti conservo il posto.
L’eccitazione nervosa in cui mi trovavo, la fatica dei lavori della giornata, il principio di raffreddore che mi era venuto, avendomi bagnato le gambe e i piedi, non aver mangiato nelle ultime dieci ore, insieme alla gravità con cui quell’uomo mi parlava, mi suggestionarono al punto che cominciai a sentirmi accaldato. Riposi tutta la fiducia nel mio improvviso soccorritore, cedetti il posto e corsi verso casa, affinché mi dessero un rimedio subito, nella speranza di ritornare in fretta ad assistere allo spettacolo, senza perdere neppure la prima parte del programma.
Rincasai senza fiato; andai da mia nonna che in famiglia era il nostro medico, le raccontai quello che mi era accaduto e le circostanze. Lei scoppiò a ridere per la mia ingenuità.
— Non sono accaldato? Ma quell’uomo ha detto…?
— Non essere sciocco, figlioletto; torna al circo; quell’uomo voleva solo il tuo posto. Solleva anche uno scandalo, se necessario, ma non lasciare che si prenda quello che è tuo.
Per mille fulmini e un miliardo di scintille! Quel farabutto non doveva ridere di me!
Tornai al circo pieno di indignazione, rabbioso, ferito nel profondo più intimo della mia anima di “bambino sotto i dieci anni”. Quando l’ometto mi vide avvicinarmi, fece una risata che ancora risuona nelle mie orecchie. Strattonai gli spettatori, sgattaiolai tra le gradinate e arrivai al mio uomo.
— Dammi il mio posto!
— Quale posto? Non infastidirmi!
— Dammi il mio posto, bugiardo!
Mi diede uno spintone, mi fece cadere dalla gradinata e chiamò una guardia, alla quale mi denunciò come aggressore. Il poliziotto non volle ascoltare la mia versione, mi minacciò di cacciarmi via dalla tenda se non mi fossi calmato; gli spettatori, impegnati a seguire le burla del clown, mi ordinarono di tacere. Capii, allora, che potevo considerarmi spacciato se avessi continuato a chiedere che mi fosse fatta giustizia; la mia personale amicizia con Ciarini non poteva valermi a nulla; il cielo mi aveva abbandonato. Mi rassegnai e trascorsi il resto della rappresentazione confuso nella folla in uno dei corridoi, senza poter vedere quello che succedeva nell’arena, che avevo aiutato a coprire di fresca e odorosa segatura di cedro, senza vedere la pantomima, senza guardare le piroette del clown o le sue abilità con la bacchetta e il cilindro; degli animali potevo sentivo solo i ruggiti e gli ululati e in lontanaza riuscivo a malapena a scorgere, tra le gambe e le pance degli adulti, la paffuta figura dell’equitatrice, gli ampi pantaloni del clown, le zampe dipinte della zebra e le ruote delle gabbie degli animali. Solo il salto Leotard potei vedere, nell’aria, a prodigiosa altezza; l’acrobata, si dondolò a lungo su un trapezio; un altro pendeva a testa in giù con i polpacci infilati in un paio di anelli appesi al soffitto; il saltatore lasciò il trapezio, fece un giro armonioso nello spazio e cadde tra le braccia dell’altro, senza incertezza, senza precipitazione; si calò da una corda nell’arena e lo persi di vista. Il pubblico applaudiva freneticamente.
Il mio uomo, il mio pel di carota, il grandissimo bugiardo che mi aveva rubato il posto e mi aveva ingannato e maltrattato, rideva, applaudiva, godeva immensamente, quanto o più di tutto il resto del pubblico. Fui sorpreso che ne godesse, perché credevo che gli uomini avessero una coscienza; così diceva, almeno, il catechismo di Ripalda, ma si sbagliava.
Al mio ritorno a casa, non ne feci parola con nessuno; quando mi chiesero del circo, mi lasciai andare a descrizioni fantastiche e a grandi apprezzamenti per il grande salto dal trapezio. Nascosi la mia umiliazione e non accennai alla mia amarezza.
Quando arrivò l’ora dei canti natalizi e dei villancico [8] al Bambin Gesù, tutti i ragazzi si avvicinarono al vestibolo e insieme intonammo i nostri consueti saluti al Salvatore del Mondo. Alla fine, si recitava il rosario accompagnato da musiche e da fuochi pirotecnici, e in uno di questi momenti si presentava verbalmente o mentalmente la sollecitudine a Dio di favori desiderati, bisogni da soddisfare, perdoni meritati.
Allora mi ricordai che c’è un Dio della giustizia, un Signore Onnipotente di tutto il creato, per il quale tutti i pel di carota dell’universo, tutte le guardie della Terra, tutti coloro che si beffano del dolore dei “bambini sotto i dieci anni”, sono come la polvere dei sentieri, dispersa dal vento, come la foglia secca che si strappa nella tempesta, come la nube ferita dal fulmine; e proprio a quel Dio chiesi giustizia, in quell’istante o per l’avvenire, ma giustizia.
