Varallo ti prende, ti scuote, ti modella, ti lascia segni indelebili. Non importa da dove vieni, la valle ti entra dentro e, piano piano, ti fa diventare parte di lei. Marisa Pesenti lo sapeva bene. Non era nata in Valsesia, ma in una valle vicina, eppure la valle di Varallo l’aveva plasmata più di quanto lei avrebbe mai immaginato. Quando la incontrai, era una donna con i capelli corti, bianchi come la neve che ricopre le montagne d’inverno, ma con un’espressione che tradiva una gioia viva e autentica. Era una signora un po’ in carne, non obesa, ma con una presenza che riempiva la stanza. I suoi occhi scuri, lucidi, erano come finestre spalancate su un mondo fatto di fatica e di storie, di solitudine e di coraggio. Un volto segnato dalla vita ma capace di sorridere con leggerezza, come chi ha imparato a non prendersi troppo sul serio. «La valle ti cambia, sai?» mi disse quasi subito, mentre sistemava alcuni oggetti sul tavolo davanti al suo negozio, quel “Al Ciadel” di cui andava tanto fiera. La porta del negozio era sempre aperta, come un invito silenzioso ad entrare, a perdersi tra mucchi di vestiti d’epoche diverse, oggetti curiosi, vecchi gioielli, e ogni sorta di piccoli tesori che raccontavano storie dimenticate. «Non importa se non sei nata qui. La valle ti entra dentro e ti trasforma. Io sono arrivata qui dieci anni fa, ma ormai sono una di loro.» Marisa aveva quella forza tranquilla delle donne che hanno conosciuto la durezza, che hanno dovuto costruire intorno a sé delle corazze invisibili. Mi raccontò di sua madre, una donna “fredda”, diceva, ma non nel senso di insensibile: era la freddezza di chi deve resistere, di chi ha imparato a non mostrare troppo, perché altrimenti la vita, qui in valle, ti travolge. «Mia madre era così,» continuò, «come molte donne di queste montagne. La vita ti plasma, ti fa diventare dura. A dieci anni già facevano le inservienti nelle case delle famiglie ricche. Non c’era altro modo per sopravvivere.» Mi parlò di quel tempo con un misto di nostalgia e rassegnazione. La valle era dura, le giornate interminabili, il lavoro pesante e spesso solitario. Gli uomini partivano per cercare fortuna altrove, lasciando a casa le donne, che dovevano prendersi cura di tutto: della campagna, degli animali, dei figli. A volte portavano con sé anche le culle per non lasciare i bambini soli mentre lavoravano nei campi. «La testa dura ce l’abbiamo per forza,» disse, sorridendo con un lampo negli occhi. «Altrimenti non saremmo arrivate a questo punto.» Il negozio di Marisa,“Al Ciadel”, è una specie di santuario del passato e del presente, un luogo dove ogni oggetto racconta una storia, una vita. Vestiti di epoche diverse, oggetti d’antiquariato, gioielli fatti a mano — tutto disposto in un disordine che, però, pare avere un suo senso nascosto, come se ogni cosa sia al posto giusto nel caos. Un tavolo di legno rettangolare, davanti all’ingresso, è sempre pieno di ogni sorta di oggetti: vecchie borse, collane di granati, libri ingialliti, foulard, bottoni e scatole di latta — un pasticcio ordinato, appunto.
