La notte prende in segreto dai tuoi capelli dimenticati riflessi tra le pieghe della tenda. Guarda, desidero soltanto le tue mani tra le mie e quiete e silenzio e in me profonda pace. Così la mia anima s’accresce e spezza in mille schegge la monotonia dei giorni; e si fa immensa: sul suo molo al chiarore dell’alba muoiono le prime onde dell’eternità.
Non c’è stilla
di malessere
sulle membra,
c’è l’inalterata sorpresa
e questo sole
che ribrilla.
Il giallo batte
sulle tempie di limone,
è ocra,
s’incendia al tramonto
e scende sulle persone.
Il sole
è un bimbo
che all’orizzonte
gioca
e sfida le nubi.
Il cilestrino
e l’azzurrino
come il rosa
e l’aurora al mare.
E come sole
m’appari tu
che mi mischi le carte
e tieni lontana la tribolazione,
sfianchi la rimembranza
e accendi la notte.
La notte
delle stelle girovaghe.
La notte
che ritorna
e agogna
i lucori
del primo mattino.
*
Vertigine,
scuotimento dei sensi.
Ninfa
afa di luglio
musica leggera.
Murmure
del salentino mare,
canto delle sirene,
fruscio d’un benedetto vento
di tramontana.
E lampo di tuono
che d’improvviso squarcia la canicola,
brusio
delle centomila tempeste.
Soffio di vento
fra le fronde dell’arancio,
stagione stremata
ma desta di passione.
Questo
e tutto il resto
tu sei,
il passero che vola sei,
sei l’unica scuola
che frequenterei
per imparare l’abc
dell’amare.
Ogni giorno
ti vengo a cercare
per quietare
la paura di vivere
e per farmi spiegare
i motivi reconditi
di questa insostenibile precarietà
dell’essere.
*
Sentire
tutto l’amaro in gola,
ragione di mestizia
che m’avvince
a questa vita
sfinita, che evolve
ma non muta. Assisa
la vita
sui troni bucati
dell’incertezza,
la timidezza la fragilità
d’incedere a passo lento.
La vita,
fuscello al vento.
La vita è cedevole,
non è un sicomoro
di fronda dura,
la vita non è sicura.
La vita è modesta,
la rammemorazione
d’una infinita partita di pallone
giocata da fanciulli
su un campo di catrame,
cadute ferite, ginocchi sbucciati.
La vita è rincorsa,
è l’eterna corsa
che poi finisce
e l’incanto resta
solo negli occhi
di chi più ci amò.
*
La vita che resta
non voglio sprecarla
in giochi mondani
in discussioni sterili
in menate di mani.
La vita che rimane
non voglio impiccarla
ad idee oltranzistiche,
a fredde visioni.
Voglio godere
dell’attimo errante,
il germoglio del mandorlo
voglio.
La terra
voglio
e le sue zolle,
la misericordia
voglio
e la pietas
che mai soccombe.
Il tuo cuore
voglio
per masticarlo
e farne molliche di pane.
Voglio
quel che già ho,
voglio
quel che non so.
Voglio
un bacio
scoccato in pieno volto,
rivoglio
il tuo quaderno rosso
pieno di poesie.
E una preghiera
voglio
di taciturne parole
per non sentirmi
più solo.
*
Al magniloquente
preferisco l’essenza.
Il maestoso
non m’attrae,
meglio,
sì, molto meglio
un piccolo pensiero
redatto con inchiostro d’anima
per coloro che ogni giorno
mi sono accanto.
I massimi sistemi
mi deprimono,
prediligo il dialogo continuo
lineare elementare semplice,
l’umana condivisione.
Stamattina
ho visto nel giardino
i miei due gatti
che bisticciavano.
Alfonso, il nero,
ha assalito e morsicato
Johnny, l’albino.
Non voglio la guerra,
inseguo la pacificazione,
fosse pure quella felina.
La bulimia
dei buoni sentimenti
da ostentare
non mi interessa,
meglio una vita dimessa
a coltivare il silenzio e l’infinito,
a rincorrere
i sogni infranti spezzati
per tentare di rianimarli
con dosi di carezze
e di preghiere sommesse.
Marcello Buttazzo
NOTA BIOBIGLIOGRAFICA
Marcello Buttazzo è nato a Lecce nel 1965 e vive a Lequile, nel cuore della Valle Della Cupa salentina. Ha studiato Biologia con indirizzo popolazionistico all’Università “La Sapienza” di Roma. Ha pubblicato numerose opere, la maggior parte di poesia. Scrive periodicamente in prosa su Spagine (del Fondo Verri), nella rubrica Contemporanea, occupandosi di attualità. Collabora con il blog letterario Zona di disagio diretto da Nicola Vacca. Tra le pubblicazioni in versi ricordiamo: “E l’alba?” (Manni Editori), “Origami di parole” (Pensa Editore), “Verranno rondini fanciulle” (I Quaderni del Bardo Edizioni di Stefano Donno), “Ti seguii per le rotte” (I Quaderni del Bardo Edizioni di Stefano Donno). Ad aprile 2025, è uscito per Collettiva Edizioni Indipendenti il libello dal titolo “Sommesse preghiere” (Collezione I Distillati). A settembre 2025, per i Quaderni del Bardo edizioni di Stefano Donno è uscita la nuova raccolta di poesie dal titolo “Aspettando l’aurora”.
Certe poesie che ho scritto
andrebbero messe in un bel libro
anziché stare qui a consumarsi
lo dico sul serio, lo penso davvero.
Starebbero nel loro luogo adatto
farebbero la loro figura
impaginate a dovere, presentate, recensite
da una voce autorevole con parole oscure
ma sagge, che vanno a pescare chissà dove.
Certe poesie passerebbero l’esame
andrebbero diritte a un cuore
qualcuno chiuderebbe la pagina
e per un po’ guarderebbe lontano
qualcuno si accontenterebbe dei primi versi.
