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LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

LIMINA MUNDI

Archivi della categoria: I nostri racconti

racconti di autori contemporanei

“Cucinare non è una cosa semplice” Un racconto di Loredana Semantica

22 mercoledì Ott 2025

Posted by Loredana Semantica in I nostri racconti, PROSA

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Teresa già da trenta minuti parlava all’uditorio, diciotto persone iscritte al suo corso di cucina. Dopo le presentazioni dei partecipanti, aveva illustrato il modo in cui era nata l’idea del corso Cucina e tradizione, la struttura e lo sviluppo del corso, gli argomenti trattati, divisi tra mattina e pomeriggio, nelle tre giornate previste di formazione. I discenti erano tutti giovani, alcuni appena diplomati all’alberghiero, altri, gli uomini soprattutto, single desiderosi di apprendere come cucinare almeno qualche piatto elementare, uno appena separato dalla moglie, un altro appassionato di cucina, qualche moglie, fresca di nozze, che non aveva avuto mai occasione di imparare e diverse giovani donne che volevano maggiore conoscenza dell’argomento. Dopo mezz’ora di illustrazione del corso Teresa pensò bene di entrare nel vivo in modo letterario, proponendo la lettura di  un testo di Gedo Ghiglioli, famoso scrittore di romanzi. Sullo schermo proiettò la pagina dello stralcio scelto e chiarì – A questo punto leggiamo un brano tratto dal romanzo di Gedo Ghiglioli  Pietre di Sicilia, nel quale l’autore si sofferma con  minuzia a descrivere la preparazione del pranzo da parte di Irene, la protagonista del romanzo. Leggeremo a turno per non stancarci. Ognuno leggerà un paragrafo. Vi chiamerò per nome per proseguire la lettura, dal punto in cui il lettore precedente conclude il suo paragrafo.  Poi commenteremo il brano insieme. Tutto chiaro? – Con lo sguardo percorse l’aula per accertarsi che tutti avessero capito, poi proseguì – Andrea comincia a leggere-.

E Andrea iniziò

Irene cominciò la giornata pulendo le cime di rapa. Per Piero, suo marito, intendeva cucinare un primo con le verdure. Piero difficilmente esprimeva desideri, ma giusto il giorno prima glielo aveva chiesto – Domani mi piacerebbe mangiare qualcosa di buono, ma semplice, ecco una primo…una pasta con le verdure -. Il figlio di Irene, Giorgio, dal canto suo, seguiva una dieta dimagrante che il giovedì prevedeva pesce, patate bollite, insalata, spremuta d’arancia. Tutto rigorosamente pesato. Per quel giorno in menù c’erano tranci di merluzzo. Merluzzo che, lessato in brodino, sarebbe stato il secondo di Irene, di primo spaghetti spezzati nello stesso sughetto. Alle dieci del mattino le cime di rapa erano a bollire sul fuoco, mentre Irene lavorava in smart per la sua azienda. Dopo circa quindici minuti spense la fiamma e si concentrò sul lavoro. Più tardi, non appena il display dell’orologio sul personal segnò le 13,00, scattò l’ora dell’azione.

Andrea tacque e Teresa intervenne – Patrizia prosegui tu –

Irene si recò in cucina, con gesti rapidi e precisi, prelevò dal frigo una vaschetta con cinque pomodori e due piccoli peperoni, dal cesto degli ortaggi prese quattro spicchi d’aglio. Il merluzzo non era del tutto scongelato lo pose in un contenitore nel lavello sotto il debole getto d’acqua del rubinetto. I pomodori erano pochi, uno grosso, tondo, maturo e succoso e quattro datterini.  Servivano nella ricetta di ben tre pietanze quel giorno. Erano pochi, ma li avrebbe fatti bastare. I peperoni non erano nel menù, ma stavano perdendo freschezza, perciò decise di cucinarli, ché tagliati ad anelli e fritti in padella erano sempre accattivanti. Per i peperoni usò un padellino e lo mise sul fuoco col bruciatore piccolo. Dentro la padella poco olio, uno spicchio d’aglio, i peperoni tagliuzzati, coperti in modo che non friggessero selvaggiamente, ma con dolcezza. Nel frattempo su un altro fuoco più grande pose una padella media. A quel punto in un lampo d’intuizione si fermò. Si era resa conto che l’incastro perfetto dei tempi richiedeva che prima fosse infornato il merluzzo, la cui cottura richiedeva circa mezz’ora.

-Silvestro è il tuo turno-

Il merluzzo ormai era del tutto scongelato, prese una teglia, la rivestì di carta forno, e dentro versò a occhio un po’ d’olio, poi sminuzzò metà del grosso e succoso pomodoro, spezzettò a piccoli pezzi una cipolletta fresca, aggiunse due cucchiaiate di olive nostrane, scolate dell’olio di conserva, i tranci di merluzzo, l’immancabile pizzico di sale, spolveratina di pepe nero e infornò la teglia. Adesso Irene poteva tornare a gestire la padella media, non prima però di aver data un’occhiata ai peperoni sfrigolanti, ai quali dedicò una mescolatina e un assaggio per regolarli di sale. Finalmente poteva disporre della padella media, il solito giro d’olio a occhio, l’altro mezzo pomodoro succoso e due datterini a pezzetti, due spicchi d’aglio a filetti un pizzico di sale. L’insieme fu messo a rosolare, prima scoperto e poi coperto allo scopo di evitare che violente cotture prosciugassero i succhi. Al momento giusto prese le cime di rapa dalla pentola con una forchetta, tenendole sospese sul tegame per qualche secondo in modo che scolasse l’acqua di cottura, poi le accomodò nella padella. Con una forbice ridusse a tranci grossolani le cimette, avendo cura nel corso dell’operazione di sollevarle dal fondo della padella antiaderente, per non graffiarla.

-Leggi tu, per favore, Antonia-

Era giunto il momento di mettere a bollire l’acqua di bollitura delle verdure dove lessare la pasta.  Nel frattempo i peperoni avevano completato la cottura. Sul fornello piccolo, finalmente libero dai peperoni, Irene pose un pentolino, un poco d’olio, uno spicchio d’aglio a filetti, i due datterini residui, qualche foglia di prezzemolo. Fece rosolare appena i condimenti,  ben presto vi adagiò dentro i due tranci di merluzzo che rosolarono anch’essi, per non più di tre minuti, poi versò nel pentolino un bicchiere d’acqua  e, quando l’acqua giunse a ebollizione, cinquanta grammi di spaghetti spezzati. Intanto anche l’acqua delle cime di rapa bolliva, era l’ora di mettere dentro ottanta grammi di orecchiette per Piero. Il merluzzo al forno era quasi cotto, dieci minuti ancora. Nel frattempo Irene pesò  e lavò accuratamente quattro patate per circa 300 grammi complessivi. Per lessarle decise di usare la pentola a pressione. Erano quasi le quattordici. S’era fatto tardi.

-Vincenzo puoi proseguire-

Piero nel frattempo rincasò. Irene, dopo averlo salutato gli chiese – Vuoi la mollica abbrustolita sulla pasta con le cime di rapa? – Piero risposte di sì. Irene aveva previsto la sua risposta, ma non aveva voglia di cucinare ancora, eppure organizzò anche quest’ultima preparazione. Ma il fatto di farlo controvoglia fu l’occasione per una riflessione intima. Pensò tra sé e sé: cucinare non è semplice, diversamente da quanto crede la maggior parte della gente che non lo sa fare, cucinare è un’operazione complessa. Nel cucinare c’è sapienza, programmazione, pazienza, tempismo, organizzazione, rapidità, precisione. Occorre tenere tante cose sotto controllo, la cucina come una plancia di comando, il piano cottura un cruscotto. Bisogna essere efficienti, rapidi, competenti. Prevedere gli ingredienti necessari, combinarli in una sequenza ragionata. Compiere con sicurezza le operazioni in modo che tutto ciò che si cucina confluisca verso l’ora dell’apparecchiamento e del pranzo.

-Ludovica completa la lettura-

 La pasta nel pentolino col sughetto di merluzzo era cotta, Irene la versò nel piatto. Lasciò i tranci nel pentolino. Nel fornello piccolo, appena liberato, pose un altro padellino senza olio e tostò un paio di pugni di pangrattato. Quando il pangrattato fu dorato, lo accantonò con la forchetta verso i bordi del recipiente, creando uno spazio al centro del padellino dove versò dell’olio e tre filetti di acciuga. Una volta sciolti nell’olio, i filetti, a pochi secondi dalla fine della cottura, furono amalgamati al pangrattato. Irene spense la fiamma. Il pranzo era pronto. La tavola in pochi minuti fu apparecchiata. Incluse la spremuta d’arancia e l’insalata. Tutto in poco più di un’ora. Anche oggi Irene aveva compiuto l’opera. Un’opera di cura della sua famiglia, un impegno svolto con amore. Perché senza amore non viene bene niente, ma l’amore, come la cucina, non è una cosa semplice. E Irene questo l’aveva imparato da bambina.

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“Al Ciadel”: la valle che plasma

15 mercoledì Ott 2025

Posted by Loredana Semantica in CULTURA E SOCIETA', I nostri racconti, PROSA

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di Yuleisy Cruz Lezcano

Varallo ti prende, ti scuote, ti modella, ti lascia segni indelebili. Non importa da dove vieni, la valle ti entra dentro e, piano piano, ti fa diventare parte di lei. Marisa Pesenti lo sapeva bene. Non era nata in Valsesia, ma in una valle vicina, eppure la valle di Varallo l’aveva plasmata più di quanto lei avrebbe mai immaginato. Quando la incontrai, era una donna con i capelli corti, bianchi come la neve che ricopre le montagne d’inverno, ma con un’espressione che tradiva una gioia viva e autentica. Era una signora un po’ in carne, non obesa, ma con una presenza che riempiva la stanza. I suoi occhi scuri, lucidi, erano come finestre spalancate su un mondo fatto di fatica e di storie, di solitudine e di coraggio. Un volto segnato dalla vita ma capace di sorridere con leggerezza, come chi ha imparato a non prendersi troppo sul serio.
«La valle ti cambia, sai?» mi disse quasi subito, mentre sistemava alcuni oggetti sul tavolo davanti al suo negozio, quel “Al Ciadel” di cui andava tanto fiera. La porta del negozio era sempre aperta, come un invito silenzioso ad entrare, a perdersi tra mucchi di vestiti d’epoche diverse, oggetti curiosi, vecchi gioielli, e ogni sorta di piccoli tesori che raccontavano storie dimenticate. «Non importa se non sei nata qui. La valle ti entra dentro e ti trasforma. Io sono arrivata qui dieci anni fa, ma ormai sono una di loro.» Marisa aveva quella forza tranquilla delle donne che hanno conosciuto la durezza, che hanno dovuto costruire intorno a sé delle corazze invisibili. Mi raccontò di sua madre, una donna “fredda”, diceva, ma non nel senso di insensibile: era la freddezza di chi deve resistere, di chi ha imparato a non mostrare troppo, perché altrimenti la vita, qui in valle, ti travolge.
«Mia madre era così,» continuò, «come molte donne di queste montagne. La vita ti plasma, ti fa diventare dura. A dieci anni già facevano le inservienti nelle case delle famiglie ricche. Non c’era altro modo per sopravvivere.» Mi parlò di quel tempo con un misto di nostalgia e rassegnazione. La valle era dura, le giornate interminabili, il lavoro pesante e spesso solitario. Gli uomini partivano per cercare fortuna altrove, lasciando a casa le donne, che dovevano prendersi cura di tutto: della campagna, degli animali, dei figli. A volte portavano con sé anche le culle per non lasciare i bambini soli mentre lavoravano nei campi.
«La testa dura ce l’abbiamo per forza,» disse, sorridendo con un lampo negli occhi. «Altrimenti non saremmo arrivate a questo punto.»
Il negozio di Marisa,“Al Ciadel”, è una specie di santuario del passato e del presente, un luogo dove ogni oggetto racconta una storia, una vita. Vestiti di epoche diverse, oggetti d’antiquariato, gioielli fatti a mano — tutto disposto in un disordine che, però, pare avere un suo senso nascosto, come se ogni cosa sia al posto giusto nel caos. Un tavolo di legno rettangolare, davanti all’ingresso, è sempre pieno di ogni sorta di oggetti: vecchie borse, collane di granati, libri ingialliti, foulard, bottoni e scatole di latta — un pasticcio ordinato, appunto.

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«Guarda queste collane di granati,» mi mostrò, prendendone una e facendola brillare alla luce. «Le pietre rosse della valle. Le trovavano nelle discariche dei ghiacciai, quei ghiacciai che ancora oggi nascondono segreti.» Mentre parlava, era come se la valle parlasse attraverso di lei. Le sue parole dipingevano un quadro vivido di una terra aspra, fatta di fatiche e di piccole gioie, di un legame indissolubile con la montagna.
Fu allora che cominciò a raccontarmi della tradizione più preziosa che custodiva con orgoglio: il puncetto valsesiano. «Sai cos’è il puncetto?» mi chiese, con quel tono dolce e deciso che solo chi conosce una storia a fondo può avere. «È la nostra arte antichissima, la lavorazione con cui decoriamo le nostre camicie, la biancheria di casa, e ancora oggi i gioielli.»
Mi spiegò che le prime tracce di questa lavorazione risalgono addirittura al 1685, quando un atto notarile certificava la decorazione a “puncetto” di un grande fazzoletto bianco. «Il puncetto non è come l’uncinetto o il merletto,» continuò, «qui si usa solo un ago e del filo di cotone. Ogni punto, ogni nodo, è fatto a mano, uno dopo l’altro. La pazienza è il segreto: migliaia di piccoli nodi si uniscono per creare quei disegni preziosi, fatti di pieni e di vuoti, che sembrano piccoli cristalli di neve.»
Il nome stesso, puncetto, viene dal dialetto valsesiano, dove punc significa “punto”. E quei punti, combinati, danno vita a un pizzo così resistente che sembra un tessuto, capace di durare secoli. Marisa mi raccontò come i disegni fossero ispirati alla natura circostante: i cristalli di ghiaccio, i fiocchi di neve, le forme geometriche della montagna e dei boschi. Prima di iniziare a lavorare il filo, si disegnava lo schema su un foglio a quadretti, e poi, con infinita precisione, si annodava punto per punto. «Una volta,» mi disse con un sorriso, «questi pizzi decoravano i vestiti tradizionali, le camicie ricamate, la biancheria delle case. Quella tradizione, come tante altre in valle, non era solo un’arte, ma una vera e propria testimonianza di resistenza e identità. Era il modo con cui le donne di Varallo avevano narrato la loro storia, con le mani e con il filo, in mezzo a una vita di fatica e silenzi. Mentre lei parlava, provava alcuni foulard decorati, avvolgendoli con cura attorno al collo. In quel gesto semplice, il racconto prendeva forma e la storia di quelle donne si faceva palpabile.
«Varallo è chiusa,» mi confessò con un sospiro, «ma chi ci vive dentro, chi la conosce davvero, sa
che sotto questa scorza dura c’è un cuore grande. Basta voler vedere.»
Ricordo che il 28 giugno ero arrivata a Varallo con il cuore pieno di aspettative, venendo da Bologna in cerca di storie autentiche da raccontare. Non avevo idea di quanto quei giorni sarebbero stati importanti per me. Il 29 giugno tornai da lei, richiamata dalla forza delle sue parole e dalla profondità del suo sguardo. Sentivo che la sua voce portava in sé tutta la memoria della valle, il ricordo di chi aveva vissuto quella durezza, di chi l’aveva affrontata con coraggio e dignità.
Marisa era una di quelle persone che la valle aveva scelto, che la valle aveva formato come un artigiano plasma il legno grezzo. La sua fisiognomica, il modo in cui portava i capelli corti e bianchi, la pienezza del suo corpo non eccessiva ma sicura, e quell’espressione che alternava la gioia alla durezza, tutto parlava di una vita costruita a strati, con tenacia e amore. Ricordava come sua madre, con quella freddezza indispensabile, fosse riuscita a superare gli ostacoli di un’esistenza fatta di silenzi e sacrifici. Mi spiegò che la vita in valle imponeva un certo modo di essere: «Ti fa mettere delle corazze,» disse, «perché senza quelle, la vita qui ti spezza.»
Eppure, nonostante tutto, Marisa aveva scelto di restare, di costruire il suo piccolo regno in “Al Ciadel”. Ogni oggetto era un pezzo di storia, ogni vestito una testimonianza, ogni gioiello un ricordo antico. E così, tra i mucchi di vestiti, i foulard e i granati, tra le storie dei marmoristi partiti per Francia e Svizzera, tra i racconti di donne sole con i figli e con la fatica, si formava un tessuto vivo che narrava la Valsesia più vera, quella che non si legge sui libri ma si sente nel cuore.
Quando uscii da “Al Ciadel”, il sole era calato dietro le montagne, e le ombre della sera si allungavano sulle vie di Varallo. La contrada del burro, con gli ombrelli appesi a decorare la strada, sembrava un dipinto di una vita sospesa nel tempo. Sentii che avevo trovato qualcosa di prezioso, qualcosa che avrebbe accompagnato i miei passi da quel giorno in poi: la voce autentica di una valle che plasma, trasforma, resiste.

Il pegno delle donne della Valsesia

Nel volto di pietra, svelata all’alba,
la valle scolpisce rughe di ghiaccio,
donne di silenzio, come l’anima della terra,
che portano il cielo come un peso lieve.

Gli orecchini pendono, pendoli di tempo,
granati rossi, cuori di sangue cristallizzato,
fili d’oro basso, come vene d’antica speranza,
piccole lune di luce da staccare in disgrazia.

Quando il vento morde il respiro,
quando l’inverno inghiotte il pane e la voce,
le mani stanche, fragili e dure,
strappano un frammento di quel sogno lucente.

Lo vendono al banco dell’oro, pegno e promessa,
moneta di dolore, pegno di ritorno,
perché il cuore della valle non si spezza,
ma torna a brillare, più forte e più fiero.

Donne di granito, con occhi di vetro nero,
sognano nel silenzio un mondo che trema,
dove il puncetto è un fiocco di neve sospeso,
e il filo sottile intreccia coraggio e memoria.