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«Guarda queste collane di granati,» mi mostrò, prendendone una e facendola brillare alla luce. «Le pietre rosse della valle. Le trovavano nelle discariche dei ghiacciai, quei ghiacciai che ancora oggi nascondono segreti.» Mentre parlava, era come se la valle parlasse attraverso di lei. Le sue parole dipingevano un quadro vivido di una terra aspra, fatta di fatiche e di piccole gioie, di un legame indissolubile con la montagna. Fu allora che cominciò a raccontarmi della tradizione più preziosa che custodiva con orgoglio: il puncetto valsesiano. «Sai cos’è il puncetto?» mi chiese, con quel tono dolce e deciso che solo chi conosce una storia a fondo può avere. «È la nostra arte antichissima, la lavorazione con cui decoriamo le nostre camicie, la biancheria di casa, e ancora oggi i gioielli.» Mi spiegò che le prime tracce di questa lavorazione risalgono addirittura al 1685, quando un atto notarile certificava la decorazione a “puncetto” di un grande fazzoletto bianco. «Il puncetto non è come l’uncinetto o il merletto,» continuò, «qui si usa solo un ago e del filo di cotone. Ogni punto, ogni nodo, è fatto a mano, uno dopo l’altro. La pazienza è il segreto: migliaia di piccoli nodi si uniscono per creare quei disegni preziosi, fatti di pieni e di vuoti, che sembrano piccoli cristalli di neve.» Il nome stesso, puncetto, viene dal dialetto valsesiano, dove punc significa “punto”. E quei punti, combinati, danno vita a un pizzo così resistente che sembra un tessuto, capace di durare secoli. Marisa mi raccontò come i disegni fossero ispirati alla natura circostante: i cristalli di ghiaccio, i fiocchi di neve, le forme geometriche della montagna e dei boschi. Prima di iniziare a lavorare il filo, si disegnava lo schema su un foglio a quadretti, e poi, con infinita precisione, si annodava punto per punto. «Una volta,» mi disse con un sorriso, «questi pizzi decoravano i vestiti tradizionali, le camicie ricamate, la biancheria delle case. Quella tradizione, come tante altre in valle, non era solo un’arte, ma una vera e propria testimonianza di resistenza e identità. Era il modo con cui le donne di Varallo avevano narrato la loro storia, con le mani e con il filo, in mezzo a una vita di fatica e silenzi. Mentre lei parlava, provava alcuni foulard decorati, avvolgendoli con cura attorno al collo. In quel gesto semplice, il racconto prendeva forma e la storia di quelle donne si faceva palpabile. «Varallo è chiusa,» mi confessò con un sospiro, «ma chi ci vive dentro, chi la conosce davvero, sa che sotto questa scorza dura c’è un cuore grande. Basta voler vedere.» Ricordo che il 28 giugno ero arrivata a Varallo con il cuore pieno di aspettative, venendo da Bologna in cerca di storie autentiche da raccontare. Non avevo idea di quanto quei giorni sarebbero stati importanti per me. Il 29 giugno tornai da lei, richiamata dalla forza delle sue parole e dalla profondità del suo sguardo. Sentivo che la sua voce portava in sé tutta la memoria della valle, il ricordo di chi aveva vissuto quella durezza, di chi l’aveva affrontata con coraggio e dignità. Marisa era una di quelle persone che la valle aveva scelto, che la valle aveva formato come un artigiano plasma il legno grezzo. La sua fisiognomica, il modo in cui portava i capelli corti e bianchi, la pienezza del suo corpo non eccessiva ma sicura, e quell’espressione che alternava la gioia alla durezza, tutto parlava di una vita costruita a strati, con tenacia e amore. Ricordava come sua madre, con quella freddezza indispensabile, fosse riuscita a superare gli ostacoli di un’esistenza fatta di silenzi e sacrifici. Mi spiegò che la vita in valle imponeva un certo modo di essere: «Ti fa mettere delle corazze,» disse, «perché senza quelle, la vita qui ti spezza.» Eppure, nonostante tutto, Marisa aveva scelto di restare, di costruire il suo piccolo regno in “Al Ciadel”. Ogni oggetto era un pezzo di storia, ogni vestito una testimonianza, ogni gioiello un ricordo antico. E così, tra i mucchi di vestiti, i foulard e i granati, tra le storie dei marmoristi partiti per Francia e Svizzera, tra i racconti di donne sole con i figli e con la fatica, si formava un tessuto vivo che narrava la Valsesia più vera, quella che non si legge sui libri ma si sente nel cuore. Quando uscii da “Al Ciadel”, il sole era calato dietro le montagne, e le ombre della sera si allungavano sulle vie di Varallo. La contrada del burro, con gli ombrelli appesi a decorare la strada, sembrava un dipinto di una vita sospesa nel tempo. Sentii che avevo trovato qualcosa di prezioso, qualcosa che avrebbe accompagnato i miei passi da quel giorno in poi: la voce autentica di una valle che plasma, trasforma, resiste.
Il pegno delle donne della Valsesia
Nel volto di pietra, svelata all’alba, la valle scolpisce rughe di ghiaccio, donne di silenzio, come l’anima della terra, che portano il cielo come un peso lieve.
Gli orecchini pendono, pendoli di tempo, granati rossi, cuori di sangue cristallizzato, fili d’oro basso, come vene d’antica speranza, piccole lune di luce da staccare in disgrazia.
Quando il vento morde il respiro, quando l’inverno inghiotte il pane e la voce, le mani stanche, fragili e dure, strappano un frammento di quel sogno lucente.
Lo vendono al banco dell’oro, pegno e promessa, moneta di dolore, pegno di ritorno, perché il cuore della valle non si spezza, ma torna a brillare, più forte e più fiero.
Donne di granito, con occhi di vetro nero, sognano nel silenzio un mondo che trema, dove il puncetto è un fiocco di neve sospeso, e il filo sottile intreccia coraggio e memoria.
