Diego Valeri, Piove di Sacco, 25 gennaio 1887 – Roma, 27 novembre 1976, è stato un poeta, traduttore e accademico italiano. La sua formazione letteraria avviene attraverso Pascoli, dal quale acquisisce in gran parte il lessico, la sintassi e le forme metriche, il D’Annunzio dell’Alcyone, i crepuscolari e nella sua lirica si avvertono gli influssi di Verlaine e dei post-simbolisti. Il tema principale della poesia valeriana è la natura, una natura che vive autonomamente escludendo così qualsiasi elemento antropomorfico.
Con questa reinterpretazione del Pater Noster, le riflessioni di Dante assumono una matrice francescana, richiamando esplicitamente il Cantico delle Creature. Esse non si concentrano sull’individuo, bensì abbracciano l’intera umanità, come chiaramente evidenziato nell’ultima terzina (vv. 22-26).
«O Padre nostro, che ne’ cieli stai,
non circunscritto, ma per più amore
ch’ai primi effetti di là sù tu hai,
laudato sia ‘l tuo nome e ‘l tuo valore
da ogni creatura, com’è degno
di render grazie al tuo dolce vapore.
Vegna ver’ noi la pace del tuo regno,
ché noi ad essa non potem da noi,
s’ella non vien, con tutto nostro ingegno.
Come del suo voler li angeli tuoi
fan sacrificio a te, cantando osanna,
così facciano li uomini de’ suoi.
Dà oggi a noi la cotidiana manna,
sanza la qual per questo aspro diserto
a retro va chi più di gir s’affanna.
E come noi lo mal ch’avem sofferto
perdoniamo a ciascuno, e tu perdona
benigno, e non guardar lo nostro merto.
Nostra virtù che di legger s’adona,
non spermentar con l’antico avversaro,
ma libera da lui che sì la sprona.
Quest’ultima preghiera, segnor caro,
già non si fa per noi, ché non bisogna,
ma per color che dietro a noi restaro».
Il valore della preghiera e del rito che ne accompagna la recitazione emerge in tutta la sua chiarezza: rappresenta il cuore della proposta francescana, che invita l’umanità a elevarsi e a riconoscere con consapevolezza i propri limiti. È un’umiltà che si rivela grande proprio per la sua capacità di superare la vanità e i rapporti umani deteriorati che essa genera, scegliendo invece di incarnare valori profondi. L’essere umano raggiunge il simbolico stato di “angelica farfalla” solo nel momento in cui abbandona l’illusione di autosufficienza, scoprendo il bisogno dell’aiuto divino e della solidarietà tra gli uomini. Un bisogno che le anime incontrate da Dante non seppero cogliere nella loro vita terrena.
Ma chi vi tolse la sabbia dalle scarpe, quando doveste alzarvi per morire? La sabbia che Israele ha riportato, la sabbia del suo esilio? Sabbia rovente del Sinai, mischiata a gole di usignoli, mischiata ad ali di farfalla, mischiata alla polvere inquieta dei serpenti, mischiata a grani di salomonica sapienza, mischiata all’amaro segreto dell’assenzio.
O dita, che toglieste ai morti la sabbia dalle scarpe, domani già sarete polvere nelle scarpe di quelli che verranno!
Nelly Sachs, in Versi in libertà/Trenta poetesse da tutto il mondo di Maria Grazia Calandrone, Mondadori, 2022
Maria Allo legge la poesia di Adam Zagajewski “6 luglio 1980”
Una grande potenza, lasciandosi guidare dalla cura per la propria sicurezza, occupa il paese vicino. Un milione di profughi, fra i quali donne, bambini e anziani, si accampa vicino alla frontiera della propria patria. Gli uomini, armati di fucili Ottocenteschi, vanno sulle montagne per combattere Con l’invasore anelante sicurezza. Il presidente Di un’altra grande potenza Sorride con tristezza. Gli europei per tre settimane febbrilmente discutono lo sviluppo degli eventi. La gioventù di sinistra tedesca protesta contro gli armamenti e programma in caso di guerra la creazione di piccoli, mobili reparti di autodifesa, armati di fucili ottocenteschi. Un direttore d’orchestra americano invita, per gli ultimi giorni prima della fine del mondo, ad ascoltare la musica di Beethoven. Un funzionario di banca in pensione presenta in televisione nastri magnetici con le registrazioni delle voci dei morti. I morti non hanno molto da dire, elencano i propri nomi, piangono o ci salutano con urli d’uccelli, brevi come un sospiro. Tu e io siamo seduti davanti alla finestra aperta, guardiamo le verdi scure figlie dell’acero, è domenica, piove, ridiamo dell’onniscienza dei giornalisti e della vacuità dei politici. Siamo impotenti e sereni, ci sembra di capire più degli altri.