Sono tempeste chiuse in un sorriso,
acqua gelida che scorre sotto la crosta,
e nella durezza, come un fuoco nascosto,
arde il segreto incantato della rinascita.

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Treno per Danzica. Un racconto di Yuleisy Cruz Lezcano 

03 mercoledì Set 2025

Posted by LiminaMundi in I nostri racconti, PROSA

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Jas Longden

Avevano sbagliato treno. Uno di quegli errori piccoli e apparentemente irrilevanti, quelli che si riducono a una scocciatura e una corsa a piedi tra un binario e l’altro. Ma non fu così, quella volta. Erano partiti da Danzica quella mattina, madre e figlio. Lei, sulla cinquantina, con la vitalità di una ventenne e un’energia quasi incongrua per l’orario; lui, poco più che ventenne, disincantato e curioso, con una mente che saltava dai podcast di filosofia alla politica globale senza soluzione di continuità. Una sosta a Varsavia era prevista, ma l’intercity che avevano preso non li stava portando lì. Un errore di piattaforma, di orario, di lettura affrettata. Fatto sta che si ritrovarono a scendere a Tczew, una stazione di campagna persa nel
vuoto del nord polacco, in mezzo a un gruppo di studenti cinesi e a campi dorati che ondeggiavano sotto il sole del primo pomeriggio.
La fermata era quasi surreale: una panchina, un orologio rotto, e silenzio. Nessun annuncio. Nessuna spiegazione. Poi, un treno arrivò. Sembrava vecchio. I vagoni grigi, le porte
cigolanti, ma era diretto a Danzica, secondo il tabellone arrugginito, doveva essere quello giusto. Salirono.
All’inizio, nulla di strano. Il consueto sobbalzo, il rumore monotono delle ruote sui binari. Ma a poco a poco, qualcosa cambiò. Non saprebbero dire esattamente quando. Forse era la luce più fioca, giallastra o l’odore ferroso, misto a fumo e carta inchiostrata. Forse erano i passeggeri. Uomini e donne con giacche pesanti, sguardi tesi, voci basse. Parlavano in polacco, ma bastava l’espressione dei loro volti per capire che non era una conversazione normale. C’erano tensione e aspettativa nell’aria. E rabbia. Una rabbia antica, contenuta, viva. Qualcuno distribuiva volantini ciclostilati, le mani macchiate di nero, la carta sottile come pelle di cipolla. I due italiani ne ricevettero uno. Non capivano il testo, ma una parola spiccava su tutte, impressa in rosso: Solidarność. Fu allora che la madre capì.
— Siamo finiti in uno dei treni del movimento. Sussurrò al figlio. Questo è un treno diretto ai cantieri di Danzica. Ma non nel nostro tempo.
Era l’agosto del 1980. Era l’estate della rivolta. I due si ritrovarono immersi in un viaggio dentro la storia. I volti nel vagone parlavano da soli: operai, insegnanti, donne con fazzoletti in testa e borse colme di pane e volantini. Gente comune che andava a lottare per qualcosa di straordinario: il diritto di parlare, di dissentire, di non vivere più piegati. Era il cuore pulsante della Polonia che batteva in direzione opposta al potere. Le voci si alzavano. Raccontavano storie vere, dure. Della fame, delle code interminabili per la carne, dei generi razionati, dei figli che sognavano l’Occidente e finivano nei corridoi bui delle fabbriche. Parlavano di censura, di paura, di perquisizioni notturne, ma parlavano anche di coraggio. Di un nome, soprattutto: Lech Wałęsa. Lo evocavano con una riverenza che ricordava i santi, ma senza idolatria. Wałęsa era un elettricista dei cantieri navali di Danzica. Un uomo qualunque, padre di famiglia, ma con un carisma nato dalla verità. Non era un teorico, nemmeno un oratore particolarmente abile, ma parlava come loro. E questo bastava.
Aveva guidato gli scioperi, scalato i cancelli del cantiere per annunciare che la lotta era cominciata. Aveva parlato di dignità, non di rivoluzione. Eppure, ogni sua parola era un atto rivoluzionario, perché rompeva il silenzio che da decenni copriva la vita dei lavoratori polacchi. Wałęsa non prometteva utopie. prometteva solo onestà.
Il figlio, che fino a quel momento era rimasto in silenzio, cominciava a capire. Guardava quei volti e capiva che la storia non era solo nei libri. Non era solo una narrazione. Era carne, sudore, polmoni che gridano contro il muro.
Un uomo nel vagone, con gli occhi chiari e profondi, disse qualcosa in inglese: — We go to shipyard. Lenin’s shipyard. To show them we are not afraid anymore. Poi guardò fuori dal finestrino. Le prime gru cominciavano a profilarsi contro il cielo. Danzica era vicina.

Il treno rallentò. I cancelli dei cantieri apparvero in lontananza, come un sogno fatto di ferro. Davanti, migliaia di persone. Striscioni, canti, bandiere improvvisate. La madre prese la mano del figlio. I due scesero dal vagone insieme agli altri. Non sapevano come fossero finiti lì. Non sapevano se stavano sognando, o se il tempo, per una volta, aveva deciso di cedere al bisogno urgente della memoria. Davanti ai cancelli, tra la folla, qualcuno alzò un megafono. Le parole erano in polacco, ma il messaggio era universale. “Unità. Lavoro. Verità. Libertà.” Ogni parola era seguita da un’ovazione. Non c’era rabbia distruttiva, ma una determinazione feroce e composta. Un popolo che diceva basta.
La madre si girò verso il figlio. — Questo non è solo un viaggio nel passato. È una lezione. Su cosa significa davvero libertà.
— E su quanto costa — rispose lui. Il sole stava calando. Il cielo sopra Danzica si tingeva d’oro e carbone. La madre e il figlio, ancora con i volantini in tasca, ripresero la via del ritorno. Non sapevano come. Forse il treno sarebbe tornato a prenderli. Forse la magia del tempo si sarebbe spezzata nel momento esatto in cui avrebbero lasciato il cantiere. Ma portavano con sé qualcosa che non li avrebbe più abbandonati: l’eco di un popolo che aveva trovato la voce.
Solidarność non era solo un nome. Era un movimento che aveva sfidato l’Impero con le mani vuote e il cuore pieno. Era il primo mattone caduto di un muro che sembrava eterno. E loro, per un giorno, ne erano stati testimoni. Il ritorno fu silenzioso. La madre e il figlio avevano lasciato Danzica come si lascia un sogno troppo intenso per essere raccontato. Non c’erano stati effetti speciali, né dissolvenze temporali. Nessun annuncio. Solo un altro treno, un altro sedile di legno, e l’impressione netta che qualcosa si fosse spezzato dentro. O forse, aperto.
Fu durante quel viaggio di ritorno, mentre i campi della Pomerania scorrevano lentamente fuori dal finestrino, che cominciarono a parlare davvero.
— I polacchi… hanno un senso della nazione fortissimo. — disse lei, guardando i villaggi scivolare via, ordinati e austeri.

— Sì. E ora capisco da dove viene. Da tutta quella sofferenza, da quella resistenza collettiva.
— Certo. Ma attento a idealizzarli troppo — aggiunse lei, voltandosi con lo sguardo di chi ne ha viste tante. — Intendiamoci, anche loro hanno avuto il loro momento di imperialismo.
Il ragazzo la guardò, curioso.
Cioè?
— Quando i polacchi hanno avuto il coltello dalla parte del manico, non sono stati teneri. Né con i russi, né con gli ucraini. Pensa alla Confederazione polacco-lituana. Uno dei più vasti stati d’Europa, prima che tutto crollasse. E dentro quei confini, i popoli non vivevano sempre in armonia. Il figlio annuì lentamente. Aveva letto qualcosa, ma mai in modo così concreto.
Le storie dei grandi popoli oppressi sono spesso raccontate in bianco e nero, ma la realtà, lo stava capendo, è fatta di sfumature molto più dure da accettare.
Hanno avuto un loro “momento imperiale”. — riprese lei — I polacchi sono stati per secoli una potenza. Hanno combattuto i russi per il controllo dell’Ucraina. Spesso li hanno oppressi a loro volta. L’Ucraina occidentale, Leopoli, era polacca. E la memoria di quelle occupazioni ha lasciato ferite profonde, che non si rimarginano facilmente.
Fu in quel momento che lui collegò tutto. Le guerre, i confini che cambiavano. La Seconda guerra mondiale. Il patto Molotov-Ribbentrop. La spartizione della Polonia, prima dai nazisti, poi dai sovietici. La storia era un nastro che si avvolgeva su se stesso, senza mai trovare pace.
— Quindi… — disse, cercando un punto fermo — non c’è mai un innocente, nella storia?
— C’è chi resiste e chi opprime. Ma spesso, chi resiste oggi ha oppresso ieri. È questa la tragica ironia. La nazione diventa rifugio, identità, ma può anche diventare gabbia o arma.
Il treno rallentò. In lontananza si intravedeva Varsavia. La città moderna, piena di vetro e cemento, stava lì come una promessa nuova, ma anche come una città che aveva dovuto seppellire se stessa più volte. I palazzi del centro erano repliche moderne di antichi edifici barocchi spazzati via nel ’44. Ricostruiti con amore, ma anche con disperazione. Guarda questa città — disse la madre. — Ha visto l’inferno più di una volta. I nazisti l’hanno rasa al suolo, i sovietici hanno lasciato le cicatrici. Ma è ancora qui. E ogni volta, i polacchi si sono rialzati. Come popolo, come idea. Poi aggiunse: — Ma proprio per questo, quel senso della nazione diventa totalizzante. A volte esclusivo. Come se solo il dolore polacco contasse. Lo stesso rischio lo viviamo anche noi. Il vittimismo nazionale che diventa identità.
— Sì. Solo che in Polonia, quel senso identitario è quasi sacro. Ha a che fare con la fede, con la lingua, con la sopravvivenza. È una cosa difficile da capire per chi viene da un paese come il nostro, dove la nazione è un’idea, non una religione. Il figlio restò in silenzio. Pensava a tutte le manifestazioni viste nei giorni precedenti: le croci, le bandiere rosso-bianco, le preghiere nei cantieri. Pensava anche a Lech Wałęsa, che non era solo un sindacalista ma un cattolico fervente, capace di unire chiesa e popolo sotto un’unica voce.
Il treno entrò in stazione. Le porte si aprirono con un sibilo. Erano tornati nel presente. Nessun manifesto di Solidarność, nessun corteo, nessun megafono. Solo pendolari, valigie, pubblicità di nuove start-up. Quella sera, nella stanza d’albergo, la madre stese sul letto il volantino che aveva portato via dal treno. Lo aveva conservato con cura, come una reliquia.
Lo guardarono insieme. Il foglio era ingiallito, ma il nome Solidarność brillava ancora in
rosso. Sotto, uno slogan che avevano sentito solo sussurrare sul treno: “Nie ma wolności bez Solidarności” — “Non c’è libertà senza solidarietà”.
Il figlio lo lesse ad alta voce. Poi disse: — Chissà se oggi esiste ancora quella solidarietà. La madre lo guardò. — Forse no. Forse si è trasformata. Ma la memoria di quella parola può ancora salvarci. Se ricordiamo da dove veniamo, possiamo scegliere dove andare. Anche quando sbagliamo treno.

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“Le dita verdi” racconto breve di Loredana Semantica

18 mercoledì Giu 2025

Posted by Loredana Semantica in I nostri racconti, LETTERATURA, PROSA

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Tag

Le dita verdi, Loredana Semantica, racconto

ph. Loredana Semantica

La casa di nonna Santina sembrava quella dei presepi. Una porta sulla strada, la strada costeggiava una piazza e la piazza era fiancheggiata da una salita tutta di basole in pietra lavica. Nella piazza erano piantumate sei robinie, dentro aiuole circondate da un cordolo di pietra. La piazza era dominata da un convento raggiungibile da due rampe di scale che, in fondo alla piazza, s’inerpicavano divergendo l’una dall’altra, verso l’edificio religioso. C’era pure un campanile nella chiesa del convento che suonava i rintocchi ad ogni ora.

La casa di nonna Santina era la casa del presepe nel paese del presepe. Tante casette in pietra e muratura e tante strade a scendere e salire e scale, tante scale, per colmare i dislivelli di un paese collinare. Sopra la porta della casa di nonna Santina aggettava un balconcino con balaustra in ferro, in cima ai montanti della balaustra due pigne grandi in terracotta tenute strette col fil di ferro. Sul balconcino si apriva una portafinestra in legno verniciato che dava luce all’unica stanza della casa posta al primo piano. Una stanza stretta e lunga, ma sufficiente per accogliere i mobili di una camera matrimoniale. La stanza prendeva luce anche da una finestra diametralmente opposta alla portafinestra. La finestra dava sul tetto coperto da tegole, ma la zona più vicina alla finestra era un terrazzino senza tegole. Un posto magnifico per le avventure di Agata, si doveva solo scavalcare la finestra e stare per prudenza lontano dalla parte spiovente, lì sopra c’era un regno incantato da esplorare.

Agata scoprì quel tetto in cima al mondo ch’era bambina, sempre lì molti anni dopo scoprì la sua vocazione per il giardinaggio. Crescevano tra le tegole delle piantine che attirarono la sua attenzione. Erano dei rametti che svirgolavano verso l’alto con le foglie come tante piccolissime dita agganciate ai rametti. I rametti si partivano da un centro comune e poi si diramavano e dalle diramazioni oltre a nuove foglie nella parte inferiore spuntavano radichette pronte ad aggrapparsi al terreno in qualunque direzione lo avessero trovato. Sulla terrazza di terreno ce n’era poco e le piantine scoperte da Agata facevano una gran fatica a resistere, eppure le sembrarono l’emblema della voglia di vivere. Agata pensò portarle a casa in città e dare loro nuovo respiro trapiantandole in un vaso di terracotta rettangolare. Le piantine si svilupparono con entusiasmo, ben presto ricoprirono tutto il vaso e i rametti pendevano anche fuori da esso in una cascata verde tenero di migliaia di ditine verdi.

Sebbene la casa di nonna Santina fosse per Agata la casa della sua infanzia per antonomasia, sebbene avesse preso le piantine quasi in omaggio alla sua infanzia e al divertimento delle avventure alla casa del paese, l’infanzia di Agata era finita, la casa di nonna Santina stava per essere venduta, Agata era pronta per andare a studiare legge fuori sede.

Infatti si assentò per qualche tempo da casa, lasciando le piantine a vivere la loro vita nel vaso in terracotta in città. Al suo rientro il vaso ospitava nuove succulente, chiese notizie alla madre della sua pianta e seppe che l’aveva eliminata. All’accorata domanda di Agata del perché l’avesse fatto la madre rispose “Era una pianta stupida”.

Così finì la storia delle dita verdi di Agata. Agata rimase appassionata di giardinaggio, curò, trapiantò, riprodusse tante altre piante nella sua vita, ma le dita verdi restarono nel suo cuore con una nostalgia infinita, come la rabbia della distruzione, come il dolore della perdita, come il senso di colpa dell’abbandono, come l’ottusità del potere. Con un misto di sentimenti piantati nel cuore inspiegabili a parole.  

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La lunga percorrenza. Un racconto di Loredana Semantica (parte 2)

14 martedì Mag 2024

Posted by Loredana Semantica in I nostri racconti, PROSA

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Loredana Semantica, racconto

Qui la prima parte

ph. Loredana Semantica (sul traghetto tra Messina e Villa San Giovanni)

prosegue da qui

Il viaggio era un attraversamento nazionale, climatico, paesaggistico e urbano. Il treno fendeva la penisola come una lama. Certi tratti percorsi a rotta di collo non permettevano l’osservazione, gli occhi erano incapaci di registrare il susseguirsi di scenari, talmente veloce la corsa sui binari, tranne quando lo sguardo poteva spaziare nell’ampio respiro di paesaggi pianeggianti ed estesi, allora spostando il fuoco visuale più lontano, nel campo lungo dello scenario, c’era modo di guardare la distesa e il variare delle sfumature di verzura fin dove lo consentiva il profilo di altipiani e di colline, ch’erano argine allo sguardo. Altri tratti, specie quelli diurni, disseminati di fermate nelle stazioni, erano percorsi ad andature più moderate e consentivano la visione del paesaggio, delle opere dell’uomo, delle architetture delle case. Case dirute, case antiche, trascurate, signorili, villini graziosi coi gerani alle finestre, ville d’epoca e palazzi. Le abitazioni erano edificate per lo più in calcestruzzo, muratura o mattoni rossi, questi ultimi soprattutto nelle regioni settentrionali, nella zona di Catania invece prevaleva la pietra lavica nera nei muretti di confine, nelle costruzioni, nel contenimento dei terrapieni. Come flusso inarrestabile sotto gli occhi si susseguivano incroci di strade, scorci di paesi, la vegetazione nel suo mutare, boschi, campi coltivati o abbandonati, varietà di coltivazioni o flora spontanea, tralicci, ponti, strade, fabbriche, giardini, palme, ficodindia, nespoli, banani, robinie, platani, pioppi, querce, canali, corsi d’acqua, torrenti, fiumi e il mare, quest’ultimo una costante del paesaggio  della parte meridionale della penisola e, ancora più a sud, dell’isola, essendo la strada ferrata in quei percorsi quasi del tutto litoranea. I finestrini potevano essere abbassati fino a circa metà dell’apertura, il condizionamento dell’aria non esisteva o forse era sempre guasto. Specie d’estate per avere sollievo dal caldo si tenevano aperti i finestrini del vagone. Il risultato era che al termine del viaggio gli abiti e la persona erano intrisi di uno strano odore ferroso, misto a polvere e sudore. Il viaggio era così lungo che inevitabilmente includeva una notte trascorsa sul treno. Per riposare l’accomodamento economico prevedeva l’uso di cuccette, sei per scompartimento. I sedili erano rigidi e imbottiti di gommapiuma dura, i rivestimenti in similpelle a doppia tinta: beige e marrone. Sulla parete al di sopra del poggiatesta del posto centrale era applicato in un riquadro uno specchio, esattamente di fronte, sopra l’altro sedile, un quadretto con la cartina geografica dell’Italia, di colore seppia, coi cerchietti o i puntini a segnare città o paesi e i loro nomi. Con essa si poteva seguire il succedersi delle fermate alle stazioni, l’avanzare del treno. La notte i viaggiatori impilati come sardine sui ripiani costituiti dai pianali e dagli schienali dei sedili ribaltati e abbassati per consentire uno spazio sufficiente a distendersi, dormivano cullati dal rollio del treno o vegliavano tenuti desti dallo sferragliare delle carrozze.