Sono tempeste chiuse in un sorriso, acqua gelida che scorre sotto la crosta, e nella durezza, come un fuoco nascosto, arde il segreto incantato della rinascita.
Piet Mondrian, Composition with large red plane, yellow, black, grey and blue (1921)
La poesia è anche incontro, una geometria di rette a volte parallele, altre volte perpendicolari. Similmente al quadro di Mondrian un reticolato vivo e riccamente colorato. Nell’ambito della rubrica Versi Trasversali, presentiamo la poesia di …
CHIARA MIGLIUCCI
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ROSSO POMPEIANO
Abbiamo ridipinto tutti i sogni
con il rosso delle nostre vene
affinché la Vita non morisse mai.
E io ho corrotto il tempo
con petali di Papavero,
per donarci ancora un attimo
prima che la terra inghiottisse
i nostri ritratti.
Ora passanti ammirano scempi di vita
e li catturano su pellicole
illudendo la luce del sole
di valere quanto le fiamme
che illuminarono il nostro sangue.
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Ti ho spiato vivere
come un satellite fa con la terra.
Avrei voluto partecipare alla festa.
Ma che colpa ho io?
di avere occhi che guardano
e vedono troppo.
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Urlare al cielo
aspettando che lui pianga per te
e ricevere da lui
nient’altro che un nulla
di nuvole bianche.
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Il chiaro di luna
mi riluce dalla pelle.
Ora, sono il filo di vento
che ricuce le stelle.
Dimmi cosa vedi
quando ti sporgi dagli occhi,
e cosa ti incanta alla soglia;
voglio il motivo
per cui il soffio del cielo
non ti muove una foglia.
Dimmi, cosa ti scotta le dita,
perché ti scarti
e ti rifugi in fondo alla vita.
Dal corridoio delle tue arterie
ti spio ascoltare il cuore degli altri,
e vortica in te, il ciclone di pupille opache.
Svanisce in un nulla la fine,
se ti sento correre scalzo
in mezzo alle frazioni del mio sorriso.
**
POESIA
Ho decostruito mattoni inerti
ma senzienti
per fare spazio a parole più dure
cinetiche,
ermetiche.
Ma in bilico
su terra marcescente.
Versi liberi
attorcigliati in gusci
lenti da snocciolare,
lobi frontali corrugati in frattali.
Ti prego
scovane il senso
sfila i lacci
dai senso a numeri sparsi
in serie di Fibonacci.
Sfonda pavimenti di fango,
insicurezze e paure
col peso di preziosi
numeri primi.
Testi di Chiara Migliucci, tratti da “Effetto Doppler”, Nulla die, 2024.
Il giorno che ho imparato a leggere il cielo
portavo gli occhiali spessi,
e le mosche galleggiavano sul mio orizzonte
come avevano predetto
gli specialisti del ramo.
Sapevo distinguere il vuoto dal pieno
come gli antichi àuguri il volo degli uccelli
e la direzione che prendono le foglie
sul tappeto di un ottobre
malinconico e taciturno.
Mi avevano insegnato a capire
indicandomi gli alfabeti
nelle varie dimensioni
che il peso delle nuvole
varia già alle prime letture
e che alcuni dei grandi blocchi
di materia celeste
sospesi in alto e in basso
senza un motivo apparente
possono essere spiegati
oltre che ai bambini
anche ai vecchi
sfogliati e descritti
nel loro silenzio cifrato
ascoltati nei loro lontanissimi appelli.
Ma non mi è bastato apprendere e divagare
presto ho dimenticato le lezioni di guida
i maestri li ho persi lungo il cammino
diventati troppo numerosi e discordi.
Mi rimane un piccolo orecchio musicale
e una voglia di fermarmi ai lati della strada
quando si formano in cielo cumuli sparsi
pagine e pagine di leggère preghiere.
Siegfried Sassoon nel “Prisma lirico” di oggi conVasilij Kandinskij
traduzione di Loredana Semantica
L’ira di ottobre muggendo spacca e devasta l’artiglieria di bronzo del bosco sotto attacco nel cui lamento sento una voce dolente per il fallimento della battaglia e per la faida che oltraggia gli uomini. Le loro vite sono come foglie sparse in stormi di rovina, disperse e gettate nella fornace che arde rossa verso occidente. Oh gioventù martirizzata e virilità sconvolta, il peso dei vostri torti è sulla mia testa.