II
Era il 1896, ventiquattro anni dopo.
Tra i vari documenti scaduti e scritture ipotecarie che dovevano eseguirsi, a favore del mio cliente, il signor William Le Lacheur Son, di Londra, accampavano sulla mia scrivania quelli di un certo Perico de los Palotes, che mi chiese di essere ricevuto nel mio ufficio per farmi delle proposte che avrebbero potuto evitargli l’asta della tenuta.
Il giorno concordato l’uomo fece la sua comparsa. Lo riconobbi all’istante. I ventiquattro anni passati non avevano cancellato i suoi lineamenti o cambiato la sua fisionomia; la stessa testa riccia, gli stessi occhi azzurri, la stessa barba color ruggine, picchiettata da macchie biancastre, sudicie.
— Che cosa desiderate?
Sono qui per vedere se riesco a tirare il fiato per la mia ipoteca. I raccolti non sono stati buoni; il prezzo del caffè non vale la raccolta; gli animali hanno poco da mangiare, perché i pascoli sono aridi; sembra che mi sia piovuta addosso una maledizione divina. Se, ora, mi obbliga a pagare, sarà come ricevere il colpo di grazia per la mia tenuta e mi lascia in mezzo a una strada; se, invece, mi concede più tempo, pagherò tutto in un paio di anni, con interessi e spese, e dovrei cavarmela. Che ne pensa?
— Si sieda e parliamo. La sua fisionomia non mi è nuova, mi sembra di averla già vista molti anni fa, se la memoria non mi inganna, è stato la notte di una vigilia di Natale, quando nella Plaza Principal ci fu lo spettacolo del circo di Ciarini; io ero seduto sulla gradinata, e…
— Che memoria! Io me lo ricordo vagamente, però, ricordo bene che essendo arrivato in ritardo e non avendo potuto trovare posto, spaventai a morte un marmocchio lentigginoso, al quale feci credere che stesse per morire di febbre. Il bambino corse a casa in preda allo spavento, ma di sicuro per strada dovette capire l’inganno, tant’è che lo vidi ritornare assai infuriato, facendo un gran baccano per riavere il suo posto; chiamai, allora, una guardia che lo fece allontanare e io rimasi tranquillo dov’ero. Veda, signor Gonzalez, molti circhi sono venuti dopo di quello con i loro spettacoli, ma nessuno mi ha impressionato più di quello di Ciarini, la sera della sua prima, parola d’onore.
— Penso esattamente la stessa cosa: nessuno mi ha impressionato più di quel circo, in quella notte; voi, però, resterete ancora più impressionato nell’apprendere che proprio io ero quel ragazzino lentigginoso al quale faceste spaventare a morte, al quale rubaste il posto, al quale, abusando della vostra stazza e della vostra forza, spingeste sui banchi della gradinata e faceste ingiuriare dalla polizia, non meno brutale e ingiusta di voi.
— Ma, amico, chi avrebbe creduto!
— La nostra conversazione è finita; se entro tre giorni non avrete pagato il vostro debito, avvierò l’esecuzione senza alcun riguardo; uomini che, come voi, sono crudeli con un bambino, non meritano la compassione né degli uomini né di Dio.
Potete andare.
Ci fu l’asta.
Per giustizia il tempo!
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[1] Locuzione latina che significa letteralmente “nell’uno e nell’altro diritto”. Si utilizzava nelle prime università europee per indicare i dottori che si laureavano, al tempo stesso, in diritto civile e in diritto canonico.
[2] Dal tedesco, letteralmente: “scuola materna”, “giardino d’infanzia”.
[3] Circo di una delle più antiche dinastie italiane, di cui celebre fu, tra gli altri, Giuseppe Ciarini (1823-1897), per le sue avventurose tournée in tutto il mondo.
[4] Jules Léotard (1838-1870) fu un eccezionale acrobata francese, considerato l’inventore del trapezio volante e ispiratore della canzone popolare: “The Daring Young Man on the Flying Trapeze” composta nel 1867 da George Leybourne (1842-1884).
[5] Nell’antichità, con questo termine si denominava, all’incirca, la parte nord-orientale dell’Algeria.
[6] Il “peso” è stata la valuta della Costa Rica, tra il 1850 e il 1896, equivalente a 8 “reales” o 100 “centavos” (centesimi).
[7] È un cappello morbido a cupola bassa con una o due ali piegate e attaccate alla cupola da spilli o fermagli e addobbato da piume o galloni. Fu usato dai soldati del maresciallo di Francia, Federico di Schomberg (1615-1690), durante la c.d. “guerra dei mietitori” del Principato di Catalogna, tra il 1640 e il 1659.
[8] Composizione poetico-musicale di origine spagnola, diffusa anche in Portogallo e in America Latina, a partire dal XV secolo, di soggetto sacro, con diverse strofe e ritornello.
Tutti i racconti selezionati e tradotti da Emilio sono meravigliosi ma questo mi ha coinvolto particolarmente, perchè particolarmente ben scritto, nostalgico e di grande impatto emotivo! Grazie!
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