Qualcun altro dei coraggiosi lettori
andrebbe a cercare le cose
che alcuni poeti lasciano fuori
chiedendosi perché proprio così
e non invece
e la ragione di quel vuoto e come mai,
e che roba è mai questa.
Altri mi ignorerebbero
e non posso dargli torto.
Devo confessare ora che ho un autore di riferimento
un poeta che ha scritto un libro a mano
poesie poverissime
ottima calligrafia ottocentesca, qualche rara cancellatura
scrittura semplice, poche rifiniture.
Lo ha rilegato a sue spese
con il titolo stampigliato sul dorso
la copertina di marocchino rosso.
Deve essere stato in libreria una vita
possiede perfino alcune pagine strappate
chissà da chi e per quale ragione.
Ha il suo scaffale confuso con gli altri
che sono tutti stampati a dovere.
Voltarsi,
davanti non c’è niente
fare in modo che ieri
non sia come oggi.
I panni sono sempre stesi ai balconi
la domenica è grigia e piovosa
le famiglie numerose non hanno spazio in casa
e vedo capi di ogni misura sulle funivie
andare e venire dalle stazioni delle finestre
bambini che aspettano al capolinea un cappotto
donne che sognano di indossare una magica maglia
sento cigolare la ruota ondeggiare la carrucola.
Voltarsi,
davanti non c’è niente
le corde son tese
gravate dagli anni
nessuno guarda dritto la propria strada
il cielo non disegna un perdono
ciò che tutti vorrebbero è perduto.
Sono mesi che non alzo la testa
per vedere le stelle.
È questo che porti arrotolato con cura, piegato in quattro, alla rinfusa sgualcito spiegazzato ficcato ovunque negli angoli più oscuri. Niente da dichiarare niente devi dire niente. Il doganiere non ti capirebbe. La memoria è sempre contrabbando.
Caspar David Friedrich
Poesia di Bartolo Cattafi “Niente” dalla raccolta “L’osso e l’anima“, 1963
“concentrati sulla respirazione”
mi dice l’amico in cerca di armature per passeggiare nel quartiere.
il mio respiro è un carnevale
un sacco di lattine cadute davanti al cassonetto
“no, non devi ascoltarla
ma entrarci”
allora dico
la mia respirazione è lunga quanto le gambe di kendall jenner
your time is the next
mangiamo
piantiamo fiori
scattiamo foto con i boccioli
ungiamo gli occhi appena screpolati dei gattini
mangiamo
prepariamo torte e pezzi di carne per la risurrezione di Gesù
mangiamo
lo zingaro e sua moglie passano in carrozza per raccogliere rottami metallici
guardano le case a due piani come noi guardiamo i boccioli
mangiamo
sta diventando sempre più chiaro che
stiamo morendo insieme
fissati come pezzi di canditi in una colomba.
non esiste altro tipo di morte
e dopo che l’abbiamo capito
non ci trasmettiamo più malattie
solo le cifre del chilometraggio
mentre aspettiamo il nostro turno
e pochi in casa hanno ancora energia
per mettere le foto su instagram
cambogia
prendiamo un minibus cambogiano per arrivare al monastero sopra cluj
attraversiamo un quartiere fatto solo di fortezze.
assomiglia a firenze.
ha un sole teletrasportato
parcellizzato solo sulle pareti
fotografate per cartoline.
per mancanza di fondi
nelle stanze degli ex carnefici diventate monolocali
è rimasto il sole est-europeo
con un bilanciamento del bianco introvabile.
quando incendia le colline intorno
la guida deve urlare ai turisti dentro il microbus
cambogiano
che hanno la fortuna di assistere a questo raro fenomeno naturale
che colora il cielo di azzurro
e le lettere che volano nell’aria diventano chiare
“balocco. torte in festa”
turchese
vicino a punta della dogana
c’è un negozio che vende famiglie di elefanti in vetro di murano
sono brutte come tutte le famiglie di elefanti a venezia
con occhi di polpo e con le zanne a metà
ma hanno un colore turchese che può spaccare il buio
e penso che forse, viste da lontano,
messe sotto la tv
piacerebbero a mamma
che colleziona da sempre elefanti e campanelle
con incisi i nomi delle più belle città
ma lei non può più salire nella sua camera da letto
sta giù con la nonna dove la tv è messa su un tavolo
e non c’è posto per gli elefantini turchesi
che mi sembrano ancora adatti per essere “l’ultima cosa da vedere”
baby don’t hurt me no more
in romania abbiamo un dio piccolo
esattamente come un nano da giardino.
l’80% dei suoi poteri si consuma per:
– aiutare le persone a mettere maiolica e piastrelle in bagno
– aiutare figli con gli esami di diploma o per entrare in facoltà
– portare la pioggia
– far smettere di piovere
– benedire macchine audi e mercedes
il 20% dei poteri rimane per gli incontri dal vivo con i contadini.
sulla via verso il bar puoi parlare con lui come con qualsiasi altra persona
è molto “di casa”
l’unica cosa che ti promette è che se baci milioni di icone arrivi
in paradiso
che è un tavolo enorme con cibo e bevande illimitati,
con menestrelli zingari e orario continuato
l’ora
mamma è morta tra le 22:32 e le 22:33.
aveva 66 anni e 6 mesi.
è sopravvissuta 4 mesi in più delle previsioni più ottimistiche
tra gli ultimi due respiri sono passati almeno 7 secondi
non mi ricordo se la tenevo per mano o no
ma so che qualche ora prima
le ho sussurrato nell’orecchio “non avere paura mamma.sarà bello”
non avrei potuto dire una cosa più stupida
Testi di Oana Pughineanu-Oricci, tratti da “Bilanciamento del bianco”, Fallone Editore, 2024.