October’s bellowing anger breakes and cleaves The bronzed battalions of the stricken wood In whose lament I hear a voice that grieves For battle’s fruitless harvest, and the feud Of outrage men. Their lives are like the leaves Scattered in flocks of ruin, tossed and blown Along the westering furnace flaring red. O martyred youth and manhood overthrown, The burden of your wrongs is on my head.
Vasilij Kandinskij
Poesia: Autunno di Siegfried Sassoon da “Counter-Attack and Other Poems“, 1918
Opere:
di Vasilij Kandinskij, Park of St Cloud-Autumn, 1906
Addendo al rumore,
minuendo al silenzio,
che farcene della fragilità,
tiene le arterie dischiuse
aggrappate al peso delle braccia,
dovremmo dell’antro toccare il fondo,
su questa sterrata sbatterci contro,
scuoterne il senso, strizzarne la goccia
almeno che scenda nel ventre, collosa,
di cuore, così, intrisa. Annaspa l’amaro
in gola, è cruda colatura d’argilla,
muta di segno, come a novembre,
l’ora va breve, discrasia nodosa:
quale laceramento la ricerca,
aporia interrotta dal respiro,
è logora questa latenza,
servirebbe una visione,
un paesaggio inatteso
che lasci alle cose frante
la cura, una rosa.
*
Alla vista già sfinita dei campi,
in ogni posto, ci attende il tracciamento
per il viaggio che riprende.
E, nel corso, ritorna il desiderio.
Con le sue voci lo trascina il giorno
che s’oscura della luce di settembre
al gonfiore crudele del cielo
tanto azzurro da strappare il fiato,
nella speranza che arrivi presto
la pioggia, un temporale, una tempesta
a dissipare l’ansia di questa stagione muta:
acqua rovinosa, cupa, bella,
che s’appigli, furente, agli alberi, alle case,
al tronco nudo dell’anima sospesa.
*
Cleopatra è risorta dal veleno degli aspidi,
si dimena tra le lenzuola il suo corpo livido:
l’altera presenza non è violazione del culmine
ma triste notazione di lune che parlano agli astri
spegnendosi, ad una ad una, nel buio.
Aveva ragione Antonio nel forgiare
le lunghe catene di bronzo,
non doveva lanciare sassi gravidi
nel limo per misere curve dischiuse,
cedere il passo alla piovosa mattina
di luglio spaventato dal fuoco:
lei, ora, gli scaglierà addosso il marchio
dell’aquila e conterà le prede all’avvoltoio.
Pesano i morti nel soffio delle lagune
sui campi d’avena bagnati dal Nilo.
Dicono del naso, che fosse quello il riscontro
della vera bellezza, altro non vedo che il taglio
acuminato degli occhi ripassati d’antimonio:
ecco, il veleno riprende vigore, corre nelle vene,
affranca la voglia di vita, rinasce la regina
tra i mortali, respira come rosa nel deserto.
*
E di nuovo l’autunno: pochi lumi
spiano le case, il vento alita su bocche
assise alle finestre dondolanti d’erba
e lontano muore l’ultimo tramonto,
echi di piogge spingono a bramosi
passi le voglie di una terra marcita.
A folate si destreggiano nel cielo
uccelli neri in preda al volo
nudi come le anime dei viandanti
e corrono i rotori corrono sull’asfalto
scroscianti di cristalli maculati.
S’oscura, offesa, una crisalide di sposa.
Dov’è il sentore, dimmi, mi amor
dove la pallida sorpresa che allude
al calore di questo gioco astrale?
Resta una foglia che, stanca, si riposa
sul ramo e, tremula, vacilla, resiste
ma poi si spezza e cade, arresa.
*
È solo un sospetto, un istante che passa
a ghermire i palpiti distrattamente,
quasi falciati da chissà quale massa
critica che ottenebra la nostra mente.
Noi, che corpo e sangue siamo ancora,
l’odore occluso dalla caligine d’ottobre
al nitido lenir del giorno accesi, ora,
che niente ci rimane, niente ci ricopre.
E ci consuma l’algia dell’attesa
perché, con vino e rose, il sesso è andato
e quel che viene non è più sorpresa
ma l’inutile perpetrarsi del peccato.
Eppure vorremmo chissà cosa e quale
sentire, con quanta voglia e quant’arsura:
fuori c’è pioggia, presto tornerà il sole
a segnare il passo, il ritmo, la misura.
Antonio Tammaro, “Via da questa arsura”, Fallone Editore, 2024.
Con questa reinterpretazione del Pater Noster, le riflessioni di Dante assumono una matrice francescana, richiamando esplicitamente il Cantico delle Creature. Esse non si concentrano sull’individuo, bensì abbracciano l’intera umanità, come chiaramente evidenziato nell’ultima terzina (vv. 22-26).