Adam Zagajewski Guarire dal silenzio – Nuovi versi e poesie scelte, Mondadori a cura di Marco Bruni
Antonella Pizzo legge la poesia “C’è un qualcosa che scorna” dalla raccolta “Barracuda” di Loredana Semantica, Terra d’ulivi edizioni, 2024
C’è un qualcosa che scorna sbattendo sui muri d’amianto e nel sorriso insolente di chi ha centrato il bersaglio c’è la perdita dell’etica trame e tragedia il luogo altolocato dei complotti e ben prima di adesso molto prima di qui la perdita del sacro.
Brandisce le armi una guerra cola scempio dovunque conduce un assalto un affondo nell’aria mitraglia c’è un coltello che taglia la violenza che grida un mare per tomba una bomba.
Piangete la domanda ora e il messaggio piangete le madri col velo sulla bocca nere fosse negli occhi formate un bavaglio e scalciate fiorite di buono abbiate stelle tra le mani non più per l’uomo o la donna lavorate il profondo salvate la pelle ai bambini.
Da “L’erba in bocca” (Tutte le poesie, Garzanti) JOLANDA INSANA *
balbetto ai confini del reame ricco di grano vero picchiata dalla fame mi fingocosmografie senza corpo ma è balbettamento per scompenso perchè poi non immagino nulla in questo allucinamento per fame amara che non fabbrica segni e non riesco a morire con l’erba in bocca
*
ho contrabbandato sale tra una sponda e l’altra dello Stretto per un sacco di parole infistolite che sul mare del ritorno presero un colpo di freddo e fecero male
*
nel continente assiderato dove il dolore è fresco non si ristampa l’alimurgìa per i penuriosi e così m’improvviso aromataria e sparigica per trovare nella selva di foresti medicamenti l’erbasena che non sana pervolendo essere alloiata spirante miserie e stringiniente per soffrimento di febbre asmatiche e malinconiche contro gente di stomaco gagliardo e pichiacuore e soprattutto non sdimenticando che esclusa non sono fuori ma semplicemente sola preclusa e reclusa
*
faccio finta che è così per lasciarmi isnervata prendere a tradimento nel mare più salato e dolce dove voluta e mai posseduta entro ma m’impiglio troppo a riva e dunque rientro nelle valve conchiavate e più non mi sconchiglio
Più vivo di così non sarai mai, te lo prometto. Per la prima volta vedrai i pori schiudersi come musi di pesce e potrai ascoltare il mormorio del sangue nelle gallerie e sentire la luce scivolarti sulle cornee come lo strascico di un abito; per la prima volta avvertirai la gravità pungerti come una spina nel calcagno e per l’imperativo delle ali avrai male alle scapole. Ti prometto di renderti talmente vivo che la polvere ti assorderà cadendo sopra i mobili, che le sopracciglia diventeranno due ferite fresche e ti parrà che i tuoi ricordi inizino con la creazione del mondo.
Tu pensi che, quando cresce il tuo male, si spengano i fuochi, le barche non prendano il mare, si proibisca ai cani di latrare, i figli si incantino come sculture di sale.
Oh no, lascia perdere. Osserva la ghiandaia azzurra che ruba il tuo ultimo cucchiaino d’argento. Ferma lo sguardo sgomento sull’estranea bellezza di questa caraffa in cui luccica tutto il ghiaccio del mondo.
“La muta per amore” è l’ultima opera di Francesca Canobbio stampata per i tipi di Terra d’ulivi edizioni nell’anno 2024. In copertina una foto dell’autrice, che mette in luce i grandi, magnetici occhi verdi.
Il titolo “La muta per amore” ha per la sua prima parte un senso ambivalente. Muta come cambio di pelle quale avviene per certi animali che abbandonano la pelle vecchia per venirne fuori con una tutta nuova che li ricopre. Pronti a vivere un’altra fetta d’esistenza ringiovaniti, rigenerati, lucidi, levigati. Muta è anche il rinnovare di piume o pelo degli uccelli o dei mammiferi. In questo senso potrebbe intendersi “La muta” come metamorfosi che “muta” radicalmente l’essere. “Muta” tuttavia è anche l’aggettivo qualificativo che indica il fare silenzio declinato al genere femminile, potrebbe quindi voler alludere all’atto di tacere “per amore”. In entrambi i casi quest’ultima locuzione non lascia dubbio sulla seconda parte del titolo, la potente forza che ha ingenerato la trasformazione o provocato il mutismo. Dal silenzio, in particolare, è ben noto che spesso germogli la scrittura poetica.