Oggi compiresti gli anni
e tutto il mucchio di quelli passati
che avresti aggiunto a questo presente
sono qui dentro il mese e dentro il giorno
che racchiude la tua ora di morte
sono dentro al dato incrollabile del così sia
e in quello della gravità delle leggi
dentro la clessidra ostruita
dal granello riluttante a scendere
e nella trascurabile increspatura della roccia
che ha deviato il corso del tempo
facendo disallineare i pianeti
rendendo le possibilità di vita meno certe.
Ancora conto i passaggi che ti hanno spezzato
i frammenti di te che ho conservato
le tue carte d’identità scadute
il passaporto per l’ultimo trasbordo
il fiore che è ancora nella tua scatola
poche cose sopravvissute a questi tre decenni abbondanti,
e altre briciole che evito accuratamente di mettere in fila.
Rimane la mollica della tua nascita
e dell’improvvisa e perfetta certezza
di non essere l’unico pulcino della nidiata
di quando da piccolo mi svegliava
il rumore battente dei tuoi colpi di tosse.
“Viaggio spesso, non torno sempre” (frase scritta su un muro di Roma): questa intestazione, in epigrafe al libro “Il taccuino dell’ospite” di Michele Zacchia (Rplibri, 2024 pp. 64 € 12.00) anticipa il contenuto e il significato del viaggio poetico dell’autore lungo le incrinature nascoste dei luoghi, la visione simbolica che restituisce agli occhi e all’anima il sentimento dello spazio, i meandri di un linguaggio metaforico, nella densità espressiva delle parole. Michele Zacchia percorre un itinerario di scoperta ancestrale e di ricerca personale nel percorso esistenziale, segnato dal rifugio dell’accoglienza e dall’immediatezza delle sensazioni, incrocia turbamenti inattesi, indica la dispersione del silenzio, combinando l’ispirazione misteriosa per ogni richiamo sconosciuto nell’incognita di ogni previsione emotiva. La poesia di Michele Zacchia alberga nel riflesso inafferrabile della memoria degli sguardi, nella destinazione bruciante delle attese, nelle stagioni imprevedibili in giro per le strade, coniuga il senso dell’accadere all’analisi esegetica del tempo, riconosce gli incastri delle ombre e la fatalità delle speranze, supera il muro di cinta dell’aridità individuale. Michele Zacchia ascolta l’oscillazione dei passi, lastricati dalla polvere del mondo, urta l’incedere dell’instabilità, giunge alla soglia della superficialità, attraversa il varco della decadenza, presta attenzione alla direzione variabile degli ostacoli. Il territorio privilegiato di osservazione del poeta aggira la cornice sfuggente dell’inquietudine, fronteggia l’enigmatica corrispondenza delle illusioni, circonda la voragine paludosa degli inganni. Michele Zacchia indica la postazione di un impreciso immaginario, intriso di volti, gesti, corpi, sorrisi e lacrime, dove la frammentazione e la desolazione dei contrasti interiori accolgono la superficie lucida e inesorabile dell’itinerario errante. Esplora la concavità nei segmenti della finitezza umana, contempla la transitorietà di ogni effimero passaggio dei desideri umani, scruta la distensione sospesa dell’istante, vivendone tutta la sua vulnerabilità. “Il taccuino dell’ospite” annota le incertezze motivate nella solitudine di contesti cristallizzati nell’estraneità del margine sensibile, ritrae gli appunti raccolti nel cuore vivo e incisivo dell’inchiostro che dipinge il disorientamento degli ambienti accoglienti e delle atmosfere inospitali, nell’abisso della sfumatura tra il buio del vuoto e la luce della grazia. Il libro rilegge gli spostamenti delle sensazioni, ospita l’origine della commiserazione nell’orizzonte di ogni interpretazione degli atteggiamenti terreni, oltrepassa la materia impalpabile e trascendente dell’entità sovrumana. Michele Zacchia concede al lettore di visitare ogni stazione del pensiero come sosta cosciente della fragilità degli eventi e delle estenuanti impressioni dell’impermanenza, si lascia inabissare nel sentiero dell’esperienza vissuta accanto alla persistente rivelazione della nostalgia e della dimenticanza. Registra l’ancorata tensione delle evocazioni verso l’intento ultraterreno, eleva l’identità dell’ospite a divinità viva e ragionevole intorno a noi, nel suo mutamento conoscitivo. Compone, in una scrittura poetica colta, intellettuale, ricca di superbe giunture stilistiche, l’armonia elegiaca che si declina spogliata dal tormento dei ricordi. Un libro che esalta una riflessione carica di esasperata consapevolezza, commemora la mitologia profetica di chi accoglie il dono della poesia.
Le notti in bianco
che affresco sul soffitto
in un disegno trompe-l’oeil
dove mi perdo
sono nel cielo abbagliante
del disincanto.
Così i pensieri
mi si sciupano vagando
angeli che imbracciano
fucili a soffietto
panneggi che svolazzano
e affacci dove uomini e donne
mi guardano dall’alto
in beata comunione con il basso.
Alcuni cercano di dirmi
cose che non sento
nelle pose di dottori di sapienza.
Altri sorridono di me
che non dormo
e tengo in piedi
il loro mondo con il fiato.
E questo sonno barocco
disfatto nella veglia
mi tiene in vita sopra un precipizio
che pazientemente attende
un passo falso per accogliermi
oltre il muro del pianto.
Ogni epoca ha coltivato le sue paure, come semi destinati a germogliare nel terreno instabile delle civiltà che la attraversano. Dall’assedio di guerre e carestie agli incubi medievali di pestilenze e dannazione eterna, fino all’agghiacciante vuoto dell’era moderna, l’umanità si è sempre trovata a danzare sull’orlo dell’angoscia. E se oggi il tormento non fosse più legato alla sopravvivenza fisica, ma piuttosto all’inutile rincorsa di un senso?