«O Padre nostro, che ne’ cieli stai,
non circunscritto, ma per più amore
ch’ai primi effetti di là sù tu hai,
laudato sia ‘l tuo nome e ‘l tuo valore
da ogni creatura, com’è degno
di render grazie al tuo dolce vapore.
Vegna ver’ noi la pace del tuo regno,
ché noi ad essa non potem da noi,
s’ella non vien, con tutto nostro ingegno.
Come del suo voler li angeli tuoi
fan sacrificio a te, cantando osanna,
così facciano li uomini de’ suoi.
Dà oggi a noi la cotidiana manna,
sanza la qual per questo aspro diserto
a retro va chi più di gir s’affanna.
E come noi lo mal ch’avem sofferto
perdoniamo a ciascuno, e tu perdona
benigno, e non guardar lo nostro merto.
Nostra virtù che di legger s’adona,
non spermentar con l’antico avversaro,
ma libera da lui che sì la sprona.
Quest’ultima preghiera, segnor caro,
già non si fa per noi, ché non bisogna,
ma per color che dietro a noi restaro».
Il valore della preghiera e del rito che ne accompagna la recitazione emerge in tutta la sua chiarezza: rappresenta il cuore della proposta francescana, che invita l’umanità a elevarsi e a riconoscere con consapevolezza i propri limiti. È un’umiltà che si rivela grande proprio per la sua capacità di superare la vanità e i rapporti umani deteriorati che essa genera, scegliendo invece di incarnare valori profondi. L’essere umano raggiunge il simbolico stato di “angelica farfalla” solo nel momento in cui abbandona l’illusione di autosufficienza, scoprendo il bisogno dell’aiuto divino e della solidarietà tra gli uomini. Un bisogno che le anime incontrate da Dante non seppero cogliere nella loro vita terrena.
Ma chi vi tolse la sabbia dalle scarpe, quando doveste alzarvi per morire? La sabbia che Israele ha riportato, la sabbia del suo esilio? Sabbia rovente del Sinai, mischiata a gole di usignoli, mischiata ad ali di farfalla, mischiata alla polvere inquieta dei serpenti, mischiata a grani di salomonica sapienza, mischiata all’amaro segreto dell’assenzio.
O dita, che toglieste ai morti la sabbia dalle scarpe, domani già sarete polvere nelle scarpe di quelli che verranno!
Nelly Sachs, in Versi in libertà/Trenta poetesse da tutto il mondo di Maria Grazia Calandrone, Mondadori, 2022
Maria Allo legge la poesia di Adam Zagajewski “6 luglio 1980”
Una grande potenza, lasciandosi guidare dalla cura per la propria sicurezza, occupa il paese vicino. Un milione di profughi, fra i quali donne, bambini e anziani, si accampa vicino alla frontiera della propria patria. Gli uomini, armati di fucili Ottocenteschi, vanno sulle montagne per combattere Con l’invasore anelante sicurezza. Il presidente Di un’altra grande potenza Sorride con tristezza. Gli europei per tre settimane febbrilmente discutono lo sviluppo degli eventi. La gioventù di sinistra tedesca protesta contro gli armamenti e programma in caso di guerra la creazione di piccoli, mobili reparti di autodifesa, armati di fucili ottocenteschi. Un direttore d’orchestra americano invita, per gli ultimi giorni prima della fine del mondo, ad ascoltare la musica di Beethoven. Un funzionario di banca in pensione presenta in televisione nastri magnetici con le registrazioni delle voci dei morti. I morti non hanno molto da dire, elencano i propri nomi, piangono o ci salutano con urli d’uccelli, brevi come un sospiro. Tu e io siamo seduti davanti alla finestra aperta, guardiamo le verdi scure figlie dell’acero, è domenica, piove, ridiamo dell’onniscienza dei giornalisti e della vacuità dei politici. Siamo impotenti e sereni, ci sembra di capire più degli altri.
Adam Zagajewski Guarire dal silenzio – Nuovi versi e poesie scelte, Mondadori a cura di Marco Bruni
Antonella Pizzo legge la poesia “C’è un qualcosa che scorna” dalla raccolta “Barracuda” di Loredana Semantica, Terra d’ulivi edizioni, 2024
C’è un qualcosa che scorna sbattendo sui muri d’amianto e nel sorriso insolente di chi ha centrato il bersaglio c’è la perdita dell’etica trame e tragedia il luogo altolocato dei complotti e ben prima di adesso molto prima di qui la perdita del sacro.