Un momento particolare del viaggio era il traghettamento dello Stretto di Messina, tra la Calabria e la Sicilia. Le carrozze del treno a gruppi più o meno lunghi, a seconda della capienza dell’imbarcazione, con tutti i passeggeri dentro, venivano caricate sul traghetto che spalancava verso l’alto la sua grande bocca per consentire l’accesso alla stiva. Il traghetto attraccava all’invasatura, un incavo che aveva la forma a cuneo corrispondente alla sagoma della nave, questa veniva quindi fissata saldamente alla terraferma. Ilaria osservava con speciale attenzione il punto dove la terraferma cessava e aveva inizio la nave: sormontato da tralicci in ferro, alla base era costituito da una solida piattaforma, un ponte mobile attraversato da binari che veniva abbassato in modo che i binari della terraferma e quelli della nave si allineassero. L’insieme sembrava un miracolo di metallo che concorreva alla riuscita del trasbordo, insieme agli uomini dell’equipaggio intenti a sorvegliare, manovrare, attivare i segnali luminosi per l’arresto o il moto in entrata e in uscita alla locomotiva che svolgeva le operazioni di caricamento dei vagoni alternando movimenti di avanzamento o arretramento. Una volta che aveva introdotto nella pancia della nave un gruppo di carrozze, effettuato lo sganciamento del vagone terminale, essa arretrava per intercettare mediante lo scambio un altro binario sulla nave, procedeva quindi nuovamente ad avanzare e inserire a bordo un altro gruppo di carrozze su un binario della nave parallelo al precedente, e così di seguito in una teoria di avanzamenti e arretramenti fino a completamento del caricamento del treno. A quel punto si chiudeva il portellone del traghetto e la nave partiva per raggiungere da Villa San Giovanni Messina o viceversa. La breve traversata di poco più di tre chilometri era compiuta circa in venti minuti, quella era l’occasione per salire sul ponte della nave, farsi schiaffeggiare dal vento dello Stretto, ammirare la Madonnina, la grande statua dorata posta a proteggere Messina su una torretta sorgente dal mare, scrutare il profilo della terraferma, osservare attentamente la schiuma vorticante e le onde per scorgere nelle profondità Scilla o Cariddi, consumare una cipollina* o arancina al bar di bordo insieme a un caffè coi fiocchi. Terminata la traversata in mare di circa tre chilometri, dopo l’attracco, avveniva lo sbarco. Il treno, dopo essersi ricomposto con operazioni analoghe al caricamento sul traghetto, effettuava una lunga sosta alla stazione di destinazione, poi proseguiva il percorso.

Tutun tutun era il rumore del treno in corsa, il treno che riportava Ilaria a casa verso i ricordi e gli affetti. Tutun tutun faceva pensare al battito di un cuore, ugualmente sordo e profondo, forse per questo era un rumore che Ilaria percepiva come piacevole, familiare. Tutun tutun, quasi sempre era un battito doppio, come un botta e risposta a un discorso, un colpo e il suo ritorno d’eco. Esso s’inseriva sul rombo di sottofondo del treno in movimento, frenetico nei tratti percorsi a velocità elevata, attenuato dove rallentava. Talvolta il treno fischiava per avvisare del passaggio, altre, dopo una sosta, per allertare sulla ripresa del cammino. Senza che il motivo fosse chiaro ai passeggeri, a volte il treno frenava, qualche volta con vigore, altre più dolcemente, il ferro tra le traversine allora per l’attrito strideva acutamente, questo rumore si aggiungeva agli altri suoni prodotti dalla macchina sferragliante. Tutun tutun, attenta al ritmo Ilaria riusciva persino a dormire per qualche ora, cullata dal dondolio del treno in corsa. Lo stesso dondolio che impediva di camminare nei corridoi del treno con equilibrio sicuro. Tutun tutun Ilaria si svegliava ch’era l’alba. Il treno correva ancora dentro i budelli oscuri delle gallerie, lanciato al di sotto di montagne italiane forate come mele dai bruchi. Al termine delle gallerie il treno sbucava nella luce che, dopo la notte appena trascorsa, sembrava abbagliante. Tutun Tutun. Ilaria, ancora sospesa tra il sonno e la veglia, percepiva con gli occhi chiusi quel suono come il clangore del sole, la corsa verso l’azzurrità. Tutun tutun. Sembrava lunga la percorrenza della vita.

*un pezzo da forno di sfoglia di forma quadrata ripiena di prosciutto, salsa di pomodoro, formaggio filante, aromatizzata con cipolla

Nel video stazione di Milano Centrale, scorci di strada ferrata, strade di Catania, aeroporto Fontanarossa di Catania. Audio originale

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La lunga percorrenza. Un racconto di Loredana Semantica (parte 1)

07 martedì Mag 2024

Posted by Loredana Semantica in I nostri racconti, PROSA

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Loredana Semantica, racconto

ph. Loredana Semantica (vista dal treno sulla ferrovia litoranea nei pressi di Augusta)

Ilaria era la seconda delle tre sorelle Pastrone. Marta, la prima, s’era sposata appena ventenne, era andata in moglie a un giovane di belle speranze e molta ambizione, un propellente che lo rendeva arroccato a un rigido orgoglio di sé. Pessima dote da portare ai Pastrone, buona per un rigetto come un trapianto malriuscito, e per quanto Marta s’impegnasse a irrorare i rapporti di ciclosporina, cortisone e interferone, i rimedi avevano scarso successo. Agnese, la minore, era predestinata a raccogliere l’eredità dell’impresa familiare. Un negozio di abbigliamento messo su e ben avviato dai genitori, al punto d’essere la boutique più rinomata di Sanfilocco, in provincia di Gìtania. Agnese, dopo tanti anni di lavoro come dipendente, rilevò l’attività commerciale dalla madre, il padre era morto qualche anno prima. Lo fece obtorto collo, perché così era stato deciso, un destino già scritto verso il quale non ebbe volontà e ribellione sufficienti a opporsi, per quanto in cuor suo avrebbe preferito un’altra strada. Aveva frequentato la scuola d’arte e un lavoro creativo forse l’avrebbe attratta maggiormente, ma in certe faccende non pesano tanto i soldi e nemmeno il desiderio o l’entusiasmo, pressa il non vedere sbocchi o alternative migliori, l’essere consapevoli del rischio e dello spreco di demolire quanto già costruito in tanti anni di lavoro familiare: avviamento, credibilità, azienda, clienti, contatti, fornitori e benessere. Tutto ciò che significa impresa. Agnese diventò perciò imprenditrice per investitura familiare, senza particolare vocazione. Ilaria Pastrone, la seconda figlia, stava nel mezzo in ogni senso, non aveva talenti manifesti, piuttosto difetti, sapeva scrivere, ma non guidare, le piaceva mangiare bene, ma non cucinare, aveva un altro concetto di sé, ma difettava di determinazione. Aveva preferito studiare invece di lavorare nel negozio. Avere a che fare con una pluralità mutevole di clienti, percepiti come estranei, non l’attirava. Proprio   per la sua scarsa inclinazione al commercio i genitori l’avevano esclusa dalla gestione dell’attività. Alla fine degli anni settanta l’unico desiderio che Ilaria riuscì a focalizzare con una qualche convinzione, era di allontanarsi da casa, dai genitori che percepiva come opprimenti e da una storia d’amore naufragata. Davide, il suo ragazzo fin dai tempi del liceo, dopo sei anni di fidanzamento, l’aveva tradita e lasciata per la sua migliore amica. Una vicenda talmente banale da essere penosa. Ilaria infatti non ne parlava mai, sentendosi nel raccontarla allo stesso tempo stupida e patetica. La delusione subita la segnò a tal punto che Ilaria non si innamorò più, non si sposò e non ebbe figli. Fu come se l’aspetto sentimentale dell’esistenza fosse definitivamente morto, sepolto da quell’episodio devastante. Del resto innamorarsi veramente è un’alchimia che ha del magico, accade poche volte nella vita per circostanze che si combinano tra loro in modo speciale. L’incontro, il bisogno, l’attenzione concorrono e si intrecciano con le stimmate della fatalità e spesso la sensazione che si avverte è che non poteva essere altrimenti, quasi operasse una forza cosmica potente e misteriosa, non tanto munita di frecce e calzari alati, ma piuttosto serpeggiante di vibrazioni. Può succedere all’opposto che il tempo trascorra e nulla accada, nessun fremito o segnale. Tutto dorme o tace. C’è altro a cui pensare.

Era il 1978 quando Ilaria decise di partire per Milano. C’erano già lì due cari cugini Carlo e Luigi con le loro famiglie impiantati nel hinterland, uno a Cusano Milanino, l’altro a San Donato Milanese. Essi costituirono una buona base d’appoggio per cercare alloggio e per trovare un lavoro. Ilaria trovò entrambi, il primo in via Torre di Guardia, 14 al centro di Milano, in una casa di ringhiera e l’altro presso un’importante azienda di telecomunicazioni. Quest’ultimo divenne il lavoro di tutta una vita fino al suo pensionamento. Di case invece Ilaria ne cambiò diverse, fino a sistemarsi in ultimo in una bella casa nuova e propria appena fuori Milano. Ilaria tornava spesso al Sud, alla casa d’origine specie al principio della sua permanenza in Lombardia. Le mancavano la famiglia, il cielo, il sole, il mare. La famiglia perché a distanza i rapporti conflittuali coi genitori s’erano dissolti, mentre le sorelle, essendosi sposate, l’avevano resa zia e lei adorava i suoi nipoti. Ilaria attraversava tutta la penisola almeno una volta all’anno, in estate, per andarli a trovare e con loro ritrovare quel clima solare e limpido che caratterizzava la Sicilia, la sua isola, del tutto diverso dall’aria nebbiosa e carica di smog della città metropolitana. Quando partiva aveva la valigia piena di regali per i nipoti. Una valigia ben diversa da quella di cartone verde legata con la corda del suo primo viaggio da emigrante. Questa appena comprata era morbida e leggera in similpelle color tabacco di ottima qualità, colma di doni: abiti, giochi, immancabili pigiami e un bel costume arancione comprato per sé alla Rinascente da sfoggiare sulle spiagge della Sicilia orientale. Ilaria affrontava un viaggio lunghissimo che la portava dalla città lombarda a Sanfilocco e al ritorno viceversa. Era un viaggio estenuante, ma interessante che la rapportava alla molta e varia umanità dei compagni di viaggio, anche se la sua natura schiva non ne traeva particolare piacere. Per molti anni Ilaria affrontò il lungo viaggio in treno, ciò fino a quando l’aereo non diventò il mezzo consueto per tratte così lunghe. Il cambiamento avvenne col ribaltamento del rapporto di convenienza tra aereo e treno, ma questo non accadde subito, solo molti anni più tardi, dopo l’ingresso nel nuovo secolo. A quel punto però la spinta a viaggiare di Ilaria s’era attenuata, giunse poi a scomparire del tutto col passare del tempo e l’avanzare dell’età. Ormai a Sanfilocco, sorelle e nipoti avevano dimensionato la propria vita al progetto scelto, ai propri desideri, i genitori erano morti, si formavano nuove famiglie, nascevano i pronipoti. Restavano solo nei ricordi i lunghi viaggi compiuti col treno che negli anni settanta e dintorni erano una specie di atto eroico. I treni erano stipati di emigranti che tornavano alle loro case in vacanza. Chi in Sicilia, chi in Calabria o Campania e alle altre regioni meridionali. La misura dell’affollamento del treno era testimoniata dai viaggiatori che, ultimi arrivati, non avendo trovato posto, sostenevano il viaggio seduti su sedili retrattili a molla distribuiti lungo i corridoi, retrattili perché i sedili scattavano verso l’incavo della parete dove erano alloggiati non appena cessava il peso che li teneva aperti. Chi compiva il viaggio in questa modalità doveva alzarsi in piedi ogni volta che qualcuno intendeva passare nei corridoi per recarsi ai servizi o scendere alla stazione successiva. Il passeggero ciondolava scomodo e sonnacchioso per tutto il resto del tempo. Erano necessarie ventiquattr’ore per percorrere oltre millecinquecento chilometri di ferrovia. Alla fine del viaggio i wc erano impraticabili. I cestini traboccanti di carta igienica sporca e cartacce, bucce di banana e arance. Il pavimento era sudicio e infangato, nauseante l’olezzo dell’urina. (segue)

ph. Loredana Semantica (scorci di ferrovia nella tratta Catania Siracusa)

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L’amico migliore. Un racconto di Loredana Semantica

28 mercoledì Feb 2024

Posted by Loredana Semantica in I nostri racconti, LETTERATURA, PROSA

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L'amico migliore, Loredana Semantica, un racconto

disegno digitale di Loredana Semantica

La notte del 20/11/2020 Delia, impiegata di Pisa, quarantasettenne, lunghi capelli biondi, occhi azzurri, occhiali spessi e tanti progetti dismessi, aveva fatto un sogno. La data del sogno già di per sé sembrava comunicare un senso, aveva pensato Delia, il concatenamento numerico era evidente, la ripetizione insistente del numero venti lo rendeva numero angelico. Cercando in internet lesse che esso suggerisce di restare concentrati sulla propria vita spirituale, mentre l’undici era numero da riferire a intuizione, saggezza, percezione e capovolgimento della situazione. E poi c’era quel sogno. Era stato talmente reale che le era sembrato di sentire i profumi dei fiori, il soffio del vento leggero sulla pelle, come se nel sonno fosse stata trasportata in un altro luogo, un altro mondo, un’altra dimensione. Ne era rimasta impressionata al punto che sentì il bisogno la mattina dopo di raccontarlo al marito. Luciano l’ascoltò con attenzione, ma non espresse commenti, al termine sorrise paziente, le fece una breve carezza, poi corse al lavoro nel suo studio di architetto che ultimamente lo assorbiva oltremodo.

Delia non paga di aver condiviso con la sua dolce metà il sogno, lo volle raccontare anche a una cara amica. Ludovica appena immessa in ruolo e trasferita a Lucca a insegnare matematica in una scuola media statale.  Ludovica aveva da poco passato i trent’anni, fisico sottile, ben strutturato e allenato, occhi verdi, capelli corti, castani, mossi, aveva un fidanzato storico, Andrea che l’aveva seguita a Lucca, sperando di poter trovare un’occupazione da informatico migliore di quella finora svolta e, a suo giudizio, malpagata. Delia chiamò Ludovica al telefono nel pomeriggio. Dopo i convenevoli e il racconto dell’esperienza di Ludovica nella nuova scuola, Delia per la seconda volta nella giornata parlò del suo sogno e, nel raccontarlo, fu ancora più precisa, le tornarono in mente tutti i particolari.

“Sai Ludovica” diceva “è stato un sogno bellissimo. Il paesaggio era sereno, luminoso anche se non si vedeva il sole, l’aria appena tiepida, il cielo azzurro acquamarina era disseminato di piccole nuvole rade e spumose, la terra era un saliscendi di cune e dune erbose e sullo sfondo altre dune d’altre tonalità di verde: mela, bottiglia, militare, smeraldo, petrolio… I declivi a perdita d’occhio nascondevano l’orizzonte. Al centro di un prato c’era un cagnolone nero. Il pelo, lucido lungo, folto, fine e morbido. Stava a pancia all’aria, il dorso aderente al prato, sul verde color pisello muoveva allegramente fianchi e coda, piegando il possente torace a destra e a sinistra e i fianchi dal lato opposto con una dinamica ad esse divertente e animata.” Delia prese un attimo fiato, poi proseguì “un’orecchia ripiegata gli ricadeva sugli occhi, l’altra riversa all’indietro mostrava il rosa del padiglione auricolare. Da sotto l’orecchia piegata spuntava l’occhio che sembrava ridesse. Ludovica, io non lo so se può ridere l’ occhio di un cane, ma ti assicuro che sembrava proprio così”

Ludovica la rassicurò “Ma tranquilla Delia, è di certo come racconti. Alcune cose si sentono più che vedersi, ma il cane però aveva una posa davvero buffa, e poi …” “e poi” Delia proseguì la descrizione “il muso era semiaperto sulle zanne in mezzo alle quali spuntava la lingua sottile e rosata, tenera come una fetta di mortadella. L’altro occhio era ben aperto sul bianco della sclera, al centro tondeggiava il marrone scuro dell’iride, il nero della pupilla. Agitava le zampe protese verso l’alto, piegate all’altezza del gomito, il pelo a bandiera, nero dalle punte rossicce, col movimento sventolava. All’estremità delle zampe il rigonfiamento ruvido e sodo dei cuscinetti che terminava nelle unghie brunite, limate dal correre e saltare”.”Cara Ludovica” proseguì Delia “io so riconoscere un cane felice, lo so riconoscere bene. Addirittura, ci crederesti? M’è parso quasi che mi strizzasse l’occhio come un cenno d’intesa e ho capito pure cosa voleva dire: che era un piacere stare bene, grattarsi la schiena contro l’erba fresca, sentire il corpo sano, forte, vigoroso nello splendore della gioventù”. Ludovica l’aveva ascoltata quasi senza interromperla, solo a questo punto osò dire qualcosa “Delia cara hai fatto davvero un bel sogno, era proprio lui, come se fosse ancora con te”. Ludovica era un’amica affettuosa, empaticamente comprendeva l’amica, ma non aveva mai avuto un animale domestico, solo qualche pesce rosso poco longevo, naufragato nelle fogne cittadine via tazza del water. Dopo un attimo commosso di silenzio Delia riprese a parlare “Ecco Ludovica è così che ho sognato il mio cane ieri notte. Appena una settimana dopo che mi aveva lasciato per sempre. Non so se vi sia un paradiso dei cani. Se il mio desiderio ha guidato il mio sonno. Se da quel paradiso mi ha mandato un messaggio. So che lui era la mia rosa del piccolo principe. Mi aveva conquistata, l’avevo addomesticato. Era un tesoro vivente nelle mie mani”. Poi le due amiche parlarono d’altro, del lavoro, del tempo, di abbigliamento. Si salutarono quando Andrea chiamò Ludovica per uscire a sbrigare commissioni.