Kafka, cronista impietoso del disagio esistenziale, ci trascina nei margini oscuri delle nostre paure: mutarci in creature disumane, perderci nelle maglie di un arresto senza causa, o svuotare di significato ogni gerarchia sociale che ci circonda. A cento anni dalla morte di Franz Kafka, la voce visionaria che ha trasformato l’angoscia in poesia e l’assurdo in un implacabile specchio dell’esistenza umana continua a inquietare e affascinare. Spesso definito il “cronista dell’assurdo” o il “poeta del moderno incubo”, Kafka rimane un enigma letterario di rara intensità. I suoi testi, solcati da un’alchimia di potere e umiliazione, vibrano ancora oggi come un grido oscuro che risale dai recessi più profondi dell’anima. L’intreccio complesso tra potere e condizione umana ha affascinato studiosi e critici per generazioni, dando vita a un fervido dibattito che continua a crescere. Tra le voci più brillanti spicca Elias Canetti, capace di esplorare con acume le profondità delle dinamiche di sottomissione e umiliazione, rivelando le oscure trame che legano l’individuo al dominio. Attraverso una lettura che intreccia riflessione filosofica e osservazione psicologica, Canetti mette in luce l’intreccio di forza e fragilità che permea i personaggi kafkiani, piegati sotto il peso di autorità opprimenti e gerarchie inscalfibili. Questa analisi puntuale non solo offre un’interpretazione profonda dell’opera di Kafka, ma rispecchia altresì i meccanismi universali che definiscono le dinamiche del potere nella società moderna, poteri invisibili e inaccessibili. Nel racconto La Metamorfosi, la famiglia si configura come l’ambiente centrale in cui si manifesta questo dominio oppressivo, dando vita a un autentico trionfo del disamore. La metamorfosi del protagonista Gregor in insetto rappresenta sia una conseguenza, chiaramente metaforica, di quel profondo senso di inferiorità provato come figlio, sia una via di fuga, per quanto paradossale possa sembrare, dall’autorità esercitata su di lui. Da questa prospettiva, emergono con particolare rilievo i momenti del romanzo in cui il coleottero Gregor tenta, almeno in modo simbolico, di resistere al potere coercitivo esercitato dalla famiglia. Un esempio significativo si trova nel brano Un amoredi carta, dove Gregor cerca di proteggere il ritratto fotografico di una diva, appeso alla parete della sua stanza, dall’azione metodica della sorella e della madre. “E ora cosa prendiamo?” disse Grete guardandosi intorno; e il suo sguardo incontrò quello di Gregorio sulla parete. Se conservò il sangue freddo, fu per la mamma. Tremando tutta, e cercando di coprire con la testa la vista del muro, disse alla donna: “Vieni, forse è meglio che torniamo un momento in sala”. Gregorio capì che Grete voleva mettere al sicuro la mamma per poi cacciarlo dal muro. Ci si provasse! Lui non si sarebbe mosso dal suo quadro: piuttosto le sarebbe saltato in faccia”. Un aspetto rilevante di questo processo è che, all’interno della famiglia, nessuno conversa più con Gregor, e ciò è avvenuto precisamente da quando ha perso la capacità di esprimersi verbalmente. Come spesso accade, anche nei contesti più articolati dell’ordine sociale, le dinamiche di esclusione si manifestano attraverso il silenzio e l’indifferenza, trasformati in comportamenti sistematici e pratiche percepite come normali. Elias Canetti, nei suoi studi e nei suoi scritti su Kafka, evidenzia come la metamorfosi non rappresenti soltanto un processo simbolico o psicologico, ma sia profondamente connessa al corpo che ne è coinvolto. Nel testo L’altro processo. Le lettere di Kafka a Felice* (1968), Canetti mette in luce come, nella Metamorfosi di Kafka, l’umiliazione, il dolore e l’isolamento del protagonista trovino espressione diretta nel suo corpo. Fin dall’inizio della narrazione, il corpo diventa il fulcro concreto e opprimente della trasformazione. Di conseguenza, il figlio si ritrova inevitabilmente sottomesso a un processo di mortificazione, mentre l’intera famiglia appare attivamente coinvolta nel sostenerlo. L’umiliazione, inizialmente inflitta con una certa esitazione, si intensifica man mano che le circostanze la favoriscono. Gradualmente, tutti i membri della famiglia, quasi senza difese e contro la loro volontà, finiscono per parteciparvi. Il gesto iniziale viene ripetuto ancora e ancora: è infatti attraverso l’agire della sua famiglia che Gregor Samsa, il figlio, subisce pienamente e in modo irreversibile la trasformazione in insetto. All’interno del contesto sociale in cui vive, tale metamorfosi lo condanna ulteriormente a diventare un parassita.