All’interno del libro tre sezioni, la prima e più ampia, senza titolo, è arricchita dalle tavole pittoriche di Stefania Bergamini le altre sezioni sono titolate “Le cinque fiamme” e “Temporalia”. La prima contiene, tra l’altro, le sottosezioni LA MUTA PILOTA, LA MUTA PAZIENZA, LA MUTA COMMOSSA, LA MUTA COMPAGNA, LA MUTA ROSA, LA MUTA SPASIMANTE, LA MUTA MISURA, LA MUTA RIDE, LA MUTA NOSTRA, LA MUTA CALIGO.
Il trasformismo che anima “la muta” la offre allo sguardo nel fermo immagine di una pluralità di declinazioni che oscillano dalla sofferenza, alla tenerezza, dall’esitazione alla certezza, dalla dedizione alla nudità. Quest’ultima spalanca le porte dell’introspezione, un onere d’indagare a cui non è aliena l’espressione poetica. Si direbbe, nell’insistenza del vocabolo, che sia il tacere a produrre il frutto.
L’opera si compone per la maggior parte di scritti in prosa poetica, caratterizzati dalla quasi totale assenza di segni di interpunzione e da un’abbondanza di relativi (“che”, “dove”), nonché dall’andamento tipico del flusso di coscienza, nel quale immagini, ricordi, sensazioni, pensieri, desideri fluiscono inarrestabili fino al punto fermo che delimita l’enucleazione. Pochi testi hanno invece la forma più consueta della poesia, con i versi delimitati dagli a capo. Queste poesie segnano un apice dove, pur nella brevità, il dettato si distende, amplifica, esalta e puntualizza “che sei scheletro dei miei mondi”, rivolgendosi a un “tu” che è anche “musica” “tamburo d’ossa”, “spina dorsale”. Un’essenza in seconda persona singolare, spesso chiamata in causa, che si pone al vertice dell’architettura fondante l’interiorità e l’armonia dell’interlocutrice.
Il tema che è la causa della “muta”, focalizzato fin dal titolo, è l’amore. In tal senso è centrale la poesia di pag. 25 (vedi la prima immagine qui sotto), che reca appunto questo titolo. La scrittura riverbera il sentimento amoroso. Serpeggiano in tutta l’opera la sensualità e la sessualità che lo pervadono. L’alleanza potenzia il singolo proiettato nel rapporto e lo esalta in una pluralità di connessioni, nella varietà delle circostanze, nella combinazione degli elementi soggettivi e antropici, la complessità della relazione fiorisce in un dinamismo al contempo duplice – monolitico – molteplice. Come una rosa dai molti petali che, ciononostante, resta una. L’amore riluce nella percezione di un caleidoscopio – fantasmagoria di forme e colori -, ma è consapevole anche di un dopo o oltre, al quale, nel viluppo della ramificazione tende, perchè sbocco inevitabile che, di contro, libera dalla materialità e dalla materia, dal corpo e dalle necessità. Punto di approdo per l’esplicazione totale del sentire amoroso esteso oltre ogni delimitazione dell’empirico.
La prefazione all’opera è di Francesco Forlani, chiude Paolo Ivaldi con la postfazione.
Loredana Semantica
Di seguito una breve lettura di Loredana Semantica di una poesia di Francesca Canobbio tratta dalla raccolta “La muta per amore”, Terra d’ulivi edizioni, 2024
La poesia “Qualcuno dovrebbe ringraziarmi” di Loredana Semantica, dalla raccolta illustrata “Barracuda”, Terra d’ulivi edizioni, 2024. Legge Antonella Pizzo
Qualcuno dovrebbe ringraziarmi qualcuno che ho memoria mi aveva già scalzato da altri luoghi similmente connessi allo stradario era un presagio vago circolare come di notte che si ripete è perciò che lo escludo per essersi compiuto l’arcano inevitabile non tanto ormai per splendere che da tempo ho dismesso le grandi attese stupida essendo ogni cosa intorno gravoso il male anzi banale nel suo dolore provocato pervicace squallidi tutti i cercatori di bava di baldoria.
Ho il senso di qualcosa che sprofonda come le cattedrali edificate sul fango dalle fondamenta vuote il crollo avviene lentamente tale che agli abitanti non sia dato di vedere l’inutile ormai lo escludo dicevo chi tesse trame chi nega l’evidenza chi alle spalle lavora ai tatuaggi chi finge chi intrallazza chi le guance cadenti chi il cuore strafatto chi le fitte o i ricami non tanto ormai per splendere dicevo ma per essere quietamente.