Delia non superò facilmente il dolore di questa perdita, le ci volle molto molto tempo. Non ne parlava volentieri perché ogni volta il dolore si riaccendeva nella commozione. Si vergognava di soffrirne in modo così evidente e più intensamente che se fosse il lutto di un parente intimo. L’unica spiegazione che si dava era che si trattava di un dolore strettamente intrecciato al senso di colpa e al senso di responsabilità: di non aver fatto abbastanza per salvarlo, per renderlo felice, di non averlo curato e amato a sufficienza, di non aver capito ch’era la fine e non averlo perciò confortato. Solo dopo circa un mese sentì che il dolore si stava attenuando e una notte riuscì a formulare nel segreto del suo cuore il primo vero addio alla bestiola amata: “Ti sia leggera la terra, mio grande amico. Ora ti sostiene un prato di margherite, ti avvolge l’azzurro di un lenzuolo stellato e l’abbraccio di una coperta d’infanzia”

L’animale era stato calato nella profonda fossa di tumulazione con un lenzuolo celeste disseminato di puntini azzurri, passato sotto la carcassa, sorretto alle estremità, era servito a compiere lentamente l’operazione di deposizione. Il corpo era stato prima avvolto in un lenzuolo stampato a foglie verdi e margherite, poi in una coperta a quadri.

Delia quella notte si addormentò pensando che non aveva mai avuto amico migliore, più buono, più saggio e sincero, e da lì, da quella rassegnazione, dalla consapevolezza ch’era stata una ricchezza averlo avuto per tanti anni con sé, la serenità riprese ad abitarla.

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“Terra alla terra, polvere alla polvere” Un racconto di Patrizia Destro

06 mercoledì Set 2023

Posted by Loredana Semantica in I nostri racconti, PROSA

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Patrizia Destro

Orso Maria Spingherli de’  Bonitatibus si è appena svegliato. Indugia ancora un poco nel letto a due piazze e mezza quasi tre, poi alza lentamente  braccia e gambe verso il soffitto, così come gli ha insegnato il suo terapista personale. Stamattina ha tutto il letto per sé. Sua moglie è uscita presto per andare a correre con le amiche. Orso odia la corsa, preferisce attività fisiche più dolci, più languide e infantili, per così dire.
Allunga un braccio e la gamba opposta, due tre dieci volte, poi fa il cambio. Altro braccio, altra gamba. Sembra un neonato enorme e grinzoso che tenti di afferrare un giocattolo  con le mani e con i piedi da una di quelle giostrine rotanti che si appendono sulle culle. Dalla finestra entra un raggio di sole sottile sottile  attraverso le tende color grigio pepe, i cui angoli sono impreziositi da ricami a mano raffiguranti lo stemma di famiglia. Non uno ma ben due orsi passanti, grigi anch’essi, ma di una tonalità più scura, a cui è stato aggiunto un cucciolo. Orso Maria è uno che alla famiglia tiene molto, tanto è vero che ne ha  quattro, di famiglie, e durante l’anno le frequenta tutte, ripartendo equamente le festività civili e religiose, i ponti,  i compleanni dei figli e delle ex-mogli e moglie attuale  e, all’occorrenza, se le date non bastano per tutti, inventando ricorrenze ad hoc. I suoi figli, ancora piccoli, le adorano. Il giorno dei pelouche, per esempio, nel quale ognuno di loro riceve un pupazzo nuovo in regalo e poi si va tutti insieme a far merenda in pasticceria. Oppure, la sua ultima idea, di cui va molto fiero, Il giorno dei mercatini, in cui partono in automobile tutti insieme per raggiungere quella località al confine  tanto carina e famosa,  appunto, per i suoi bellissimi mercatini. Ognuno dei suoi figli riceve una capiente borsa ed è autorizzato a metterci dentro tutto quello che vuole, dai biscotti artigianali agli animaletti in ceramica,  dai fazzoletti colorati a qualunque altro oggetto che in quel momento stuzzichi il loro interesse o la loro gola.
“Signor Spingherli, non si possono aggiungere figure agli stemmi”  disse l’esperto di araldica, provocandogli una risatina. “Sistemerò anche questo”, pensò Orso, “così come ho sempre sistemato ogni cosa”. D’altra parte, la sua professione consisteva appunto nel sistemare cose e situazioni, spostare o  rimuovere ostacoli di ogni genere (anche di genere umano, per così dire)  per far posto ad altre cose, altre situazioni, altre persone.
L’importante è fare tutto in contemporanea e legalmente, neanche a dirlo. E poi sparire, lasciare la patata bollente al successore, nel caso venga deciso che ce ne sarà uno.  Orso ricorda ancora con piacere  la sua ultima impresa ma soprattutto il discorso, ripetuto sempre uguale, a una platea di centinaia di persone alla volta, con quei loro ridicoli striscioni di protesta.  “Signore e signori, bambine e bambini, non abbiamo intenzione di togliervi il vostro meraviglioso parco, credetemi! Non siamo quel tipo di persone, noi! Lo spostiamo di un chilometro, ecco tutto. E qui, dove siamo ora, vi prometto che sorgeranno le case più all’avanguardia, con grandi cortili  coperti dove giocare anche nei giorni di pioggia  e le prime scuole, tutte a portata di piedini!”. Quanti applausi ricevette, quella volta! Tantissimi!
E anche le volte successive. Data la particolare conformazione della zona, ci volle un po’ di tempo prima che il trucchetto venisse alla luce. Ma Orso contava soprattutto sul fatto che la gente non sempre ha il tempo e le energie per star dietro a tutto quello che succede, perfino nei dintorni di casa. Le persone lavorano, studiano,  badano alla famiglia, oppure cercano un lavoro, o si disperano o sono malate e cercano di guarire… o un insieme di tutto questo. Al solo pensiero Orso si sfregava ancora le mani, ridacchiando e socchiudendo gli occhi con ingordigia.  Un parco, lo stesso parco, per dieci complessi residenziali medio-grandi. Formalmente era tutto a norma: nessun albero abbattuto, ogni pianta spostata con tutte le radici. E come si era divertito, quando durante il primo “trasloco” un operaio gli raccontò che  centinaia di conigli, lì sotto,  erano tutti fuggiti dalle loro tane,  terrorizzati,  all’arrivo delle ruspe.  Da quella volta volle  essere sempre presente il giorno dei primi scavi. Cappello, occhiali, giubbotto e pantaloni dei grandi magazzini, un  binocolo e via, a gustarsi lo spettacolo! Di solito si trattava di colonie di conigli, ma c’era sempre qualche sorpresa. Talpe, uccellini, roditori di vario genere, piccoli rettili,  tutti stanati e quasi rincorsi da bulldozer e scavatrici.
Orso si è ritirato dal lavoro, di recente. E’ un normale pensionato, ecco. Per dirla tutta, questo è ciò che cerca di far credere ai suoi amici al bar, conosciuti da poco. “Io sono un pensionato come voi”, ripete ogni tanto. E loro ci credono. Perché Orso si traveste. Niente completi da seimila euro né orologio d’oro, quando scende al bar per la colazione. Le scarpe fatte a mano invece se le tiene ben strette. Sono irrinunciabili, così comode! Finora nessuno gli ha chiesto niente, di quelle scarpe, ma non si può mai sapere. Gli dispiacerebbe moltissimo perdere i suoi  amici dato che è la prima volta nella vita che ne ha qualcuno. Orso guarda l’orologio e decide che è proprio ora di alzarsi. “Il mattino ha l’oro in tasca”, pensa, facendosi mentalmente i complimenti per aver inventato un proverbio. Quasi inventato, in effetti.  Stamattina ha deciso che salterà la colazione e si concederà invece un brunch rilassante nel nuovo locale non lontano da casa, quello con le grandi vetrate che separano l’interno dall’esterno e dove sembra di stare in un giardino anche d’inverno. Ma prima farà un salto alla lombricaia.
Nei primi giorni di pensionamento, aveva preso l’abitudine di andare a comprare il pane fresco ogni mattina, prima di uscire di nuovo con gli amici. Per raggiungere la forneria attraversava un boschetto dove, a un certo punto, aveva iniziato a guardare ogni cosa con grande meraviglia: alberi da frutto selvatici, fiorellini, api e farfalle… Ma ciò che lo incuriosiva e attraeva più di tutto era il lavoro dei lombrichi, quel mangiare la terra e poi farla uscire da sé, arricchita di sostanze fertilizzanti. 
Orso ci vedeva una continuità con la sua occupazione di un tempo che, in qualche modo, aveva a che fare con la terra. Il fatto che quei preziosi animaletti migliorassero  il terreno con il loro lavorio e che invece lui contribuiva a depauperarlo con immense colate di cemento non gli passava neanche per la testa. Non ci arrivava proprio.
Insomma, a lui i lombrichi piacevano molto; a volte si paragonava niente meno che  a Darwin, che li annoverava giustamente  tra gli animali più importanti del pianeta. E così Orso si era informato, spulciando febbrilmente  articoli di storia naturale, lui, che nella vita aveva letto quasi solo testi e giornali di economia e finanza.
Com’è fatto un lombrico? In quale maniera regola la temperatura del suo corpo? Come si sposta e come si riproduce? Mano a mano che Orso apprendeva tutte queste sorprendenti nozioni, aumentava di pari passo il suo interesse e il suo immedesimarsi con l’animaletto.
“Siamo uguali, uguali! Anch’io mentre fecondavo le mie mogli ne sono stato a mia volta fecondato! Tanto è vero che le mie idee migliori mi sono sempre venute nove mesi prima della nascita dei miei figli. Prodigioso!”, diceva a se stesso, nell’illusione di aver sempre elaborato idee innovative quando, in realtà,  applicava varianti piccole  ma dagli esiti devastanti a idee e progetti ampiamente collaudati e stantii.
“Si tratta di creature davvero potenti: la muscolatura sviluppata permette loro di spostare oggetti molto più pesanti del proprio peso”, leggeva sul Manuale del perfetto lombricoltore. “Anch’io, anch’io ho spostato tutta quella terra con le mie sole forze!”, delirava, dimenticando le decine di mezzi da lavoro pesante all’opera nei cantieri e gli uomini che le manovrano.
“Che cosa mangia il lombrico? Il lombrico si nutre di terra, da cui assimila i nutrienti”. Ed è stato in quel momento che Orso iniziò a fantasticare di comprare un terreno. Grande, molto grande, non distante da casa, in modo da poter visitare i piccolini almeno una volta al giorno. Fece arrivare camion colmi della terra più adatta (“solo il meglio per i miei tesori”) e di scarti di frutta e verdura dei mercati generali. Poi, per accelerare le cose, comprò lombrichi in quantità, sessualmente maturi. In capo a un mese, ecco che la lombricaia iniziò a pullulare di vita, che si traduceva nei noti coaguli di terra, i coni,  che si vedono comunemente soprattutto dopo le piogge. Fece piantare alberi a crescita rapida tutt’attorno, avendo appreso che i suoi prediletti temono le alte temperature. Con tutta quella terra a disposizione, in lungo e in largo, non dovrebbero esserci problemi, ma non si è mai abbastanza prudenti, in certe cose.
Fece coprire l’area con teli  abbastanza scuri  per lasciarli lavorare in tranquillità. Una volta al giorno si recava in visita al  lombricaio per  osservare l’attività di quelle creature, alzando delicatamente i lembi dei teli per non infastidirle.
Quella mattina decise di indossare i suoi nuovi abiti in puro cotone biologico trattato con tinte naturali,  e scarpe prodotte con la  stessa fibra.   Portò con sé una sedia pieghevole e una buona lente d’ingrandimento. Arrivato alla lombricaia si mise comodo, posizionò la lente all’ombra in modo da non attirare i raggi del sole e tutto contento iniziò le sue osservazioni. La terra era diventata di un ricco color marrone, soffice, umida e ben aerata. Orso si commosse; l’assaggiò, mettendone un pezzetto sulla lingua e rigirandosela in bocca per assaporarla meglio.  Era talmente concentrato ed emozionato da non accorgersi che una faccia enorme e setolosa,  senza occhi né naso,  gli stava di fronte come se, non potendo vederlo,  tentasse almeno di percepirlo. E ciò che percepì sembrò soddisfarlo. A Orso, dopo un lungo momento di sorpresa purissima, si rizzarono i capelli sulla testa e tutti i peli del corpo. Si girò, cercando una via di scampo lontano dalla lombricaia. Ora toccava a lui correre col cuore impazzito nel petto, così come aveva visto fare ai coniglietti  e agli altri animali durante gli scavi, quando si era tanto divertito. L’enorme  anellide,  lungo un paio di metri, capace di avanzare in fretta coi suoi  muscoli possenti,  lo ingoiò a partire dai piedi, la parte  più raggiungibile.  Poco a poco Orso sparì all’interno della creatura che, dopo qualche minuto di assestamento, tornò verso casa e si immerse nelle gallerie.
Se, per assurdo,  Orso Maria avesse potuto essere presente all’avvenimento anche  da vivo,  avrebbe apprezzato enormemente  il fatto che nessuna sostanza artificiale fosse stata introdotta nel suo adorato lombricaio, essendo lui stesso e i suoi indumenti biodegradabili – e quindi commestibili – al cento per cento, senza dannosi scarti. 

Patrizia Destro

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“La peste del potere” Un racconto di Loredana Semantica

06 martedì Giu 2023

Posted by Loredana Semantica in I nostri racconti, LETTERATURA, PROSA

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La peste del potere, Loredana Semantica, racconto

ISABELLE BRYER

Aveva piovuto a lungo e intensamente ieri e il giorno prima, finalmente oggi il sole. Sandra era potuta uscire e ora seduta sulla panchina di legno guardava i bambini giocare nel parco. Si chiamavano tra loro e i richiami echeggiavano tra gli olmi, i pioppi e le magnolie secolari, le loro fresche risate mettevano allegria. Era un pomeriggio di primavera, nell’aria profumi, tutt’intorno la natura grata della pioggia, s’affrettava verso il tempo del maggior rigoglio. Lungo la siepe di pittosporo, in piena fioritura, una festa d’api ebbre e indaffarate. Il loro ronzio monotono e continuo produceva un effetto soporoso su Sandra, che assorta nei pensieri spostava lo sguardo tra il verde del luogo e i bambini intenti al gioco, a tratti spaziando nell’azzurro e nel soffice incanto delle nuvole.

Le tornarono in mente ricordi di giochi d’infanzia nella pineta con le amiche Donata, Giovanna e la sorella Antonella.  Erano un bel gruppetto formatosi spontaneamente mentre le mamme poco distanti chiacchieravano. La pineta era vicino alla scuola, che le mamme si attardassero a parlare, era diventata una consuetudine. Le bimbe intanto giocavano a palla, se la lanciavano l’un l’altra e dovevano rilanciarla spingendola verso l’alto con le punte dei polpastrelli, in una pallavolo improvvisata. Talvolta un baker ben assestato era la salvezza della palla che continuava a restare in aria senza cadere. Il gioco del guppetto d’amiche era tutto lì. Tenere sospesa la palla e lanciarsela l’un l’altra. A Sandra piaceva giocare ad essere le salvatrici della palla volante. Non farla mai cadere era la sfida comune e divertente. Più stava in volo la palla più era sicuro il successo, più loro erano in gamba, e ridevano dei salvataggi in extremis. Sua sorella Antonella poi era davvero brava, capace di tuffarsi al volo e cadere a terra dopo aver rilanciato la sfera senza farsi male. Un vero talento.  Avrebbe dovuto far parte di qualche squadra di pallavolo.  

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Cuore destro, cuore sinistro. Un racconto di Patrizia Destro

16 martedì Mag 2023

Posted by Loredana Semantica in I nostri racconti

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Cuore destro cuore sinistro, Patrizia Destro, racconto


Opera di Andrey Ramnev

Giovedì, 20 marzo


Alzati e grida al mondo / tutto il tuo dolore / quando la vita ti sta trasformando il cuore / in un’arida macchia di sangue.
Ho scritto una poesia. Non ne avevo mai scritte prima d’ora.

Questa mattina è venuta la psicologa; mi ha dato dei fogli bianchi e mi ha suggerito di scriverci quello che voglio. Stasera verrà a ritirarli. E’ stata gentile, non me l’aspettavo. Quando esco da questo ospedale voglio festeggiare. Mi comprerò una tavoletta di cioccolato, enorme. La mangeremo insieme, i mieiamici e io. Ma come ci sono finita qui dentro? Ho fatto tutto quel che dovevo fare, tutto come in quei libri: “Pensa positivo!” “Se vuoi puoi!” “Sviluppa la tua forza di volontà!”. Io penso sempre positivo, ma proprio sempre! E siccome voglio allora posso.

Mi manca la frutta, qui ne danno troppo poca. La frutta fa bene, bisogna mangiarne tanta. Anche le verdure fanno bene. Invece la carne il pesce le uova fanno male. L’ho detto alla mia amica ma lei mi ha risposto che deve mangiare un po’ di tutto altrimenti poi si sente male. Non mi convince. La frutta fa bene a tutti, è lei che ha le fissazioni e così non ottiene ciò che vuole dalla vita! Io per esempio mangio tre grosse mele una via l’altra, e arance e kiwi e uva e mi sento piena di energia! Durante la giornata ricevo molti doni, molte persone piene di luce mi si avvicinano e mi fanno tanto bene. Le medicine invece fanno male, tutte quante. Il movimento fa benissimo, lo dicono sempre, i medici. Io corro al parco prima di iniziare il lavoro, perché poi mi tocca stare seduta per molte ore al giorno e certe volte anche di notte, quando non riesco a dormire mi metto in macchina e guido, guido fino al mattino, poi quando torno a casa vado in palestra, per farmi i muscoli. Nadia mi ha massaggiato, tempo fa. Mi sono sentita come rinascere! Gliel’ho detto alla mia amica. Lei mi ha sorriso e ha detto che è contenta di avermi aiutato. La depurazione poi è molto importate. Pulizia e depurazione… tre docce al giorno.