Nel breve testo di Tommaso Landolfi[1]intitolato Il babbo di Kafka, contenuto nella raccolta La spada, sembra manifestarsi il meccanismo psicologico che probabilmente ha ispirato il racconto kafkiano, ossia il complesso e tormentato rapporto con la figura paterna. Tuttavia, in questo caso, il testo dell’autore boemo subisce un ribaltamento. Se nell’opera originale il mostro rappresentava una sorta di proiezione di Kafka, schiacciato dal peso del legame conflittuale con il padre, qui è invece il padre stesso a incarnare quella figura mostruosa. Il padre-mostro viene descritto con un’espressione disgustata, tipica dei momenti in cui si abbandonava a esasperanti rimproveri diretti verso il figlio. Nemmeno l’uccisione finale del terrificante ragno riuscirà a risolvere definitivamente la situazione: Kafka credeva di essersene liberato, ma era solo un’illusione; gli restavano ancora molti altri ragni da affrontare. L’orrore evocato dalla figura del mostro, inspiegabile nella narrazione kafkiana, in questa versione appare illuminato sotto una luce sinistra, amplificata da un ulteriore senso di raccapriccio e profonda inquietudine. Tra i romanzi di Kafka, Il Processo[2] è senz’altro quello che ha meglio contribuito a diffondere nel mondo l’immagine di un’esistenza impregnata di mistero e oppressione, definita comunemente come “kafkiana”. Sin dalle prime pagine, l’opera mette in contrasto due dimensioni dell’esperienza umana che risultano inconciliabili: da una parte, la vita quotidiana ordinaria, dove Joseph K. si presenta come un rispettabile funzionario di banca immerso in un contesto regolato da razionalità e norme giuridiche; dall’altra, l’enigmatico e inquietante universo del tribunale, governato da una logica punitiva arbitraria e implacabile. Il protagonista si ritrova intrappolato in una spirale di disperazione, costretto a cercare di difendere la propria innocenza con la logica, pur sapendo che non potrà mai provarla. L’accusa che lo schiaccia non riguarda un crimine commesso, bensì il fatto di non conoscere la legge e di non riconoscere l’autorità del tribunale che la incarna. È un’accusa tanto sfuggente quanto implacabile, che lo conduce inesorabilmente al tragico epilogo: la sua esecuzione. Nel capitolo IX “Nel duomo” [3]
il sacerdote legato al tribunale racconta a K. una parabola di tono biblico, ormai divenuta celebre, che riporto di seguito: «Non illuderti, – disse il sacerdote. «In che cosa dovrei illudermi?» chiese K. -Ti illudi sul tribunale», disse il sacerdote, «negli Scritti che preludono alla Legge, di questa illusione si dice così: Davanti alla porta della Legge c’è un guardiano. Un uomo di campagna viene da questo guardiano e gli chiede di poter entrare nella legge. Il portiere però gli dice che ora non può permettergli di entrare. L’uomo riflette e poi chiede se allora potrà entrare più tardi. “Può darsi”, dice il guardiano, “ora però no”. Siccome la porta che dà accesso alla legge è aperta come sempre e il guardiano si sposta da un lato, l’uomo si curva per guardare, attraverso la porta, all’interno. Quando il guardiano se ne accorge, ride e dice: “Se ti attira tanto, cerca pure di entrare malgrado il mio divieto. Sta’ attento però: io sono potente… Alla fine la sua vista si indebolisce e non sa se davvero intorno a lui si sta facendo più buio o se sono solo i suoi occhi che lo ingannano. Nel buio però ora distingue un bagliore che riluce ininterrotto attraverso la porta della Legge. Non gli resta più molto da vivere. Prima della morte tutte le esperienze di tutto quel tempo gli si riassumono nella testa in una domanda, che ancora non ha fatto al guardiano. Gli fa un cenno, perché non può più sollevare il suo corpo che si sta irrigidendo. Il guardiano deve chinarsi profondamente fino a lui, perché la differenza di statura è molto cambiata a sfavore dell’uomo. “Cosa vuoi sapere ancora”, chiede il guardiano, “sei insaziabile”. “Tutti desiderano la legge”, dice l’uomo, “come mai allora in tanti anni nessuno tranne me ha chiesto di entrare?” Il guardiano si rende conto che l’uomo ormai è alla fine, e per raggiungere ancora il suo udito che sta svanendo gli grida: “Da qui non poteva essere ammesso nessun altro, perché questo ingresso era riservato solo a te. Ora vado e lo chiudo”».
Nel cuore di ogni uomo si nasconde una porta, una soglia che conduce alla verità, alla legge, a ciò che ognuno cerca e teme. La narrazione del sacerdote è un labirinto di simboli, un enigma avvolto nell’ombra, ma nel suo centro pulsa una riflessione antica e sempre attuale: l’illusione del controllo e il mistero dell’accesso al sapere. L’uomo, con la sua domanda impaziente, si pone davanti alla porta come un peregrino smarrito; la Legge, inespugnabile e sublime, resta lì, silenziosa e distante. E il guardiano? Lui è il custode ambiguo, al contempo ostacolo e guida, che lascia intravedere ma non attraversare. Non è forse questa la metafora della vita? Un incessante tentativo di afferrare qualcosa che sembra sempre sfuggire, nonostante sia lì, davanti a noi? E quel “bagliore ininterrotto” che illumina attraverso il buio? Ci provoca, ci infiamma l’anima: è speranza o scherno? È forse il senso stesso del cammino umano? Ogni passo verso la conoscenza intreccia desiderio e frustrazione, una battaglia tra i limiti che ci contengono e la volontà di superarli. Nel finale, amaro nel testo, si svela l’ultima beffa: quella porta era unica, esclusiva per quell’uomo, riservata a un momento irripetibile che mai fu colto. Come un segreto profondo che si schiude solo nel barlume dell’ultimo respiro. Il guardiano chiude la porta e va oltre, portando con sé una verità che forse non aveva mai avuto voce. Ogni lettore è come quell’uomo di campagna. Ci avviciniamo alle nostre porte personali con dubbi, paura e coraggio al tempo stesso. Ma se c’è un messaggio nascosto in questa parabola inquietante, forse è che non basta desiderare l’accesso: bisogna chiederlo davvero. O forse non chiederlo affatto e semplicemente osare attraversare. Tre elementi fondamentali delineano la complessità del testo: la Legge che emana un bagliore perpetuo oltre la soglia, quasi