Da “Barracuda” di Loredana Semantica, Terra d’ulivi edizioni, 2024, la poesia “Non che il mondo fosse buono”. Una lettura di Antonella Pizzo.
Non che il mondo fosse buono Zanzotto caro ma così nero nefasto violento non l’avevo mai visto così geneticamente votato all’autotutela del vuoto e spinto sull’orlo di un qualche baratro marino o fossa atlantica dove si addensa una piovra gigante il rostro aperto sul cuore che succhia l’energia vitale dal nucleo e genera angoscia sulla sorte dell’uomo.
I secoli avevano promesso una svolta una generazione nuova di zecca una rivoluzione celeste sono queste le doglie del parto da cui nasce il futuro le spinte le controspinte come fischi di treni trasmettono al ventre gli impulsi pulsanti dei tamburi le ere fecondano la volta del cielo innestano in fondo l’amnio del mondo.
La sesta e ultima strofa del poemetto di Thomas Stearn Eliot “Mercoledì delle ceneri” letto dalla nostra Antonella Pizzo
VI Benché non speri più di ritornare Benché non speri Benché non speri di ritornare A oscillare fra perdita e profitto in questo breve transito dove i sogni si incrociano Il crepuscolo incrociato dai sogni fra nascita e morte (Benedicimi padre) sebbene non desideri più di desiderare queste cose Dalla fìne finestra spalancata verso la riva di granito Le vele bianche volano ancora verso il mare, verso il mare volano Le ali non spezzate E il cuore perduto si rinsalda e allieta Nel perduto lillà e nelle voci del mare perduto E Io spirito fragile s’avviva a ribellarsi Per la ricurva verga d’oro e l’odore del mare perduto S’avviva a ritrovare Il grido della quaglia e il piviere che ruota E l’occhio cieco crea Le vuote forme fra le porte d’avorio E l’odore rinnova il sapore salmastro della terra sabbiosa Questo è il tempo della tensione fra la morte e la nascita Il luogo della solitudine dove tre sogni s’incrociano Fra rocce azzurre Ma quando le voci scosse dall’albero di tasso si partono Che l’altro tasso sia scosso e risponda. Sorella benedetta, santa madre, spirito della fonte,. spirito del giardino Non permettere che ci si irrida con la falsità Insegnaci a aver cura e a non curare Insegnaci a starcene quieti Anche fra queste rocce, E’n la Sua volontarie è nostra pace E anche fra queste rocce Sorella, madre E spirito del fiume, spirito del mare, Non sopportare che io sia separato E a Te giunga il mio grido.
La quinta strofa del poemetto di Thomas Stearn Eliot “Mercoledì delle ceneri” letto dalla nostra Antonella Pizzo
V Se la parola perduta è perduta, se la parola spesa è spesa Se la parola non detta e non udita È non udita e non detta, Sempre è la parola non detta, il Verbo non udito, Il Verbo senza parola, il Verbo Nel mondo e per il mondo; E la luce brillò nelle tenebre e Il mondo inquieto contro il Verbo ancora Ruotava attorno al centro del Verbo silenzioso . Oh mio popolo, che cosa ti ho fatto. Dove ritroveremo la parola, dove risuonerà La parola? Non qui, che qui il silenzio non basta Non sul mare o sulle isole, né sopra La terraferma, nel deserto o nei luoghi di pioggia, Per coloro che vanno nella tenebra Durante il giorno e la notte Il tempo giusto e il luogo giusto non sono qui Non v’è luogo di grazia per coloro che evitano il volto Non v’è tempo di gioire per coloro che passano in mezzo al rumore e negano la voce Pregherà la sorella velata per coloro Che vanno nelle tenebre, per coloro che ti scelsero e si oppongono A te, per coloro che sono straziati sul corno fra stagione e stagione, tempo e ternpo, Fra ora e ora, parola e parola, potenza e potenza, per coloro che attendono Nelle tenebre? Pregherà la sorella velata Per i fanciulli al cancello Che non lo varcheranno e non possono pregare: Prega per coloro che ti scelsero e ti si oppongono Oh mio popolo, che cosa ti ho fatto. Pregherà la sorella velata fra gli alberi magri di tasso Per coloro che l’offendono e sono Terrificati e non possono arrendersi E affermano di fronte al mondo e fra le rocce negano Nell’ultimo deserto e fra le ultime rocce azzurre Il deserto nel giardino il giardino nel deserto Della secchezza, sputano dalla bocca il secco seme di mela. Oh mio popolo.