Ho chiesto a Nadia di accompagnarmi in quel centro, ti ripuliscono tutto l’intestino. Ma lei si è rifiutata, ha detto che sono già fin troppo pulita di dentro e di fuori. Non ci credo… ho dentro questo sangue morto che mi fa impazzire di dolore. Pulire il sangue pulire il cuore da tutti i pensieri, così bisogna fare! Le ho detto “non sei una vera amica”. Lei mi ha risposto che è vero, che non è di quelle amiche che ti seguono in ogni follia. Ma questa non è follia, è benessere! Io di lei però mi fido molto, mi fido del suo giudizio. Gli altri mi danno sempre ragione, lei a volte mi dà ragione e a volte no. Un giorno Nadia mi ha detto, sorridendo: “Tu sei doppia perché il tuo segno zodiacale è doppio”. Ho ricambiato il sorriso, anche se non ho capito la battuta. Io sono del segno della Bilancia, due piatti, due lati in equilibrio, in perfetta armonia. Credo che abbia voluto dirmi una cosa carina, lei mi vuole bene…


Venerdì, 21 marzo.


“Alzati e grida al mondo / tutto il tuo disprezzo / quando la vita ti ha sputato in faccia / una volta di troppo”. Ho scritto una poesia. Non ne avevo mai scritte prima d’ora, non sono tipo da poesie, io.

Stamattina è venuta la psicologa; mi ha portato alcuni fogli bianchi e mi ha suggerito di scriverci sopra quello che voglio. Stasera verrà a ritirarli (se non deciderò di farne pezzettini, naturalmente, ma questo non gliel’ho detto. Non mi piace che qualcuno si impicci dei fatti miei). Quando esco da questo maledetto ospedale voglio festeggiare. Mi farò portare a casa un Bigbang ai quattro formaggi e una montagna di patatine fritte. E una scura media. No, è meglio di no, voglio essere pronta per tornare al lavoro al più presto. Non posso guidare se bevo alcolici. Sto in macchina tutto il giorno e certe volte anche di notte, quando non riesco a dormire. Ma come ci sono finita qui dentro? Ho fatto tutto quel che dovevo fare, tutto come in quei libri: “Pensa positivo!” “Se vuoi puoi!” “Sviluppa la tua forza di volontà!” E io sono positiva, voglio e quindi posso, ho una volontà di ferro! Solo che, da qualche tempo, mi sento stanca, stanchissima. Mi sento come se il sangue non fluisse bene. Un giorno Nadia mi ha fatto un massaggio; odio essere toccata, ma per lei ho fatto un’eccezione. Lei è mia amica, mi vuole bene. E’ stato come se questo sangue rallentato, questo sangue morto avesse ripreso vitalità, energia.

Quando mangio il mio hamburger preferito c’è sempre qualcuno che mi consiglia di mangiare frutta e verdura, perché fanno bene. Tutte balle! Io scoppio di salute, i miei esami ematologici sono perfetti! Come suona bene, e-ma-to-logici! Io sono una persona logica, mi attengo ai fatti. Sono la dimostrazione vivente che frutta e verdura sono sopravvalutate. Spesso mi dicono che ho una bella pelle, e bei capelli e unghie perfette. Non possono essere tutti bugiardi, no? Eppoi uno specchio ce l’ho anch’io, mi guardo e vedo che sono in ottima forma, anche se ultimamente ho perso alcuni chili. Un giorno Nadia mi ha detto: “Tu sei doppia perché il tuo segno zodiacale è doppio”. Me lo ha detto sorridendo, quindi suppongo che intendesse fare una battuta, una battuta che non ho capito. Per dirla tutta, mi pare un’emerita scemenza. Le ho fatto un mezzo sorriso anch’io. Sono del segno della Bilancia, due piatti, due lati speculari in equilibrio dinamico, perfettamente armonizzati…


Sabato, 22 marzo

  • Buongiorno, cara, è l’ora della pastiglia. Occristo santo! Gianni vieni qui, presto!!!
  • Saturazione 90 e… 90! Subito in rianimazione! Metti la maschera a tutte e due. Sembrano
    attaccate cuore a cuore, come se una fosse uscita dall’altra!
  • E’ in cura da noi già da due anni e non sapevamo che avesse una sorella. Gemella, poi!
    Stavano abbracciate strettissime, non le abbiamo forzate per non fargli del male. Poi, a un certo
    punto, si sono staccate da sole.
  • Come avrà fatto a introdursi qui di notte?
  • Secondo me è entrata di giorno. Si è nascosta e poi ha raggiunto Lia appena si è fatto buio.
  • E ora dov’è?
  • Non si sa. E’ sparita poco dopo il distacco, praticamente volatilizzata.

Patrizia Destro

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The voice

22 martedì Nov 2022

Posted by Loredana Semantica in I nostri racconti

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Amedeo Modigliani, Ritratto di giovane ragazza, 1917

Il dr. Fidoti era un torello d’uomo, basso, tarchiato, sovrappeso. Amava la natura e curare il giardino, ma soprattutto la Sicilplast, la sua azienda. Lui era un imprenditore. Vestiva in modo sempre elegante. Abiti di manifattura impeccabile blu o grigio scuro. Camicia bianca dal collo rigido. Orologio d’oro al polso. I gesti sicuri di chi ha avuto tutto dalla vita e poteva aspettarsi di più. Sposato con tre figli e una moglie bellissima, ricca di famiglia, sportiva, disinvolta, elegante, intelligente, una a cui non mancava niente

Alla Sicilplast producevano oggetti di plastica. Barattoli, secchi, vaschette quadrate, ovali, contenitori coi coperchi, ma soprattutto cassette di plastica per uso agricolo, destinate alla raccolta degli agrumi. La fabbrica era prossima alla campagna siciliana. Attorno distese di giardini coltivati ad aranceti.

Federica era un’impiegata della Sicilplast, si occupava di contabilità. La sua scrivania era al primo piano della palazzina destinata agli uffici amministrativi. Una stanza contigua alla direzione. Le stanze avevano pareti bianche, con mobili grigio perla e finestre ampie luminose, l’aria condizionata che in quei giorni d’agosto creava un’oasi di fresco beata. A piano terra la portineria e il garage. Il capannone industriale conteneva le macchine. Costose macchine che ingurgitavano ingredienti e sfornavano materia plasmata. Il ciclo di produzione marciava come se non ci fosse un domani. L’azienda andava a gonfie vele.

Nulla era fuori posto. Tutto ordinato, efficiente, ben gestito. Persino il parcheggio era ben sistemato. Perfettamente asfaltato. Niente erbacce, il cane da guardia, la cuccia in muratura col tettuccio rosso coibentato, il cancello d’ingresso principale, a grosse e pesanti barre di ferro che svirgolavano curve nere verso il suolo, scorreva senza stridere, come sulla seta. Quattro alberi d’ulivo secolare per ombreggiare sotto il rovente sole siculo. E una tettoria per la protezione delle auto parcheggiate. Aveva mani piccole il dr. Fidoti, ma d’oro. E un capoccione intuitivo e brillante. Tutto filava come l’olio.

Ma per Federica il dr. Fidoti era soprattutto una voce, della quale s’era perdutamente innamorata. Non capiva se amava la voce in sé o perché la associava alla personalità da manager, al ruolo di prestigio, al piglio imperioso. Fatto sta che in sua presenza diventava di burro. Il cuore le sprofondava in una pozza di miele.

Il dr. Fidoti era anche una persona che sapeva impiegare al meglio il suo carisma. Quando la chiamava al telefono, abbassava la voce, la rendeva suadente, sembrava una carezza a distanza. Federica allora si precipitava da lui come se l’avesse chiamata il Signore in persona, avesse avuto un minimo di raziocinio, avrebbe capito che era un modo del capo di conquistare devozione e servizi. Insomma, in verità se ne rendeva conto, ma questo continuo franare verso un sentimento inspiegabile e incontenibile la prendeva come sabbie mobili.

Federica era una donna piccola e rotonda. Il seno abbondante e il culo altrettanto nel corpo sodo, tondeggiante, faceva voglia agli uomini. Come un sacco il girovita era strizzato tra le debordanti rotondità. I capelli lisci, lunghi e nerissimi. Anche gli occhi erano neri. Una presenza da novella pirandelliana. Una femmina sicula perfetta. Buona per fare figli, solo che Federica aveva studiato ragioneria, di matrimoni nemmeno l’ombra. A trentotto anni era anche stanca di aspettare, sognare il principe azzurro, sognare una cosa qualunque. Riversare così vanamente energie in questo sentimento per un uomo proibito era percorrere una strada lastricata di pene, con tresca intermedia e finale di vita fallimentare.

Solo che questa voce le penetrava nel cervello, nelle vene la pervadeva di bisogno, di premura, d’ansia. Come dovesse improvvisamente cercare qualcosa che mancava, che aveva dimenticato. Si doveva alzare per forza, fare qualcosa, muovere il corpo, reagire a questo nervosismo irrefrenabile. Le vibrazioni risuonavano dentro dalle orecchie viaggiavano fino al petto e poi scendevano fino al ventre. Quella voce la sentiva come un cordone ombelicale. La chiamava come un abisso e lei vi precipitava dentro ebbra di desiderio. E il desiderio era corporale come un pezzo di fegato, una placenta. Si coagulavano improvvisamente nella testa gli anni di rinuncia agli svaghi e al divertimento, di sacrifici dedicati alla cura della madre. Tutte le virtù canoniche saltavano e le veniva voglia di ballare, gridare, spogliarsi, tuffarsi nell’irrefrenabile. Impazzire, come un’Erinni.

Federica viveva sola. I genitori li aveva seppelliti uno dopo l’altro, il primo morto d’infarto all’improvviso dieci anni prima. Erano rimaste lei e la mamma, che poco dopo s’era ammalata di una forma di Parkinson senza tremori. Federica s’era dedicata ad accudirla con pazienza e dolcezza. Il ventiquattro novembre dell’anno prima la madre era andata via nel sonno, com’era vissuta, con pazienza e dolcezza, mentre riposava sulla poltrona preferita, come se fosse affondata nel lago della morte.

Federica era quindi rimasta sola ad abitare la graziosa casetta a due piani nel paese di Paderò, ad appena dieci chilometri dalla Sicilplast. Era rimasta anche senza lavoro. Per fortuna zio Ernesto, che conosceva mezzo paese, aveva saputo che alla fabbrica cercavano un contabile e l’aveva indirizzata. Ora Federica aveva un lavoro, una casa e la voce. La voce era il suo peggiore affare al momento. La torturava senza costrutto. Le faceva sentire tutto il peso dei suoi trentotto anni, tutto il divario sociale tra lei e il datore di lavoro, tutta la vanità di un sentimento disperso per un uomo impossibile. Per dedicarsi alla madre Federica aveva rinunciato ad amici e svaghi e scoraggiato anche qualche relazione sentimentale. Il modo in cui però si stava innamorando della voce del dr. Fidoti aveva qualcosa di patologico, sembrava una calamita, una piovra che la stesse risucchiando. Si diceva che doveva reagire, doveva cercare alternative, conoscere altri giovani, insomma, nemmeno tanto giovani, uomini comunque raccomandabili che potessero essere una buona compagnia. Così almeno le diceva zia Rosetta, la sorella di mamma e moglie di zio Ernesto. Insomma era bella che cotta. E continuava a bollire come una rana in pentola a pressione, ad arrossire e arrostire come un gambero sulla brace.

Tutto sarebbe andato nel modo peggiore e più prevedibile, se non fosse che quel giorno Federica decise ch’era ora di darci un taglio e si recò al nuovo negozio di parrucchiere del paese. Da Saverio diceva l’insegna. Pare fosse il nipote della Signora Pizzoli, tornato dopo aver vissuto per anni a Milano. Federica non lo ricordava affatto, non Saverio, non la sua famiglia e nemmeno la nonna Pizzoli, peraltro morta da dodici anni. Tutte queste cose le aveva sapute per le chiacchiere del paese. Come aveva pure saputo che il coiffeur Saverio era divorziato, reduce da una profonda depressione, conseguenza del fallito matrimonio. Era giusto tornato al paese d’origine della famiglia per bisogno di recupero e quiete.

Federica entrò nella sala ch’era vuota. Saverio aveva i capelli rossi, un grosso naso, era magro, con le spalle larghe. Il viso irregolare, il sorriso piacevole e occhi azzurri che le si piantarono addosso.  “Buongiorno” la salutò. E Federica quasi svenne. Saverio aveva la stessa voce del dr. Fidoti. O almeno a lei così sembrò. Lo guardò dritto negli occhi e capì. Sarebbe stato suo. Era il suo destino. In qualunque modo.

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“L’abito fa il monaco” un racconto di Patrizia Destro

27 martedì Set 2022

Posted by Loredana Semantica in I nostri racconti

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L'abito fa il monaco, Patrizia Destro, racconto