mistico nella sua intangibilità; l’uomo della campagna, che ingenuamente immagina la Legge come qualcosa di universale e sempre accessibile; e il guardiano, figura paradossale che incarna l’ambiguità—negando l’accesso con decisione, per poi rivelare che quella porta era unica e dedicata esclusivamente all’uomo stesso. Questa combinazione di contrasti e paradossi lascia spazio a una riflessione disorientante e penetrante: la Legge appare eterna e onnipresente, ma inaccessibile; il contadino rappresenta l’inesauribile desiderio di ottenere ciò che si percepisce come diritto naturale; il guardiano diventa simbolo enigmatico di un potere oscuro, crudele, e forse insensato. [4]Il significato ultimo rimane elusivo, sfuggendo a qualsiasi interpretazione definitiva. Kafka, con il suo genio provocatorio, sembra costruire una macchina narrativa che intrappola il lettore in cerchi di dubbi. Chi è il guardiano? È davvero una figura esterna o rappresenta piuttosto il nostro personale sabotatore, quella voce interiore che ci blocca davanti a opportunità uniche, ricordandoci brutalmente il peso dell’incertezza? La scena si trasforma così in uno specchio di esistenza in cui il fallimento di comprendere pienamente non è un errore, ma un’essenza stessa della condizione umana. La lettura de Il Processo, un libro intriso di malinconia e poesia, lascia un segno indelebile: si diventa più tristi, ma anche più consapevoli. Così è, sembra suggerire il racconto, questo è il destino umano; si può essere accusati e puniti per una colpa mai commessa, una colpa sconosciuta che il “tribunale” non rivelerà mai. Eppure, di questa colpa si può provare vergogna, portandola con sé fino alla morte, e forse persino oltre. Tradurre, tuttavia, è qualcosa di più che leggere: uscire da questa traduzione è stato come uscire da una malattia. Così scrive Primo Levi nella nota del traduttore.La tragedia che emerge dai grandi testi di Kafka[5] è il riflesso di un’umanità che si trova imprigionata tra le mura invisibili di un senso che si è sgretolato, lasciando solo frammenti sparsi di razionalità. Ma ciò che rende questa tragedia tanto universale e potente non è solo la scoperta dell’assurdo: è l’irriducibile ostinazione degli esseri umani nel cercare un significato anche dove non esiste. È come aggrapparsi a una corda sospesa su un abisso, pur sapendo che sotto non c’è alcuna rete a salvarci, né alcuna promessa di salvezza. Il senso dell’esistenza è una luce fioca all’orizzonte: intangibile, inafferrabile. Una verità che non può essere svelata, ma che ci condanna inevitabilmente a inseguirla senza tregua. [6]Gli eroi kafkiani si trasformano così in specchi deformanti della nostra stessa condizione: vogliono comprendere, vogliono un perché, ma ottengono solo silenzi o risposte enigmatiche che scavano ulteriormente nella loro angoscia. In questo persistente desiderio di dare ordine al caos si nasconde, paradossalmente, l’elemento più profondamente umano: l’incapacità di accettare il vuoto, la disperazione che si fa spinta vitale. Forse è proprio qui la provocazione più alta della tragedia kafkiana. Non sta solo nella resa all’assurdo, ma nella consapevolezza che è la nostra continua ricerca del senso a creare un conflitto inesauribile. Se smettessimo di interrogarci, se accettassimo il nulla senza opporci, finiremmo forse per liberarci? Oppure, al contrario, cadremmo in uno stato più tremendo, quello dell’apatia totale? Kafka non ci offre risposte definitive; lascia a ognuno di noi il compito di convivere con queste domande aperte. E in fondo, non è forse questo stesso enigma a essere il motore della nostra esistenza?
Maria Allo
[1] Giorgio Luti/ I diversi piani della poetica di Landolfi, (in Letteratura italiana del ‘900, Vol.VI Marzorati, Milano 1979) p.496
[2] Scrittori tradotti da Scrittori Vol.1, IL PROCESSO di Frank Kafka nella traduzione di Primo Levi
[3] Scrittori tradotti da Scrittori Vol.1, IL PROCESSO di Frank Kafka nella traduzione di Primo Levi, Cap. IX pp.233-234
GIUSEPPE DONATEO, Il Maestro del Romanzo Vuoto, Erasmo, Livorno 2017, pp. 265, € 18,00; Pierrot e l’asino di Buridano, Europa, Roma 2021, pp. 238, € 15,90.
Questi due romanzi si basano su una riflessione diretta all’istanza del romanzo stesso, nonché relativa alla crisi della sua composizione; e tale riflessione è un pretesto per rappresentare diverse vicende intrecciate o sovrapposte e alternate fra loro, che riguardano da un lato la circostanza di base, e da un altro lato il romanzo nel romanzo – o il racconto nel racconto.
Da ciò deriva una linea narrativa screziata e provvista di un ritmo variegato, che a partire da questa complicazione di base incorpora nel suo tessuto sia una serie di considerazioni relative alla valenza psicologica ed esistenziale del romanzo – nonché della crisi nella quale quest’ultimo si può imbattere -, sia un insieme di rimandi a mondi narrativi sedimentati nell’immaginario – quali sono quelli dei poemi epici, della visitazione dei contesti storici, o dei fumetti. E in particolare, Il Maestro del Romanzo Vuoto si apre con le amare considerazioni sulla situazione di una crisi nel percorso della scrittura, e si conclude con il recupero di rinnovate energie, che viene raffigurato attraverso la chiamata a correo di una serie di personaggi ed autori che soccorrono l’alter ego dell’autore in questione con un girotondo di felliniana memoria, animato dal supplemento di una giubilazione senza riserve, che lascia emergere i contorni di una festa la quale si libera al di là di ogni legame con il passato della propria esistenza (a differenza di quanto accade in 8½ di F. Fellini); e in modo analogo, Pierrot e l’asino di Buridano inizia con la presa d’atto di una crisi scandita attraverso il monito espresso icasticamente dal numero della pagina che segna l’arresto, e si conclude con una presenza sommessa di una serie di apparizioni in parte reali e in parte immaginarie che hanno animato lo svolgimento precedente; e in entrambi i casi, attraverso la fase intermedia del silenzio, viene preparato lo spazio che rende possibile l’esercizio della scrittura e l’intrapresa creativa.