Brandisce le armi una guerra cola scempio dovunque conduce un assalto un affondo nell’aria mitraglia c’è un coltello che taglia la violenza che grida un mare per tomba una bomba.
Piangete la domanda ora e il messaggio piangete le madri col velo sulla bocca nere fosse negli occhi formate un bavaglio e scalciate fiorite di buono abbiate stelle tra le mani non più per l’uomo o la donna lavorate il profondo salvate la pelle ai bambini.
“Nastassia” è un racconto di Stefano Benni, tratto da Il bar sotto il mare del 1987. L’opera comprende 24 storie; 23 di loro sono raccontate dai clienti, l’ultima dall’Ospite. All’inizio del libro c’è un disegno che rappresenta le sagome di tutti i personaggi indicati con i numeri, legenda che ci aiuta a orientarci meglio nella storia, segue una fotografia dei personaggi. Ogni racconto presenta la stessa struttura: prima Benni menziona il nome del narratore, seguito dal titolo della storia e poi da una citazione letteraria che riassume la morale contenuta nelle storie che seguono. Nel bar sottomarino Benni descrive ventitrè personaggi che si incontrano e raccontano storie di diverso genere: storie felici e tristi, gialli, horror, parodie di opere celebri. L’ospite è invitato a rimanere per ascoltare i narratori, in caso contrario non potrà mai uscire dal bar e tornare a casa. I narratori non hanno un nome, Benni gli dà un nome tratto dalle loro caratteristiche tipiche: il primo uomo col cappello, la bionda, il venditore di tappeti, il marinaio, il ragazzo col ciuffo, la sirena, ecc. La storia di Nastassia è raccontata dall’uomo invisibile. Si tratta di un racconto breve ma intenso e struggente. Gregorij Alexeij Alexandrevič è innamorato di Nastassia Nicolaevna e sta aspettando la risposta della ragazza alla sua dichiarazione d’amore. Per seguirlo a Pietroburgo lei dovrà lasciare la sua casa e la sua famiglia. Mentre lui si dirige verso il capanno del giardiniere, immerso nei suoi sentimenti di beatitudine e allo stesso tempo di angoscia, sono evocate le immagini delle tortore che tubano e di un fringuello che prende il volo. L’atmosfera è romantica e nostalgica, i due si incontrano, la ragazza accetta la proposta di Gregorij. Sembra che per una volta l’amore stia trionfando ma il colpo di scena finale ribalta completamente le aspettative e invita a riflettere sull’imprevedibilità della vita.
IL RACCONTO DELL’UOMO INVISIBILE
NASTASSIA
«L’unica passione della mia vita è stata la paura.»
(Thomas Hobbes)
Gregorij Alexeij Alexandrevič percorreva col cuore in tumulto il viale di betulle che portava al capanno del giardiniere. Su tutto aleggiava una luce dorata, intensa e gradevole che penetrava persino nell’ombra. Le tortore tubavano senza sosta, un fringuello spiccó il volo da un ramo di lillà verso una nuvola rosa, opalescente come la lampada che Gregorij aveva visto la sera prima sul tavolo di Nastassia Nicolaevna. Nastassia! Al solo rievocarne il nome il cuore appassionato di Gregorij precipitava in un abisso ove beatitudine e angoscia erano avvinte, senza che una potesse lasciare l’altra, nella fatale estasi della caduta. Nastassia! Gli sembrava di udire quel nome nello sciabordio del fiume, nel respiro di ventaglio delle chiome dei tigli, nel canto appassionato del cuculo. Nastassia, egli ripeté a bassa voce, trattenendo sulle labbra ogni sillaba di quel nome, degustandola come l’elisir che avrebbe potuto dare la vita, o toglierla. Nastassia! Cuore mio, non fuggirmi dal petto! Il capanno del giardiniere era coperto da un manto di edera rossa che riluceva nel tramonto con sfumature di fiamma e rubino. Mojka, la cavallina di Nastassia brucava pigramente, ancora sudata per la corsa. Lei dunque c’era! Era venuta! Cuore, un attimo ancora, intimò Gregorij Alexandrevič, avvicinandosi al capanno. La mano del giovane aprì lentamente la porta, che cigolò con discrezione, quasi a dimostrare che anch’essa conosceva la segretezza di quell’incontro. Nastassia Nicolaevna sedeva su un ceppo di ciliegio. La veste bianca brillava nella semioscurità come un esotico fiore misterioso, e i piedini ondeggiavano come due uccellini nervosi. Nastassia sorrise al giovane e con un gesto irresistibile, scostò dalla bianchissima fronte una ciocca dei capelli ricci. Gli occhi celesti brillarono di una luce seducente. Dio, com’era bella! Pensò Gregorij Alexandrevič, avvicinandosi, e ammirandone, come se fosse la prima volta, il delicato ovale. il disegno sensuale della bocca, la quieta pienezza delle spalle candide. E quei piedini inquieti, quelle caviglie da angioletto d’alabastro! O cuore mio!