Ritratto di Raymond, Amedeo Modigliani

Tutto era cominciato l’anno in cui la biblioteca chiuse al pubblico. “Manutenzione straordinaria”, così dissero. “Tra quattro mesi al massimo riapriremo”.
I quattro mesi erano ormai passati da tempo. Di mese in mese, di stagione in stagione, in tutto ne passarono quasi trentasei. Tre anni, giorno più, giorno meno.
Frank, in principio, vi tornava, pieno di speranza, una volta alla settimana per controllare se avessero riaperto. In seguito vi ritornava una volta al mese ma poi decise di abbandonare del tutto l’attesa.
Il soprannome gli era stato affibbiato da un signore anziano all’esterno del supermercato dove a volte comprava del cibo vicino alla scadenza, a metà prezzo. L’anziano lo aveva visto appoggiato al muro vicino alla porta d’ingresso, mentre stava mangiando un tramezzino, e lo aveva chiamato. “Dammi una mano, Frank. Aiutami a caricare l’automobile. Queste borse sono pesantissime”. E Frank lo aveva aiutato, ricevendone in cambio una banconota da cinque e un nome nuovo di zecca.
La biblioteca chiusa era un grosso problema per i molti studenti che ogni giorno avevano riempito le sue
sale, anno dopo anno. Ed era un problema enorme per Frank che, con l’arrivo dell’estate, non aveva più un posto fresco e accogliente dove trascorrere la giornata con un buon libro, una bottiglia d’acqua e un bicchierino di caffè preso al distributore di bevande. Tempo prima le panchine del vicino punto scambio libri erano state eliminate, e così trovare un posto dove sedersi a leggere diventava arduo. Era un buon posto, quello! Frank lo rimpiangeva amaramente. Una piccola oasi in mezzo al cemento, una nicchia fatta di alberi ad alto fusto, scaffali di libri sempre in movimento, tra arrivi e partenze, proprio come i treni che sfrecciano alle spalle di quella biblioteca all’aperto. Alcune panchine quasi nuove completavano il piccolo rifugio per amanti della lettura, così come il saluto degli altri utenti e dei volontari con i quali Frank, a volte, scambiava quattro chiacchiere.
Spesso, su una di quelle panchine, Frank ci aveva anche passato la notte, un po’ dormendo e un po’ leggendo alla luce del vicino lampione. Il dormitorio, in certi giorni, è davvero troppo lontano da raggiungere a piedi, a volte a causa di un malessere, altre volte per la stanchezza di aver lavorato troppe ore per racimolare solo un paio di banconote. E non sempre ci si può permettere di pagare una moneta da due euro per un viaggio in metropolitana.
“Guarda che bella borsa abbiamo ricevuto oggi!” gli dissero un giorno al guardaroba pubblico. “Se la vuoi
è tua, puoi metterci i libri e i vestiti di ricambio. E’ arrivato anche questo bel completo. Provalo, sembra fatto su misura per te”. Frank ringraziò e si ritirò nell’angolo adibito a spogliatoio. Dopo aver tirato la tenda si spogliò con calma; indossò prima i pantaloni e poi la giacca e sentì che effettivamente il completo gli stava comodo. Era quasi nuovo. Prese un lembo della giacca e lo saggiò con una mano. “E’ di cotone!” pensò. “E’ così fresco e profumato!” Aveva fatto da poco la doccia e tagliato barba e capelli, laggiù, alle docce pubbliche. Si sentiva un altro, quasi nuovo e fresco anche lui, come il vestito e la borsa in simil-cuoio che, dall’aspetto, si notava che era stata usata proprio pochissimo.
“Sembra una borsa da medico” pensò Frank. “O forse da uomo d’affari”, aggiunse. O forse nessuno dei due. E’ da tanto di quel tempo che Frank non trova più un lavoro, un impiego stabile. Che cosa può saperne? “A proposito: che lavoro facevo? Non me lo ricordo quasi più. Tanti lavori, nessun lavoro, alla fine”.
“Vieni a guardarti allo specchio” disse la voce del guardarobiere-operatore sociale, distogliendo Frank da pensieri cupi. Vedere la propria immagine riflessa e sentire un sorriso enorme spuntargli prima negli occhi e poi sulle labbra fu un tutt’uno.
“Il meraviglioso abito color gelato alla panna! (*) Non è esattamente color panna, tutt’altro! Si tratta più di un grigio, un grigio chiaro, certo, ma è il concetto che conta”. La mente di Frank sta velocemente rispolverando una propria, personalissima gamma cromatica formatasi in uno degli ultimi posti di lavoro, un colorificio.
“Color panna grigia! Forse è stato aggiunto del pepe nero…” pensa Frank, ridacchiando tra sé e sé.
“Metti tutto in questa busta, maglione giaccone e pantaloni, così li mandiamo in lavanderia” gli dice il volontario. “Te li restituiremo in autunno, promesso!” Frank sa che non glieli ridaranno, non proprio questi, almeno, ma sta al gioco. E’ sempre uno shock, per lui, separarsi dagli indumenti invernali. Soffre il freddo, anche d’estate. “Quel che protegge dal freddo protegge anche dal caldo” è il motto che ripete a se stesso – e talvolta anche agli altri – quando si accorge che i suoi vestiti fuori stagione attirano gli sguardi dei passanti.
“Non mi sento a mio agio, così elegante. Grazie per avermelo fatto provare, ma…” Quel vestito, in realtà, non è così lussuoso come sembra a Frank. Ma il fatto è che lui, ormai, è abituato a indumenti smessi adatti alla vita per strada. E così, per lui, un completo giacca pantaloni pur di seconda mano è uguale ad
un vestito da cerimonia.
“Ascoltami, ho avuto un’idea: ti porti via il vestito così ti ci abitui. Sotto la giacca metti questa maglietta grigia scura, che è in tinta. Domani hai un appuntamento per quel colloquio di lavoro, ti ricordi? Vestito così vedrai che ti prendono. Nella borsa ho messo un paio di jeans e una maglietta blu, così hai il cambio pulito per i prossimi giorni. Cerca di non sporcare i pantaloni! Nella borsa troverai anche della biancheria nuova. Dammi quelle scarpe, che ormai sono sfondate. Prendi queste, più leggere e sportive. Vanno con tutto!”
“Tranquillo, non mi siedo mica ovunque!” (E si, certo che mi ricordo del colloquio, come farei a dimenticarmelo? Un posto di custode giù ai magazzini della stazione, un posto di lavoro con una stanza privata e i servizi igienici, l’alloggio del personale…)
Frank non si sedeva mai per terra; faceva già abbastanza fatica a tenere i vestiti puliti per una settimana, a volte dieci giorni. E quando si sedeva sulle panchine ci metteva sopra un giornale di quelli in distribuzione gratuita. Ne prendeva sempre due copie, di cui una da leggere. Ma le panchine pubbliche
diminuivano, ancora e ancora…
Questa volta aveva un motivo in più per non sporcarsi. Un motivo importantissimo, essenziale. E quando c’è un motivo così grande per fare una cosa, si diventa più audaci.
Frank iniziò a maturare una decisione: avrebbe trascorso il tardo pomeriggio e la notte in un albergo. Da
quanto tempo non entrava in un albergo? Da tanto di quel tempo che ormai dubitava di averne mai visitato uno.
Si ricordò dell’hotel di otto piani a due strade di distanza dal Centro dove si trovava ora. Ogni tanto ci passava perché, lì vicino, c’era una di quelle panetterie dove, nel tardo pomeriggio, il pane e altri prodotti sono venduti a metà prezzo o regalati. Frank aveva voglia di un trancio di pizza, anche semplice, era da tanto che non ne mangiava! Ma temeva di sporcare il vestito, cosa che non poteva assolutamente permettersi. “Vediamo che cosa è avanzato”, si disse. “Magari una fetta di focaccia non molto condita”.
Si avvicinò e si accorse che questa volta il fornaio aveva lasciato fuori dalla porta, in una cesta, pizzette e biscotti già imbustati. Con l’acquolina in bocca, Frank disse a se stesso che avrebbe fatto molta attenzione. Afferrò due buste con delicatezza, una per tipologia di prodotto, e si avviò verso l’albergo.
“Se è rimasto tutto come prima dovrebbero esserci ancora le chiavi metalliche”. Frank nutriva un’avversione per le tessere elettroniche – con tutti quei dati personali in memoria! – tanto maggiore adesso, che stava per diventare un probabile ospite insolvente e temeva che, a causa di un guasto, avrebbe potuto rimanere chiuso dentro…
Prese il coraggio a quattro mani, inspirò profondamente ed entrò. Alla reception non c’era nessuno. Il registro delle presenze non si vedeva: usano il computer, qui! e le chiavi di metallo, uno strano abbinamento di antico e moderno su cui Frank si ripromise di riflettere in seguito. Una rapida occhiata alla bacheca portachiavi e documenti gli rivelò che, molto probabilmente, la camera 412 era libera. Frank afferrò le chiavi e, con il cuore in gola per l’emozione, si avviò in fretta su per le scale. La stanza era effettivamente libera; niente valigie, l’armadio vuoto, il letto – singolo -intatto. Con un respiro di sollievo, Frank chiuse la porta, si tolse i vestiti e li appese sulle grucce, accarezzandoli con un dito. Si sdraiò sul letto, pregustando una cena a base di prodotti da forno e acqua del rubinetto. Da molti anni,
ormai, non aveva più una casa. Se tutto andava bene, da domani ne avrebbe avuta di nuovo una, minuscola ma tutta per sé, insieme ad un lavoro stabile. E poi, chissà, l’estate prossima, risparmiando su tutto, sarebbe riuscito a fare una vacanza al mare, senza pretese…
L’indomani mattina Frank si svegliò presto, si lavò, e dopo una colazione a base di biscotti avanzati dalla sera precedente e un bicchier d’acqua si vestì di tutto punto, prese la sua borsa e uscì dalla stanza, lasciando le chiavi nella toppa. Nessuno lo vide andare via. Quando, un’ora dopo, si trovò a firmare il contratto per il posto di custode, disse a se stesso che forse, dopotutto, anche se è di un colore sbagliato, questo vestito è davvero ‘Il meraviglioso abito color gelato alla panna’, quello che ti dà il coraggio di fare tutto, perfino di esaudire un piccolo enorme sogno a lungo sognato.

(*) cit. Il meraviglioso abito color gelato alla panna di Ray Bradbury.

Patrizia Destro

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Vittoria Luna. Un racconto di Patrizia Destro

29 mercoledì Giu 2022

Posted by Loredana Semantica in I nostri racconti, LETTERATURA

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Patrizia Destro, racconto, Vittoria Luna

“Da grande voglio fare l’astronauta”. Vittoria è seduta sul pavimento, attorniata da cubi e costruzioni che impila gli uni sugli altri con grande attenzione. Si trova in soggiorno, in compagnia dei suoi genitori. Lui, il papà, è seduto in poltrona a leggere il giornale; lei, la mamma, sta facendo le parole crociate. La domenica è per entrambi giorno di riposo. La donna salta subito in piedi, entusiasta.
“Hai sentito, caro? La nostra bambina ha detto la sua prima frase lunga! Vieni qui, amore, che ti coccolo tutta!”
“Ma dico, sei impazzita?” dice lui, alzando la voce. “Non prenderla in braccio, che poi ci fa l’abitudine! E comunque i suoi fratelli hanno cominciato a parlare molto prima di lei. Non trattarla come un fenomeno!” “Abbassa la voce, che la fai spaventare! Non dire che ha imparato a parlare solo ora, perché non è vero. Nostra figlia ha imparato a parlare presto. Solo che parla poco, ecco. Non è logorroica come i gemelli, che quando telefonano ci stordiscono di chiacchiere !”
“Ah, ti danno fastidio i nostri figli, è così? Almeno non sono ritardati come questa qui, la tua preferita. Sono svegli, loro!” urla ancora lui. “Non capisco proprio a chi somigli. Anzi, lo capisco benissimo: somiglia a te, che in tutta la vita non hai concluso niente. Sei nata donna delle pulizie e morirai pulendo, te lo dico io!”
“Mi offendi così, non hai proprio un briciolo di dignità?” dice lei. E aggiunge: “Vittoria non somiglia a nessuno di noi due, per fortuna. Nel caso te lo fossi dimenticato l’abbiamo adottata”.
“Certo, che me lo ricordo! Una delle tue idee idiote, come se non avessimo già fatto il nostro dovere mettendo al mondo due figli!”
Lei non raccoglie la provocazione. “E comunque ci vuole intelligenza anche per fare le pulizie. Pensa se mescolassi, per ignoranza, alcol e candeggina, per esempio. Ma io non lo faccio, perché certe cose le so. E, visto che te la sei cercata, aggiungo che neppure tu sei diventato uno scienziato; sei solo un cameriere, ecco quello che sei!”
“Si, sono un cameriere e ne vado orgoglioso. Anche i nostri figli sono camerieri come me. E tutti e tre lavoriamo in ristoranti di lusso. Non come te, che pulisci lo studio di tre medici sconosciuti e incapaci, che quando li chiami non vengono mai a casa!”
“Da quando i dentisti fanno visite a domicilio? Cerca di ragionare, prima di aprire la bocca, santo cielo!” Vittoria, intanto, continua a giocare, pacifica. Le voci dei genitori litigiosi le arrivano ovattate, come da molto lontano. Gioca e cresce, cresce e gioca e impara, noncurante delle cattive parole che le volano attorno.

“E questa la chiami pagella?” sbraita il padre appoggiando in malo modo la tazza di caffè sul tavolo della cucina. “Tutti ‘sette’, ragazzina? Non è che ti sforzi molto, a quanto vedo. Sei in terza liceo, ormai. Dovresti impegnarti di più, ecco! Non ci arrivi proprio a prendere qualche ‘otto’ o ‘nove’, eh? Io alla tua età studiavo dalla mattina alla sera e anche di notte, e prendevo dei bellissimi voti, sempre!”
“Ma quanto sei bugiardo? Eravamo a scuola insieme, chi credi di imbrogliare? Mi ricordo benissimo che arrivavi alla sufficienza con grande fatica. Non è che tu ti sia mai sforzato troppo, eri sempre al bar con gli amici. E poi te l’ho già spiegato: nella scuola di Vittoria i voti arrivano solo fino all’ ‘otto’. Otto è il voto massimo, capito? E’ come il ‘dieci’. Quindi Vittoria è come se avesse preso ‘nove’ in tutte le materie”. “Certo, certo… Continua pure a dare i numeri, io intanto vado a fare quattro passi. Siete impossibili, voi due, non vi sopporto”.
La madre scuote la testa; rimane per qualche minuto a guardare nel vuoto e poi, senza dire una parola, si prepara per andare al lavoro.
Vittoria, nel frattempo, sta compilando un test per la scuola. Toglie per un attimo le cuffiette (sta ascoltando il suo gruppo preferito), rivolge uno sguardo neutro prima verso il padre poi verso la madre e ricomincia a scrivere tranquillamente, come se avesse udito un semplice spostamento d’aria.
“Presto, siediti qui vicino a me! Tra poco saremo in collegamento con Vittoria, è da mesi che non la vediamo! Che emozione, ma ci pensi? Lei è arrivata là, dove solo poche persone potevano anche solo sognare di arrivare!
“Vengo, vengo! Che idea scriteriata, andarsene in orbita attorno alla terra, ma dico io”.
“Piantala di brontolare, per una volta… Oh, eccola! Ciao, amore, come stai?”
” ‘Amore come stai’ … ma sentitela, che smancerie! Sembra sempre che tu stia parlando col tuo gatto. Quella bestia lascia il pelo dappertutto e con quelle sue zampacce ha spremuto fuori dal tubetto tutta la pasta adesiva per la mia dentiera…”
“Che colpa ne ha Micio se tu hai perso i denti in anticipo perché li tieni digrignati, sempre, giorno e notte!” Il padre fa finta di non sentire. Muove di malavoglia una mano a destra e a sinistra per salutare la ragazza. Si avvicina al video e vede che c’è scritto ‘Vittoria Luna’.
“Hai visto che tua figlia si è cambiata il nome? Ci ha rinnegato, ecco che cos’ha fatto! E’ proprio una vergogna!”
“Fai sempre una tragedia per tutto, sei uno stolto, lasciamelo dire. Vittoria non ha cambiato proprio un bel niente, si è solo aggiunta un altro nome, molto appropriato alla situazione”.
L’uomo esce dalla porta sbraitando che astronauta non è un vero lavoro, è un’occupazione inutile, lei doveva diventare chef, quello si che è un lavoro vero e utile, ma naturalmente nessuno lo ascolta mai. Aggiunge che deve andare a comprare un nuovo tubetto di pasta adesiva ed esce.
Vittoria, nel frattempo, è comparsa sul video e saluta con una mano e un sorriso leggero. Segnala ‘tutto bene’ con i pollici alzati e poi si sposta per consentire alla madre di dare un’occhiata all’interno del modulo. Il collegamento con la Terra dura pochi minuti. Dopo la chiusura, la donna rimane a guardare il video ormai spento, con aria sognante, mentre accarezza Micio che, nel frattempo, le è salito in grembo e ha iniziato a ronfare più rumorosamente del solito.

Patrizia Destro

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Don Elio e internet. Un racconto di Patrizia Destro

21 martedì Giu 2022

Posted by Loredana Semantica in I nostri racconti, LETTERATURA

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Don Elio e internet, Patrizia Destro, racconto

Don Elio è seduto nella piccola chiesa di Lagomonte, l’unica, della parrocchia che gli fu affidata vent’anni prima. Le poche panche di legno sono divenute anche troppe dopo lo spopolamento delle quattro frazioni che compongono il paese che un tempo era la casa di centoventotto anime.
Il parroco si stringe la radice del naso con il pollice e l’indice della mano destra mentre con la sinistra si appoggia al sedile e si lascia scivolare in ginocchio.
Tiene le mani congiunte, Don Elio. Passano dieci minuti, ne passano altri trenta. E’ distratto, non riesce a concentrarsi.
– Ti sei accorto subito che non stavo pregando, eh! Scusami, Signore, è che ultimamente ho dei pensieri.
Il prete parla con il crocefisso che si trova sull’altare. Si tratta di un semplice pezzo di legno su cui è dipinta la figura stilizzata di un Cristo, ma per lui è come se si trattasse di una persona vivente, il Dio fattosi essere umano per la salvezza di tutti.
Ed Elio ci parla con fiducia, ad alta voce, da uomo a uomo, e, talvolta, da figlio a padre.
Gli chiede consiglio e poi ascolta la risposta che si forma, puntuale, dentro la sua testa.
– Innamorato io? Alla mia età, poi? Ah ah ha, oggi ti va di scherzare, Signore! No, non si tratta di questo. Ho ben altri problemi. Mi innamorai una volta, tanti anni fa. Non pretendo che tu te lo ricordi, dopotutto siamo otto miliardi di anime, su questa terra. Certo, sei onnisciente, non potrei mai dimenticarlo, e hai spazio e tempo infiniti, puoi occuparti di tutti contemporaneamente, certo… Ma io sono qui, tutto solo, su questo altipiano che a volte mi pare immenso. Non mi sto lamentando, sia chiaro. Ho avuto una vita piena di cose da fare e di gente da aiutare, sia qui che laggiù, alla missione…

Don Elio smette di parlare all’improvviso e si porta una mano ad un polpaccio. Reprime un lamento di dolore, trattiene il fiato e, dopo qualche secondo, riesce di nuovo a respirare liberamente. La scheggia della mina anti-persona che lo colpì quando era un uomo di mezza età, florido ed energico, un vero soldato della fede… quella grossa scheggia che gli entrò in una gamba, senza provocargli danni troppo gravi nel fisico, gli aveva perforato l’anima. Lui si era salvato ma due bambini del gruppo della scuola, che stava riaccompagnando a casa dopo una breve escursione in cerca di piante da studiare, laggiù, nel piccolo villaggio tra il mare e il deserto, erano saltati per aria. E lui non poteva e non voleva dimenticarli. Solo, per non soffrire troppo, aveva conservato il ricordo in un angolo della sua mente, e ci conviveva così come si convive con un mal di testa cronico e semi-invalidante.

– Non ho guardato le carte geografiche del villaggio, non stavolta, credimi! E neppure le fotografie. E’ da ieri che non accendo il computer. Ho fiducia in Te, come sempre. So che i miei piccoli riposano nel Tuo amore, ma è difficile da accettare, ecco. Un attimo prima sorridevano felici e poco dopo … Io sono sopravvissuto, e provo un senso di colpa insopportabile.
Don Elio sente una nuova fitta al polpaccio e un’altra in mezzo al petto, fortissima. Dopo l’esplosione era rimasto in stato di choc per settimane e poco tempo dopo fu rimpatriato.
Durante gli anni gli abitanti di Lagomonte erano diminuiti sempre più. I giovani avevano trovato lavoro lontano, dispersi per il mondo, e gli anziani si erano trasferiti in luoghi meno freddi e più accessibili, al mare o in città. Prima di andarsene, un giovane aveva regalato a Don Elio un computer con tutte le connessioni e gli aveva insegnato ad usarlo. Per il prete era stato come ricevere il più bel regalo del mondo. Con quello aveva potuto rimanere in contatto con i suoi parrocchiani e ricreato una sorta di parrocchia virtuale. Secondo le norme ecclesiastiche avrebbe dovuto esortarli ad unirsi alle loro nuove comunità religiose ma non ne aveva avuto il coraggio. Non poteva rinunciare al calore e all’affetto di cui godeva tra i fedeli, seppure nella distanza. Lui li sentiva ancora fisicamente vicini, ognuno di loro.

– Non sono triste, davvero! E’ che non vedo l’ora che arrivi l’estate, ecco tutto. A luglio molti dei miei parrocchiani ritornano qui, e per me è una festa! Alcuni ritornano anche d’inverno, per il Natale. E così sono in compagnia due volte l’anno… Nei restanti mesi ci teniamo in contatto con il telefono e il computer.
Non sei convinto, pensi che io ti nasconda qualche cosa? E va bene, ora ti racconto tutto, per filo e per segno. Ho aperto una pagina su un social network, ecco. I miei parrocchiani e io siamo sempre in collegamento, e io mi sento come se avessi di nuovo una famiglia, una grande e affettuosa famiglia! Tre anni fa alcuni di loro hanno avuto l’idea di confessarsi a distanza; all’inizio erano poche decine, poi con il passaparola tra i loro amici in breve sono diventati tremilasettecento… Ammetto che la situazione mi è un po’ sfuggita di mano, ma come potrei rifiutare qualcuno? Sono le mie pecorelle e io sono il loro pastore! Quando vogliono confessarsi mi scrivono e mi raccontano tutto. Io li assolvo e gli dò la penitenza. Poi, durante la settimana, a piccoli gruppi, celebro le messe a distanza. Benedico il pane che preparo con le mie mani, lo spezzo e, simbolicamente, ne distribuisco a tutti. Ognuno di loro si procura un pane, piccolo o grande, secondo le loro esigenze, e io benedico anche i loro pani… Poi tutti insieme ci comunichiamo.
No, non ho chiesto permessi al Vescovo, non credevo ci fosse niente di male… Io sono felice di continuare la mia opera, anche utilizzando un monitor e una tastiera, e i miei parrocchiani mi dimostrano ogni giorno che io sono di conforto nelle loro vicissitudini…
Il permesso lo chiedo a te ora, Signore! Dovrei rispettare le gerarchie? e per quale motivo? Tu sei l’Essere Supremo, il Perfetto e l’Onnisciente. Tu conosci il passato, il presente e il futuro e sei il Padre di tutti noi…

Don Elio, che si era alzato in piedi nel perorare la propria causa e quella dei suoi parrocchiani dispersi ma virtualmente riuniti, sente una terza fitta al polpaccio e, contemporaneamente, una seconda, dolorosissima fitta al petto.
Con fatica il sacerdote raggiunge una panca e vi si siede, col fiato corto. Don Elio attende una risposta dal suo Signore, che stavolta tace.
Passano dieci minuti, ne passano altri trenta. Don Elio riprende un poco delle sue energie; si alza in piedi e si avvia verso l’uscita della chiesa, con le spalle ricurve e lo sguardo perso nel vuoto.