Per quanto riguarda la struttura di queste opere, si deve sottolineare che la seconda segna uno stadio più complesso, in quanto i contenuti romanzeschi che vengono immaginati hanno un protagonista – Michele -, che nella prima è assente; così, ne Il Maestro del Romanzo Vuoto il protagonista in qualche modo è comunque l’autore – o meglio, quell’alter ego dell’autore che non viene nominato, ma corrisponde solo al pronome egocentrico -, mentre in Pierrot e l’asino di Buridano abbiamo una tortuosa linea di congiunzione e una serie di rimandi che allacciano la più diretta proiezione dell’autore – corrispondente alla figura dell’io – con quella proiezione ulteriore e di tipo indiretto che è data dal personaggio di Michele; e inoltre, questa maggiore complessità dell’impianto di base in questo romanzo corrisponde alla convocazione di una serie di mondi narrativi che nell’altra opera non può essere riscontrata. Ma ancora, questa minore ricchezza di ingredienti narrativi, scenici e spettacolari ne Il Maestro del Romanzo Vuoto è legata a un andamento riflessivo il quale si inoltra nei tornanti di una regione più profonda e abissale, che lascia intravedere il registro di una solitudine affiorante, la quale in Pierrot e l’asino di Buridano almeno in larga parte sembra superata. E la punta emergente di tale solitudine in questo romanzo è data dal tratteggio del personaggio del signor N, che vive tutta la sua esistenza in una specie di limbo neutrale nel quale non si concede alcun contatto verso l’esterno, lasciandosi alle spalle soltanto la sua giovanile immersione nel mondo dell’astrazione matematica.
D’altra parte, all’interno di una tessitura d’insieme meno stratificata che in quest’ultimo romanzo, il primo inserisce una parte la quale costituisce un motivo più complicato di qualunque ordine della complessità che si trova nell’altra opera. A questo proposito, un personaggio che stabilisce rapporti con l’alter ego dell’autore si riferisce a uno scrittore – appunto il Maestro del Romanzo Vuoto – il quale costruisce un’opera parlando di uno scrittore in crisi, che a un certo punto riempie la sua mancanza di ispirazione – o appunto il suo vuoto più o meno assoluto – inventando la storia di N; e ancora, questo personaggio incarna il vuoto medesimo di una intera esistenza. Dobbiamo allora osservare i seguenti elementi: in primo luogo abbiamo l’autore e il suo alter ego che è dato dallo scrittore in crisi nel quale egli si riflette in modo diretto; in secondo luogo abbiamo questo Maestro, il quale a sua volta è uno scrittore che parla di uno scrittore in crisi – per cui l’autore in seconda istanza si riflette nella figura del Maestro, e in una terza istanza, ma in un modo più stringente perché si tratta di uno scrittore in crisi che replica la condizione del protagonista di base centrato direttamente su di lui, si riflette nel personaggio di questo scrittore -; e infine abbiamo il personaggio di N, che nel cuore annidato dentro la complicazione vertiginosa di questo gioco di scatole cinesi incarna la problematica della crisi e del vuoto nella sua intera esistenza. Ma possiamo dire che questo personaggio, se da un lato viene collocato al culmine dell’artificio concettuale dovuto a questa serie di inclusioni – o di istanze di riflessione – le quali si annodano in una spirale attraversata da una inquietudine e da un tormento che lasciano il segno, da un altro lato introduce nel modo più diretto e vibrante la dimensione esistenziale del romanzo; o ancora, a questo proposito, la distanza che viene apposta nei confronti di una modalità di scrittura di tipo diretto, rende possibile di raggiungere il nucleo più intimo e palpitante di quello che viene narrato – o di cogliere la fisionomia più autentica e disarmante fra quelle rappresentate dalle opere in questione. E si deve anche sottolineare che il pathos rivolto alla figura di questo personaggio così drammatico viene espresso nella tessitura scabra di una serie di notazioni lapidarie, che pervengono a un nitore implacabile della descrizione, il quale non potrà essere raggiunto in altri luoghi di questi due romanzi; e non è un caso che i contorni di questa figura con la loro forza concentrata alludano nel modo più estremo a quella dimensione della crisi e del vuoto, che funge da tema fondamentale di quanto viene narrato.
Sotto un profilo più generale, si deve tenere presente che questi due romanzi attraverso l’espediente di un racconto incentrato sulla problematica della crisi creativa, rappresentano una riflessione su quell’orizzonte di apertura dell’opera che è stato messo tema da svariate indagini filosofiche e semiotiche – e in particolare dalle indagini di U. Eco -; e in questo modo, possiamo dire che la problematica di tale apertura viene sondata non solo attraverso le modalità di una gestazione della scrittura in azione, ma anche sotto le specie delle sembianze che si dispiegano nel corso della formazione di un disegno narrativo; o ancora, potremmo dire che questi romanzi rendono palese come le procedure della interpretazione dei mondi narrativi messi in gioco dai romanzi nella loro fisionomia variegata e priva di una chiusura univoca, corrispondano alle esitazioni, alle incertezze profonde e allo spettro delle alternative che si profilano nel cuore della intrapresa creativa. Così in entrambi i romanzi si verifica questa situazione: da un lato abbiamo una sorta di apertura iniziale, che è comune ad ogni sviluppo narrativo ai suoi esordi, ma in questo caso viene marcata in modo peculiare dal fatto che introduce il problema della sua dimensione, attraverso un elemento di riflessione dovuto al motivo della crisi che incombe sull’autore; e da un altro lato abbiamo quella versione dell’apertura che è data dalla conclusione, nella quale il personaggio dello scrittore si accinge a proseguire il suo sviluppo narrativo. E se nel primo romanzo si tratta del passaggio oltre la fase preliminare di una serie di materiali da utilizzare per l’elaborazione della stesura effettiva, nel secondo – quasi nei termini di un seguito della circostanza precedente – abbiamo invece la prosecuzione di una stesura già inoltrata per una vasta porzione. E sia nel primo che nel secondo caso possiamo dire di avere la messa in scena dell’istanza di apertura di un mondo narrativo che si sta profilando, nonché la congiunzione circolare della conclusione del romanzo effettivo, con l’intrapresa di un romanzo incluso nel suo dominio in termini di finzione.