– Volete dunque la mia risposta? – disse Nastassia abbassando gli occhi.
Cuore, resisti, pensò Gregorij Alexandrevič, nell’udire quella voce, quella voce che sapeva leggere i più delicati versi di Puškin come domare gli scarti dei cavalli e le bizze della servitù.
– Ebbene la mia risposta… – disse Nastassia. E tacque a lungo.
Cuore, resisti! Quanta grazia e pudore, pensò Gregorij, in questa donna che non vuole forse ferirmi con un rifiuto, o forse ha un ultimo momento di naturale timidezza nel pronunciare le parole che la porteranno lontano dal luogo ove è nata, dal luogo che ha illuminato con la sua incomparabile bellezza.
– La mia risposta è sì – disse Nastassia tutto d’un fiato -Gregorij Alexandrevič, verrò con voi a Pietroburgo e sarò vostra moglie.
– Nastassia! Nastassia! – sospirò Gregorij Alexandrević e non aggiunse altro. Stramazzò tra l’edera crepitante e il soffice muschio, fece appena in tempo a vedere i piedini di Nastassia che si avvicinavano allarmati, poi più nulla. Il cuore appassionato di Gregorij Alexandrevič non aveva resistito.
Stefano BENNI, «Nastassia», in Il bar sotto il mare, Universale Economica Feltrinelli, Milano, 2016, pp. 75-77.
Quello che fa l’autunno
è un bel lavoro di rifinitura
raccogliere e smaltire
ripulire dagli errori di fabbrica
far sentire le ruote dentate
di un tempo ineluttabile
che dà l’illusione del ripetersi
passare l’ultimo smalto opaco sulle foglie
addolcendo la secchezza dei vasi di linfa
che si intravedono in filigrana.
Un lavoro infame per prepararti a crepare
arrivando perfino a convincerti
che quei colori che ti sembrano accesi
non sono i colori di morte e di putrefazione
ma l’acquerello che si scioglie nel tuo cuore.
Grande e compassionevole è la natura
che riduce il tuo dolore di esserci
chiedendoti scusa con il gioco del cielo.
(opera vincitrice della sezione prosa artistica del Premio Lorenzo Montano 2025)
“L’altro sguardo” di Isabella Bignozzi
Nota di lettura di Maria Allo
Leggere Fermagenesi significa attraversare la soglia di una dimensione intima e raffinata, dove le parole di Isabella Bignozzi si fondono in un tessuto pulsante, intriso di luce e significato. Nell’opera prendono forma fermenti cromatici e mistici che generano un dialogo profondo tra il mondo dei colori e quello della spiritualità. L’autrice invita il lettore a esplorare le emozioni più autentiche, aprendo uno spiraglio su un angolo sacro e prezioso della propria anima. È un’esperienza che nutre lo spirito, stimola la riflessione e instaura una connessione autentica tra lettore e scrittore. La scrittura assume qui il ruolo di strumento d’introspezione, un viaggio nei recessi del proprio sé che porta ad osservare e affrontare coraggiosamente i lati più oscuri dell’esistenza. In questo percorso, si abbandonano posture desideranti e fertili di immaginazione – quella che, seguendo le parole di Simone Weil, tende a chiudere ogni via alla grazia – per raggiungere una parola meno razionale ma profondamente viscerale e visionaria. L’aspetto peculiare dell’opera si manifesta nella straordinaria abilità di adottare il “coraggio dello sguardo” come plasma puro ,una forza che permea ogni frammento, conferendo all’intero lavoro di Isabella Bignozzi una profondità davvero unica e trasformativa: “ Fermagenesi che non demorde, riparte da dentro, dall’intimo profondo, quello esilissimo che dice l’occhio capovolto nell’involucro, e come una guida montana sa la via suprema verso il basso, pulsazione di suono che chiama il centro, nel rosso cuore battente dei bassi che ripetono i passi, alzando il nome al varco aureo della presenza” (p.29). Per richiamare l’autenticità, è necessario utilizzare una lingua di straordinaria purezza, seguendo il percorso delineato da Isabella: un viaggio impregnato di letture e scritture lontane, quasi sospese nel tempo, simili a una preghiera silenziosa e profonda che si orienta verso ciò che è essenziale. Scriveva la Cvetaeva: “io non penso io ascolto. Poi cerco un’incarnazione esatta della parola”. Questo processo si realizza attraverso una sintesi precisa e