Patrizia Destro

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Lucy

07 martedì Giu 2022

Posted by Loredana Semantica in I nostri racconti, LETTERATURA

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colonia, Gambarie, Loredana Semantica, Lucy, Racconti

Dorotea conobbe Lucy nel 1969 alla colonia estiva montana di Gambarie in Aspromonte. Gemma, la mamma di Gisella e Dorotea preparò i bagagli delle figlie in vista della partenza per la Calabria. Gemma aveva cucito per loro freschi completi da viaggio. Comodi bermuda azzurro cielo e camicette a fiori pastello primavera. Il bagaglio era tutto in una sacca di tessuto, secondo le istruzioni. Sulla sacca erano applicate tessere di tessuto bianche, ciascuna con una lettera ricamata sopra in filo rosso, accostate a comporre i rispettivi nomi. Su ogni capo di intimo, asciugamani e magliette erano cucite simili tessere che componevano il numero di matricola assegnato. I numeri erano assegnati nella raccomandata con la quale l’E.N.P.A.S. comunicava ch’era stata accolta la domanda per l’ammissione alla colonia estiva e servivano ad associare l’indumento alla persona titolare di quel numero per non disperdere i capi al momento in cui venivano lavati insieme a quelli degli altri compagni. La partenza avveniva da Piazza Adda in pullman gran turismo. Un cinguettare festante di bambini riempiva l’aria dalla prima mattina. Nel momento in cui i pullman si avviavano, tutti a salutare con la mano, a mandare baci. Qualcuno si commuoveva.
Cominciava la vacanza vera. Già il viaggio era un divertimento. Canti, senso di avventura e libertà, giochi e risate. A Dorotea piaceva affacciarsi al finestrino e sentire l’aria schiaffeggiarle il viso, spettinarle il capelli. Il fiato mozzato dalla forza del vento.
Arrivavano a Gambarie all’imbrunire. Spesso completamente afone per aver speso tutta la voce possibile. L’edificio che le accoglieva era grande, su  tre piani, aveva muri esterni giallo chiaro, elementi in rilievo col color crema e grandi finestre. Un aspetto architettonico indeciso tra un castello e un albergo. Il corpo dove si apriva l’ingresso, con le sue scale semicircolari e gli infissi in legno e vetro, sporgeva sul grandissimo cortile ricoperto di pietrisco.
A destra e a sinistra, come ali, i restanti corpi dell’edificio. Tutto intorno alla costruzione e al cortile alberi. Ai piani superiori le camerate dove i ragazzi sistemavano le proprie cose: un comodino ciascuno, un armadio in comune a gruppi di due o tre. Maschi a sinistra femmine a destra nelle due ali dell’edificio. Rigorosamente separati. Poi c’erano il grande salone mensa, lunghi corridoi, seminterrati con le docce, infermeria, cappella e cucine. In un edificio più piccolo aggregato c’era la lavanderia. Tutti i ragazzi della colonia venivano forniti di una sorta di divisa: una gonnellina di tessuto tipo jeans leggero per le bimbe, pantaloncini per i ragazzi, per entrambi camicia azzurra, un maglione di lana blu, un cappellino modello marinaretto blu. All’interno del cappello, foderato di garza, occorreva scrivere il nome per evitare di perderlo o confonderlo con quello di altri.
All’inizio dei venti giorni di vacanza i bambini venivano controllati nel caso avessero i pidocchi. Era il momento in cui Dorotea aveva la sensazione d’essere un vitello da ingrassare. Uno per uno, dopo l’attesa in fila ordinata, entravano in infermeria, lì erano pesati e misurati in altezza. Un altro controllo veniva fatto a metà della vacanza e l’ultimo prima di tornare a casa.
Gambarie era immersa nei boschi di faggio, larice, abete bianco e di tutta la vegetazione montana dell’Aspromonte, il centro abitato di poche case disposte attorno alla piazza, dove c’erano pochi negozi, tra i quali uno di souvenir dove acquistare le cartoline da mandare ai genitori e parenti.
Anche in piena estate il clima era fresco, la sera occorreva una coperta leggera. La mattina suonava la sveglia alle 7,30. Nei bagni i lavandini erano bianchi ampi e circolari, vasche rotonde di ceramica con un cilindro centrale dal quale sporgevano i rubinetti. Da questi usciva un’acqua fredda da far rabbrividire. L’acqua calda c’era e non c’era, nel senso che prima che arrivasse ai rubinetti percorrendo i tubi, i più avevano già finito la toilette. I gabinetti alla turca erano quanto di più scomodo per i bisogni e inquietante per lo spirito, con quel buco grosso al centro che s’affossava nel nero profondo e finiva chissà dove. La giornata iniziava con tutte le squadre, così come si erano formate all’arrivo, distinte per sesso, schierate in ordine nel cortile per l’alzabandiera e l’inno. Una cosa piuttosto militare, ma che aveva un suo fascino. Composto e suggestivo Dopo, sciolte le righe, sempre sul posto un po’ di ginnastica del buongiorno.
La colazione di pane, burro, marmellata, caffelatte. I pranzi alla mensa erano niente male. A Dorotea piacevano in particolare le sogliole fritte in pastella e il pollo al forno. La cena era meno appetibile, spesso c’era pastina in brodo vegetale, per secondo un bel pezzo di svizzero o qualche fetta di prosciutto, verdure cotte e pane.
Dorotea dunque conobbe Lucy alla colonia estiva, non ricordava il momento preciso dell’incontro, ma nel corso della vacanza si accorse che la preferiva a tutte le altre compagne, non solo per giocare, ma perché sentiva ch’erano della stessa pasta, avevano gli stessi gusti, gradivano gli stessi cibi, gli stessi giochi.
Lucy aveva una sorella più grande Elena. Elena aveva gli stessi colori di pelle, capelli e occhi della sorella minore, un naso affilato, i capelli nella parte più alta aderenti alla testa, ondulati in punta, erano divisi da una riga centrale e sulla fronte tagliati a frangia. Elena era più grande, più alta, aveva già le forme di una donna e, ovviamente, altri interessi, i ragazzi innanzitutto e molti ragazzi s’interessavano a lei.
Lucy aveva anche un fratello Piergiorgio più grande di Lucy e più piccolo di Elena.
Piergiorgio era il ragazzo più corteggiato della colonia. Bruno di pelle e di capelli, un sorriso accattivante, denti bianchissimi, un bel fisico atletico, inoltre gentile, sorridente, disponibile anche con Dorotea.
Dorotea avrebbe potuto interessarsi a Piergiorgio ma per qualche ragione vederlo così desiderato e sentirlo, rispetto a sé, più grande, le faceva pensare che fosse del tutto fuori dalla sua portata. Anzi ancora più profondamente, Dorotea tendeva a stare lontano dai ragazzi. Li trovava strani, diversi. Lucy invece no. Lucy era bellissima. Una pelle ambrata perfetta, liscia compatta senza un difetto, gli occhi grandi verdi, due smeraldi nel viso. I capelli erano una danza di onde bionde. Del colore del sole, delle spighe dorate, accendevano il volto, splendevano di giorno, illuminavano la notte.
La vacanza in colonia scorreva in modo alquanto monotono, la mattina dopo la ginnastica e la colazione, passeggiata tra i boschi nei dintorni, tutti in fila per due ben accosti al bordo strada, alcune giovani maestre erano incaricate della sorveglianza e vigilavano ciascuna sul proprio gruppo composto da venti persone circa. Si cantava per ingannare il tempo durante il cammino, spesso i canti della resistenza oppure “Lo sciatore” o “La macchina del capo”, le preferite dai ragazzi. Sosta in qualche punto spianato e circoscritto per permettere il gioco. Ritorno agli alloggi. Dopo il pranzo e il riposino, altra passeggiata più breve, oppure visita a Gambarie o giochi nel cortile. Occasionalmente i Capigruppo organizzavano una giornata di giochi a squadre, tornei di ruba bandiera, partite di pallone per i maschi, la visione di un film nella sala di proiezione, gare canore nelle quali Lucy mostrava le sue doti perché era intonata e aveva una bella voce. Un giorno le chiesero di cantare il suo cavallo di battaglia, un successo del momento: “Un mondo d’amore” di Gianni Morandi.

C’è un grande prato verde
dove nascono speranze
che si chiamano ragazzi
Quello è il grande prato dell’amore

Uno : non tradirli mai,
han fede in te.
Due : non li deludere,
credono in te.

Tre : non farli piangere,
vivono in te.
Quattro : non li abbandonare,
ti mancheranno.

Quando avrai le mani stanche tutto lascerai,
per le cose belle
ti ringrazieranno,
soffriranno per li errori tuoi.

Grande interpretazione. Gli ascoltatori disposti tutt’intorno in cerchio applaudivano.
L’amicizia tra Lucy e Dorotea intanto cresceva, non con episodi particolari, ma nel quotidiano farsi compagna delle giornate di vacanza, per semplice vicinanza. Dorotea tuttavia si era resa conto che l’affiatamento con Lucy rendeva quest’ultima la sua migliore amica. Quando le era vicina si rallegrava, aveva voglia di scherzare, si animava. Sentiva che insieme avrebbero potuto essere una forza, un’alleanza. Nessuno avrebbe potuto spezzare il cerchio magico che le univa. Forte, luminoso, capace di allontanare amichette dispettose, noia, malumori e pericoli. Come i serpenti che abitavano il bosco e potevano saltare su da qualche mucchio di foglie o pietra, come le bacche che non bisognava mangiare perché facevano venire il mal di pancia. Come le macchine che passavano vicine o il burrone oltre il ciglio della strada. Una specie di talismano contro i tanti pericoli dei monti.
Dorotea e Lucy giocando inventavano storie fantastiche dove l’immaginazione galoppava tra fate, cavalieri, draghi da sconfiggere, oppure di ordinaria quotidianità di genitori, figli scuola, cucina. Terra, foglie, pietruzze e fili d’erba erano d’aiuto per preparare le pietanze da impiattare. Con i grani che crescevano sulla pagina superiore della foglia di un arbusto montano fabbricavano bracciali e collane. Queste escrescenze vegetali avevano le dimensioni di un chicco di farro e la particolarità di diventare col tempo legnosi, un canale naturale nel senso della lunghezza li rendeva sostanzialmente cavi, si prestavano perciò ad essere inanellati in collane. Le ragazzine li chiamavano “coralli” e c’era tra loro un fitto scambio di questi “preziosi”.
Verso la fine della vacanza ci fu un colpo di scena. Arrivarono i genitori di Lucy. Erano venuti a trovare i figli, ma visto che mancavano due giorni alla fine della vacanza, avevano deciso di portarli via con loro. Dorotea si dispiacque molto di non poter fare il viaggio di ritorno con Lucy, ma avendo scoperto che proveniva dalla stessa sua città le chiese il numero di telefono e le scrisse il suo su un biglietto, con la promessa reciproca di sentirsi.
La cosa più singolare per tutti però fu vedere piangere Elena, davvero scossa da questa frettolosa partenza. Per intercessione delle vigilanti si ottenne che Elena al di fuori delle regole della colonia si recasse pochi minuti nel dormitorio dei maschi per salutare Marco. Dorotea non conosceva gli intrecci relazionali tra i ragazzi più grandi e non capì il perché di tanta commozione. Cioè non le sembrava possibile che qualcuno potesse affezionarsi così tanto a una persona da giungere alle lacrime.
Pochi giorni dopo il ritorno a casa dalla vacanza Dorotea decise di telefonare a Lucy. Dapprima al numero che Lucy le aveva dato non rispondevano affatto. Lucy pensò ci fosse un errore e volle controllare sull’elenco telefonico, senza esito. Doveva essere un numero segreto. Poi finalmente ad un successivo tentativo qualcuno rispose, era Piergiorgio, ma le disse che Lucy non c’era, un’altra volta rispose Elena, tuttavia Lucy non la richiamava, sebbene Dorotea lasciasse detto di farlo. Provò a chiamare un’altra volta, un’altra ancora, fino a quando sentì con le sue orecchie dall’altro capo del telefono proprio la voce di Lucy dire alla sorella di riferirle che era uscita.
Dorotea capì, o meglio non capì, fu la sorella maggiore Gisella a spiegarle che Lucy non la voleva più per amica. Dorotea continuò a non capire, ma imparò il rifiuto. Continuò a non capire per anni e anni. Si era convinta che Lucy fosse di una famiglia altolocata, che non poteva coltivare amicizie ordinarie. Una specie di contessina o principessa, la figlia di un agente segreto o di un altissimo funzionario.
Ogni tanto, mentre diventava una giovane donna amabile e graziosa e poi madre e poi adulta, mentre invecchiava, ripensava alla vicenda. Continuò a non capire, e nonostante il tempo passasse, non trovò risposte o soluzioni. Non incontrò più Lucy. Come se non vivessero nella stessa città. Gli interrogativi stagnarono nella mente senza risposte. Si chiedeva quale fosse la macchia, la mancanza o l’errore che aveva commesso, cercava un possibile perché, ma si rendeva conto che tutti poi convergevano in una sola domanda, come una spina: in quale universo si fosse disperso, in quale anfratto si fosse nascosto il suo “mondo d’amore”.

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Novembre di zucchero. Un racconto di Loredana Semantica

10 mercoledì Nov 2021

Posted by Loredana Semantica in I nostri racconti, LETTERATURA

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2 novembre, commemorazione dei defunti, Loredana Semantica, novembre di zucchero, racconto