Stabilito questo, si deve tenere presente che la tematica legata al mondo narrativo del romanzo, in entrambi gli esemplari trova dei riflessi che sono dati dalla intrusione dei contenuti che abitano il mondo della finzione; al che, si deve stabilire quanto segue. In primo luogo, ne Il Maestro del Romanzo Vuoto abbiamo una dialettica ricorrente e a tratti ossessiva tra l’autore e le varianti dei personaggi che sono sul punto di entrare nella stesura del romanzo, e si animano del gioco ipotetico di una loro interlocuzione problematica con il padrone del loro essere, in modo che viene tracciata una loro esistenza fittizia e invasiva; e in secondo luogo, in Pierrot e l’asino di Buridano abbiamo l’arredamento di una serie di contesti storici e letterari nonché relativi alla storia dell’arte, i quali dilagano nel tessuto di base della vicenda, arricchendo l’impianto con la loro veste appassionata e sontuosa, che in larga parte attinge all’ambito immaginario. E d’altra parte, l’autore dimostra l’esercizio di un rigore ben definito, che governa la sua abbondante materia lasciando l’impronta di un’autentica padronanza, in grado di veicolare una notevole ricchezza di immagini tenute sotto controllo da una profonda istanza di riflessione.
Commento di Enzo Bacca al tardomodernismo letterario
C’è un bosco fitto di sterpaglie, un fogliame gonfio da far paura, un lamento di voci che sembrano provenire dall’aldilà in cerca di aria, un graffiare di uccelli notturni che richiamano vecchi film dell’orrore. C’è un bosco o selva oscura o foresta senza via d’uscita dove un cavaliere striglia il suo destriero per trovare la luce. Ecco, questo mi par di vedere approcciandomi alla scrittura poetica di Ivan Pozzoni. Un nuovo custode del Santo Graal. La poesia ha bisogno di irriverenze e nuovi profeti che possano oltrepassare a suon di macete o spada o lancia o logos la selva selvaggia ed aspra e forte che nel pensier rinova la paura. Le tematiche trattate con piglio innovativo per quanto riguarda l’estetica pura della poetica di Ivan Pozzoni mi fanno pensare che finalmente esista qualcuno che ha il coraggio di sfrondare e sfondare la stagnante retorica della consuetudine poetico-letteraria che non avvampa per nulla lo scrivere in versi degli ultimi tempi. Ivan scompone quel muro e lo riedifica come alcuni palazzi costruiti nell’edilizia giapponese che dopo vent’anni vanno ricostruiti e rieducati ad un più giovanile senso della composizione. Ben venga questo sbriciolamento a polpastrelli stretti del fogliame sottoboschivo. Nuovo linguaggio che a dire il vero mi ricorda alcuni ardimenti degli anni sessanta e settanta del novecento, che lo stesso poeta inaugura in neoN-avanguardistici. Sì, perché di avanguardia si può ben tradurre il dettato che il poeta monzese propone disponendo l’efficace trama che sgorga dal filosofico e sfocia nell’energia vibrante e lavica d’un vulcano super attivo. Un lanciafiamme, come Alessandro Fo, in una recente nota sul giornale La Fonte, definisce il poetare di alcune penne che “scuotono le sillabe con voce tesa e quasi impostata a grido di guerra”. Un manifesto poetico da esporre senza porsi troppe domande e sconfinamenti questo dell’uomo Ivan, filosofo e stratega di battaglia ma anche missionario e medico di bordo della parola con la consapevolezza che nel “mangrovico” mondo della poesia moderna, ben si stagli una voce cristallina e allo stesso tempo martellatrice. Martello pneumatico che rompa le zolle cementificate e stagnanti d’un mondo bigotto e ignavo e senza memoria.
Di seguito un file scaricabile contenente il commento di Enzo Bacca riportato qui sopra e dieci riots di Ivan Pozzoni
Ivan Pozzoni è nato a Monza nel 1976. Ha introdotto in Italia la materia della Law and Literature. Ha diffuso saggi su filosofi italiani e su etica e teoria del diritto del mondo antico; ha collaborato con con numerose riviste italiane e internazionali. Tra 2007 e 2018 sono uscite varie sue raccolte di versi: Underground e Riserva Indiana, con A&B Editrice, Versi Introversi, Mostri, Galata morente, Carmina non dant damen, Scarti di magazzino, Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni,Cherchez la troika e La malattia invettiva con Limina Mentis, Lame da rasoi, con Joker, Il Guastatore, con Cleup, Patroclo non deve morire, con deComporre Edizioni. È stato fondatore e direttore della rivista letteraria Il Guastatore – Quaderni «neon»-avanguardisti; è stato fondatore e direttore della rivista letteraria L’Arrivista; è stato direttore esecutivo della rivista filosofica internazionale Información Filosófica; è, o è stato, direttore delle collane Esprit (Limina Mentis), Nidaba (Gilgamesh Edizioni) e Fuzzy (deComporre). Ha fondato una quindicina di case editrici socialiste autogestite. Ha scritto/curato 150 volumi, scritto 1000 saggi, fondato un movimento d’avanguardia (NeoN-avanguardismo, approvato da Zygmunt Bauman), con mille movimentisti, e steso un Anti-Manifesto NeoN-Avanguardista, È menzionato nei maggiori manuali universitari di storia della letteratura, storiografia filosofica e nei maggiori volumi di critica letteraria.Il suo volume La malattia invettiva vince Raduga, menzione della critica al Montano e allo Strega. Viene inserito nell’Atlante dei poeti italiani contemporanei dell’Università di Bologna ed è inserito molteplici volte nella maggiore rivista internazionale di letteratura, Gradiva.I suoi versi sono tradotti in francese, inglese e spagnolo. Nel 2024, dopo sei anni di ritiro totale allo studio accademico, rientra nel mondo artistico italiano e fonda il collettivo NSEAE (Nuova socio/etno/antropologia estetica).