calibrata, quasi alchemica, capace di trasformare il linguaggio in una fiamma sacra. Secondo Cristina Campo, solo con un cuore libero si può osare oltrepassare i confini dell’impossibile. Isabella, in Fermagenesi descrive questa idea con poetica intensità: “Rossi erano i cuori battenti, un attimo prima del mondo. Era una polifonia lo spazio che dirigeva il sogno, una fusione di reale, scenario sinfonico che puntinava dettagli di semicroma, tutti i capi reclinati sulla partitura, come i calici irradiati da un’aurora di animale disciolto, muto nel bene, dorato di vita senza bordo, sempre su una riva di amore selvatico, che avvampava senza pensiero e senza margine” (p.35). Creazione e Caduta offre una visione originale sull’origine del mondo, presentandola attraverso una prospettiva unica e suggestiva. Isabella indaga il concetto di un movimento immobile, quell’istante eterno che rappresenta l’inizio di ogni principio e che si ripete senza sosta. È in quel momento di immobilità dello sguardo che si accoglie il talismano: uno strumento che permette di percepire i millenni come forme circolari e leggere, privi di angoli, simili a un miraggio avvolgente. Eppure, questa quasi nullità che ci definisce sembra divertirsi a interpretare la tragedia, proprio in quel luogo dove il tempo non trova tregua. ll concetto di una genesi senza fine “interminato soffio che sopravvivi nella durata, una staffetta di fiati “sembra evocare un continuo processo di nascita e rinnovamento, una vita che si rigenera senza sosta. Al contrario, l’idea di una morte illusoria sottolinea l’aspetto transitorio della fine, vista non come un termine definitivo, ma piuttosto come parte di un ciclo eterno, spesso ingannevole nella percezione della sua apparente conclusività “e mai perduto è stato l’amore”. Fermagenesi incarna un impegno di amore e compassione per il mondo, intrecciando una filosofia della pazienza in cui fede e speranza trovano nuova vita dalle proprie ceneri. Un messaggio pieno di luce che l’autrice, con grande generosità, ci offre, ancor più significativo in un periodo dominato da un susseguirsi di devastazioni e un senso di vuoto.
Maria Allo
Ph. Daniele Ferroni
Isabella Bignozzi (Bologna, 1971) in poesia ha pubblicato: Le stelle sopra Rabbah (Transeuropa 2021, prefazione di Elio Grasso) e Memorie fluviali (MC edizioni, collana Gli insetti, a cura di Pasquale di Palmo). In prosa i romanzi Il segreto di Ippocrate (2020), e Cantami o diva degli eroi le ombre (2023), entrambi editi da La Lepre Edizioni, I bimbi nuotano forte (Arcippelago Itaca, 2024). È nell’antologia Splendere ai margini. Narrazioni emergenti (Oligo 2023) a cura di Andrea Temporelli; è con l’artista Daniele Ferroni nella plaquette Come tintinni ceste d’incenso (settembre 2023), uscita per Lumacagolosa, in collaborazione con le Edizioni Pulcinoelefante. Con alcune poesie è in Riflessi. Rassegna critica alla poesia contemporanea, a cura di Patrizia Baglione, Edizioni Progetto Cultura 2023. Nella rivista «La foce e la sorgente», a cura di Marco Ercolani e Lucetta Frisa, è presente con alcune liriche (n. 6, seconda serie, dicembre 2021), e con una prosa artistica (n. 7, seconda serie, gennaio-giugno 2022). È presente con suoi testi, saggi e interventi critici in numerose riviste letterarie cartacee, tra cui «Filigrane» (Ronzani Editore), «L’anello critico» (CartaCanta Editore), «Avamposto», «Metaphorica» (Efesto Edizioni); alcuni suoi saggi sono on line in «Poesia del nostro tempo», «Larosainpiu», «Nazione Indiana», «Morel – voci dall’isola», «Pangea». Cura lo spazio web «L’Astero rosso – luogo di attenzione e poesia».
Il racconto è uno dei più belli e significativi di Calvino ed è tratto da “Ultimo viene il corvo”, raccolta del 1949. La prima edizione, pubblicata il 30 luglio 1949, comprende trenta racconti scritti tra l’estate del 1945 e la primavera del 1949, di cui ventitré pubblicati su riviste e sette inediti. Nel 1958, diciannove dei trenta racconti della prima edizione confluiscono nel volume IRacconti (Einaudi, collana Supercoralli). Continua a leggere →