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Benedetta il primo di novembre sentiva che si avvicinava la festa. L’aria frizzantina all’imbrunire si riempiva di fumo e dell’odore di caldarroste. Spuntavano le bancarelle dei giocattoli e caramelle. C’erano luci, musica, tutta un’animazione nelle strade, un viavai di gente con i pacchi e i cartocci di frutta secca: a simenza, a calia, i favi sicchi, a nucidda americana, i pastigghie *. I bambini passavano tenuti stretti per mano dalla mamma o dal papà, altrimenti nella confusione si perdevano. Nell’altra mano tenevano uno stecco di legno attorno al quale in cima era avvolta una nuvola bianca di zucchero filato. Mangiavano la nuvola, affondando il naso nel biancore e spalancando la bocca per accogliere la matassa dello zucchero, che, prima si addensava dove avevano dato il morso in grumo dolce, poi si scioglieva in bocca mentre naso, bocca e mani diventavano appiccicosi di zucchero, quando non subivano la stessa sorte i vestiti propri o i soprabiti dei passanti. Uno spettacolo era vedere quando preparavano lo zucchero filato. Di solito lo facevano presso le bancarelle che vendevano dolci, torroni, caramelle. Si servivano di una specie di pentola gigante a forma di tortiera per ciambelle, nel supporto centrale, rialzato rispetto al fondo, versavano lo zucchero che, riscaldato, cominciava a filare e si raccoglieva mano mano sul bastoncino di legno a formare la matassa sempre più grande, più grande fino a sembrare una nuvola di cotone. Anche il resto della bancarella era un piacere per gli occhi: l’ossa e motti**, i biscotti di miele, durissimi cilindretti lunghi arrotolati in due spirali opposte, i totò al cioccolato e quelli bianchi, col cuore morbido e fragrante, le ghirlande cellophanate di caramelle, i leccalecca, le caramelle sfuse di tutti i colori, gommose o dure, le gelatine di frutta, il torrone bianco, il torrone scuro di mandorle, quello di nocciole, ricoperto di glassa ai vari gusti, i torroncini avvolti nella carta luccicante, cioccolata a tavolette più o meno grandi, il nocciolato spezzato a grossi tranci, le meringhe dai colori pastello che sormontavano i coni di cialda croccante a imitare i gelati, i marron glacé, i ceci e le mandorle ricoperti di zucchero, le caldarroste, la frutta secca. Una festa della gola e dell’abbondanza. Le bancarelle più attraenti però erano sempre quelle dei giocattoli. Il mistero era che papà e mamma tirassero sempre via Benedetta  senza comprarle niente, lei perciò si doveva accontentare di guardare l’esposizione e i bambini coi loro giocattoli in mano.
L’indomani era il giorno dei morti, la festa cominciava già la mattina. Il papà e la mamma di Benedetta immancabilmente andavano al cimitero portando con sé le figlie Eleonora, la maggiore, e Benedetta, la più piccola. Per le bimbe il cimitero non era un luogo triste. Affollato di piante, alberi e persone, lo vedevano più simile a un parco che a un luogo di silenzio e commemorazione. Tutt’intorno il cimitero era delimitato da un muro alto in antica muratura, si entrava da un ingresso imponente con tre archi, ma quello era l’ingresso principale, ce n’erano altri secondari e nel giorno dei morti li aprivano tutti. Da quale entrare dipendeva da dove si trovava parcheggio.
Posteggiare la fiat 600 blu era un’impresa, ma in qualche modo un buco lo trovavano, tra lo strombazzare delle auto e i pedoni a frotte. Prima di entrare al cimitero c’erano tante bancarelle di fiori di tutti i tipi e colori. Il papà di Benedetta prendeva sempre sei garofani rossi per la sua mamma. Poi, camminando di fretta per i viali del cimitero, si recava al colombaio dove c’erano i loculi di suo padre e sua madre. Vicini, ma non troppo. Benedetta lo seguiva, ma nel frattempo aveva modo di osservare ai lati dei viali le cappelle dei defunti. Alcune modeste, altre grandiose, tutte guglie, cupole, cuspidi, come piccole chiese. Poi i decori, i vetri colorati, gli stucchi, le inferriate. Le statue soprattutto erano affascinanti. Quelle degli angeli in tutte le pose e dimensioni, così ieratici e bianchi, le madonne a mani giunte, bellissimi bimbi che sembrava dormissero un loro sonno di pietra, adagiata la testa su cuscini ornati dalle nappe, la malata nel suo letto con le coperte poggiate fino ai fianchi, il busto eretto e le braccia protese ad abbracciare la morte, le statue dei soldati caduti con la divisa le armi, l’elmetto. Le tombe nella terra erano quelle che maggiormente la inquietavano. Pensava ai corpi abbandonati all’umido, al freddo degli inverni, coperti da implacabili lapidi di marmo sulle quali si leggevano dediche struggenti.
C’erano tombe curate coi fiori freschi, le piante, la teca di vetro che conteneva la Madonna benedicente, un Cristo pietoso o sofferente. C’erano tombe trascurate, il marmo spezzato, le lettere della lapide staccate, la costruzione cadente. Similmente le cappelle.
Giunti al loculo della nonna, Eleonora, Benedetta e la mamma dicevano le preghiere. Tre “L’Eterno riposo” e poi si concludeva “Anime sante, anime purganti, pregate Dio per noi che noi pregheremo per voi affinché Dio vi dia presto la grazia del Santo Paradiso”. Papà pregava mormorando a fior di labbra, un po’ in disparte, da solo. I colombai erano a più piani e si accedeva salendo le scale. Nei vari piani e per le scale era tutto un andirivieni di visitatori.
Poi si tornava a casa e veniva il bello. C’erano i doni che avevano portato i morti. Non mancava mai qualcosa per Benedetta ed Eleonora che fosse vestiario, giocattoli o dolci. La volta che Benedetta fu sopraffatta dalla sorpresa fu quando ricevette una bambola bionda, vestita di verde e ornata di pizzi, corredata di carrozzina per portarla a spasso. La carrozzina con la capote color turchese era perfettamente dimensionata alla statura di una bambina. Anche Eleonora ricevette una bambola, la sua però aveva i capelli neri, il vestito rosso. La capote era blu. Giocarono tutto il giorno, divertendosi. I cugini maschi nel frattempo, si sparavano per finta coi i botti veri delle caps* nelle pistole di latta e nei fucili argentati. Anche loro felici, schiamazzanti, accaldati.
Tutti i bimbi di quegli anni pensavano che i morti fossero buoni, portavano dolciumi e giocattoli, anzi che i defunti fossero persone care, alle quali volere bene perché loro si ricordavano dei vivi e lo dimostravano portando loro doni.
Benedetta, diventando grande, vide sbiadire queste tradizioni e sorgerne altre che mettevano i cari defunti sullo sfondo, ricollegandoli più alla perdita e al dolore che al ricordo e ai regali, per questi ultimi si preferivano figure più colorate, allegre, fantasiose o pittoresche come Babbo Natale o la Befana.
Poi si diffuse anche la festa di Halloween che nella notte del 31 ottobre impazzava tra i giovani con tutto il corredo dei simboli suoi propri: le zucche, i dolcetti o gli scherzetti, le mascherate da creature della notte.
Benedetta ebbe due figli: Francesco e Nicolò, detto Nico. Cercò di trasmettere loro un’idea positiva dei defunti facendo dei doni nel giorno del due novembre, dicendo “Questi sono regali da parte del nonno Vito e della nonna Pina”, ma non c’erano più le bancarelle e la festa, non c’era il cimitero monumentale, perché la famiglia aveva cambiato città, non c’erano i viali, le panchine, le statue. I ragazzi non si recavano volentieri al cimitero e tendevano a defilarsi, tutti presi dagli impegni tra giovani: serate e amici.
Il due novembre divenne sempre più un’incombenza per adulti. Una visita al cimitero, fiori sulle lapidi, la tristezza del ricordo e la solitudine della mancanza. Benedetta si rendeva conto che di quella festa del due novembre di quand’era bambina s’era perso tutto il fascino, s’era spenta la magia.

* semi di zucca salati, ceci tostati, fave secche, noccioline americane, castagne secche
** ossa dei morti, dolci tipici che si preparano nel periodo della commemorazione dei defunti in Sicilia, come anche i biscotti al miele e i totò
*** munizioni per armi giocattolo

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Irene nel Paese delle Meraviglie

17 domenica Ott 2021

Posted by Loredana Semantica in I nostri racconti, LETTERATURA

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irene nel paese delle meraviglie, Loredana Semantica, racconto

Liberamente ispirato al capolavoro di Lewis Carroll, un racconto surreale di Loredana Semantica

Irene aveva cominciato a lavorare piuttosto giovane. Nel senso che con i suoi quasi ventiquattro anni  d’età, non che fosse giovanissima, ma, vista  la fame di lavoro che c’era, poteva ben considerarsi fortunata.

Giunto il grande giorno di partire per recarsi al luogo di lavoro, il Bianconiglio l’accompagnò alla stazione. Lui era commosso, lei stranita. Bianconiglio le regalò un pennapugnale, un pallottoliere, una museruola. Lei li conservò nella sua grande borsa alla Mary Poppins. Quando Irene iniziò il viaggio erano più o meno le sette di sera. Passò attraverso lo specchio, prese un treno al binario ventisette, cenò su uno scomodo sedile, poi si ritirò nella cuccetta sospesa a mezz’aria. Man mano che si approfondiva la notte, le sembrò che gli altri viaggiatori diventassero zombie. Il Bianconiglio le aveva consigliato: “Se ti dovessero aggredire, sfodera il pennapugnale” Irene si addormentò pensando: “ Per questo ne uccide più la penna che la spada.” E sognò nel sogno che li avrebbe uccisi tutti e che, prima o poi, sarebbe tornata a casa.

Albeggiò  ch’era ancora intera. Solo allora si accorse che gli zombie non potevano vederla. La sera prima aveva mangiato un panino col prosciutto avvolto in una carta argentata dove c’era scritto: “Mangiami” e si era fatta piccola piccola, fin  quasi all’invisibile. Bevve l’acqua dell’accrescimento da una bottiglietta di plastica dove c’era scritto: “Bevimi”. Ripose il pennapugnale nella borsa tra il pallottoliere e la museruola. Dopo un giorno e una notte di viaggio giunse al luogo di lavoro. Era tutto scale da scendere e salire. Bisognava sorridere sempre, chiedere tanti permessi, inchinarsi nei corridoi, mangiare caffè e brioches. Irene ben presto si accorse di essere stata assunta nel Paese delle meraviglie. Nel Paese delle meraviglie c’era sempre qualche guerra da combattere o partita da giocare. All’inizio la sua squadra era quella dei Naningenui, formata da undici neoassunti, Irene inclusa; erano tutti bravi ragazzi. Gli altri, gli avversari, erano la squadra dei Tantomatti, tra questi s’erano infiltrati i Poconesti, che avevano un’aria furtiva e la faccia di piombo. Dopo una conversazione tra il Re di Picche e il Granpapà, una delle neoassunte fu trasferita ai Pianialti. Irene non capì cosa avesse potuto dire il Granpapà al Re di Picche, fatto sta che Irene assieme agli altri del gruppo continuarono a incidere la pietra a mani nude,  l’altra andò dove si usavano i guanti. Irene imparò che nel Paese delle meraviglie le conversazioni a quattr’occhi tra Re e Granpapà producono frutti.

Dopo molti anni e molto impegno e dopo aver inciso tante e tante tavole di pietra, Irene riuscì a farsi trasferire ad Altrove, più vicino a casa. Per farlo dovette compiere una giravolta e battere i tacchi. Un po’ come Dorothy nel Mago di Oz, ma con più pathos. Nel luogo dove giunse avevano un modo antiquato di lavorare e lei cercò di proporre delle innovazioni. Aveva nuovamente bevuto l’acqua dell’accrescimento e questo l’aveva fatta ridiventare grande grande. “Capovolgiamo i fogli” disse Irene a Teresa, la collega anziana, “così devono leggere a testa in giù, il sangue gli andrà alla testa e tutti penseranno meglio.”

Il giorno dopo il Re di Fiori emise un editto che faceva Teresa Gran governante, Irene l’ultima addetta. Irene pensò bene di mangiare un panino col prosciutto. Ridiventò di nuovo piccola piccola, quasi invisibile, tirò fuori dalla borsa la museruola, la indossò e tacque. Aveva capito che nel Paese delle Meraviglie era meglio tacere.  Tacere e annuire poteva portare buoni frutti. Non passò molto tempo che la chiamarono al Pianodisopra, c’era bisogno di una testa e la sua sembrava piuttosto grossa. “Purché non me la taglino” pensò Irene. In effetti non volevano tagliarla ma usarla, la misero in un bel posto tutto di legno lucido e scuro, ma non come una bara, piuttosto come una stanza da pranzo. Ci misero la testa ancora attaccata al tronco. Insomma Irene tutta intera, che lì, in pace, passò molti anni lavorando con gusto, mangiando panini, bevendo tanta acqua.

Poi avvenne che il Mondodiqua e il Mondodilà si riunirono. Adesso al comando c’era il Re di Quadri e a lui serviva una che sapesse contare. Irene non era brava a farlo, ma aveva il pallottoliere e lo sapeva usare. La misero sulla scacchiera a fare il cavallo e lei saltava tra un quadretto e l’altro, in diagonale, poi segnava i punti col pallottoliere e dava ordini ai Pedoni.

In quel periodo apprese che nel Paese delle meraviglie i Pedoni hanno due facce. Una a vista, l’altra nascosta. Che Giano in confronto era un principiante. E Duefacce di Batman un essere angelico. I pedoni praticavano spesso la menzogna, ancora più spesso l’ipocrisia, entrambe dirette a trarre tutti i possibili vantaggi per se stessi. Intanto i mondi che si erano riuniti presero un nuovo nome:  Unicomondo. Dove, a questo punto, arrivò il Cappellaio Matto.  Lui, spronando Pedoni, Cavalli e Alfieri, vinse ogni battaglia. Fece stragi di preferenze, lo acclamavano tutti, ma presto dovette andar via. Nuove battaglie e nuove avventure lo attendevano. Ad Unicomondo la scacchiera fu messa da parte e contare non ebbe più importanza. Irene, afflitta, subì la stessa sorte. Allora cambiò vestito. Mise quello della determinazione. Era stanca di ingigantire e rimpicciolire. Le girava terribilmente la testa. Chiese al Nuovore  di Unicomondo di nominarla Ciambellano, ma i Pedoni non furono d’accordo. Si mossero tutte le Torri  insieme, la accerchiarono per farla precipitare. Dietro di loro, nascosti e maldicenti, i Pedoni a due facce. Nuovore però fu presto rimosso e Lunicoverore, giunto al suo posto, non si lasciò intimidire. Questi era un grande condottiero e andò dritto per la sua strada, riportando Unicomondo, scosso da tante tempeste, sulla retta via. Pacificò le squadre, mise tutti al lavoro come un unico coro. Solo pensò di lasciare il compito della nomina del Ciambellano alla sopraggiunta Donnadicoppe che non era tanto forte. Perciò nominarono Irene, ma solo Mezzociambellano e l’altro mezzo arrivò dopo, quasi inavvertitamente.

Sembrava che per Irene adesso tutto andasse bene, ma il viaggio non era ancora finito e nemmeno il lavoro. Ancora battaglie, ancora ferite. All’orizzonte un’altra avventura. Quella in cui Unicomondo fu sopraffatto da Altromondo, non tanto per una guerra, ma per un terremoto. Quelli di Altromondo piombarono su Unicomondo, erano rapaci e privi di scrupoli, come Orchi del Signore degli Anelli. La stessa bocca schifosa, piena di bava e di denti, la loro voce era gutturale, la gola profonda emetteva suoni inumani. Irene fu rimossa da Ciambellano per occuparsi delle Cucine. Divenne Gran Cuciniere e sfornava piatti su piatti, alcuni perfetti, altri un po’ cotti, altri un po’ crudi. A Irene non piaceva cucinare, preferiva altri lavori, chiedeva a gran voce che la mettessero al sole e non la lasciassero nel buio degli scantinati, ma nessuno la ascoltava. Languiva, si accorse di fare sempre più fatica nel lavoro, come se spingesse una montagna, finché, sfinita, non bruciò una frittata. Allora la Falsaregina, che in quel momento aveva il potere, dispose che le tagliassero la testa. La Falsaregina, Irene lo sapeva, era solo un Pedone travestito, ma non se ne accorgeva nessuno. Tutti i Pedoni obbedivano e gli Orchi ringhiavano vendetta. Irene provò a gridare che la Regina era falsa,  che aveva il sorriso ipocrita dell’impostore, ch’era stata messa sul trono dai Granpapà senza nessun merito, nessuna nobiltà, ma il cuore le batteva all’impazzata, il respiro era mozzato, la voce non le usciva.

Nella piazza principale di Altromondo s’era riunita una piccola folla di Orchi e di Pedoni curiosi di vedere l’esecuzione. Al centro della piazza c’era una fontana grandiosa, tutta statue, marmi e giochi d’acqua. Fu letta  la sentenza che disponeva  le tagliassero la testa. Irene chinò il capo e solo allora vide se stessa. Si rese conto che a bruciare non era la frittata, ma il suo vestito e tutto il suo corpo, corse verso la fontana per spegnere il fuoco e si accorse che tra le statue di marmo, nascosta dai veli d’acqua, c’era una porta. La aprì, ne oltrepassò la soglia, poi chiuse la porta dietro di sé e questa, come d’incanto, si dissolse.

Altromondo era sparito, sparito il Paese delle meraviglie, i Pedoni, gli Orchi, la Falsaregina.

Irene si guardò intorno, si accasciò sul pavimento e pianse, il viso tra le mani: finalmente era tornata a casa.

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Alessandro Trasciatti, “Acrobazie”, Il ramo e la foglia Edizioni, 2021.

28 lunedì Giu 2021

Posted by Deborah Mega in I nostri racconti, LETTERATURA, Segnalazioni ed eventi

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Acrobazie, Alessandro Trasciatti

 

Le brevi storie di questa raccolta sono spiazzanti racconti del quotidiano, miniature curiose e circonvoluzioni della mente. Con abilità funambolica Alessandro Trasciatti scatta istantanee a partire da intuizioni e stravaganze, indaga le svirgolature dalla normalità, ritrae situazioni al limite del paradosso in cui convivono ironia e humor nero, erudizione ed esigenze corporali, aspirazioni letterarie di giovani bohémien e assurdi dialoghi con la mobilia della giungla casalinga.
I personaggi di Acrobazie si muovono trasognati e in precario equilibrio sulla soglia del verosimile, cercano un senso che dia forma al vuoto, «un punto fermo da cui ripartire».
Nella variopinta rassegna di sogni, amori giovanili e fantabiografie, si avvicendano affetti asinini, matrimoni unilaterali, violinisti sordomuti e inferni da Commedia.
Colpiscono i toni teneri e buffi e la scrittura tersa: con queste polaroid del possibile, Trasciatti propone l’autoironia come soluzione di fronte all’incomprensibile e le fantasticherie del passato come rifugio dal mondo. Acrobazie esplora i pertugi tra veglia e sonno, attraverso carambole stilistiche che fluiscono lievi e lasciano spazio al tepore di un sorriso.

*

1
Sterilmente ricerco da anni il mio luogo più integro e segreto, il mio centro nascosto, ma non trovo che angoli parziali e periferici. Del più recondito dei miei spazi ho tentato di parlarti in più d’una veglia, scarsa di luce ma gremita di parole, coi termosifoni spenti e noi avvolti in coperte di lana. Sedevamo sul divano giù al pianterreno. La “stanza del computer” la chiamavamo, perché era lui l’unico inquilino permanente di quelle quattro pareti fredde, dipinte di celeste chiaro. Su un lato una libreria folta di volumi di mio padre: riviste di elettronica, manuali di pedagogia, fotocopie rilegate, confusioni in varie fogge. Nel mezzo una scrivania cosparsa di penne e pennarelli, squadre, righelli, viti e dadi erranti, piccoli ordigni fuori uso in attesa di riparazione. Sulla scrivania il computer, appunto, avvolto in fogli di nylon trasparente a difesa dalla polvere, col suo ronzio insidioso – una volta acceso – e la sua luce raggelante.
Non c’era altro posto nella casa per parlarti. Non di sopra, coi genitori persi in perenni tenzoni da dopocena sull’uso dell’aglio negli intingoli, smodato secondo lui, appena percettibile secondo lei. Non di sopra, con i gatti acciambellati ovunque, i fratelli pacifisti in corteo contro la guerra, le sorelle aspiranti veline a controllare i fianchi negli specchi.
Non di sopra, nella mia camera che non avevi mai amato, piena com’era di cianfrusaglie colorate, ricercate con perversa cura, leziosamente giustapposte con tardivo gusto surrealista per l’inutile. Forse i libri ti piacevano, ma t’impedivo quasi di
toccarli per paura – fondata devo dire – che tu ne scambiassi l’ordine e infrangessi l’equilibrio di quelle teorie coscienziose di Einaudi, Sellerio, Adelphi, Gallimard. Non lo facevi, lo so, per cattiveria e nemmeno per eccessiva sciatteria, ma solo perché non arrivavi al fondo della mia minuzia maniacale e affettuosa al punto che riservavo ai miei volumi l’ultima occhiata prima di dormire. Come spiegarti la voluttà di guardarli e riguardarli, di verificarne le simmetrie, di constatare il loro numero accresciuto? Come farti capire, senza cadere nel ridicolo, il piacere materno di riordinarne le file e di reperire nuovi spazi quando gli scaffali traboccavano?
Non c’era altro angolo per parlarti se non la “stanza del computer”, inaccogliente e sottilmente ostile, ma silenziosa e lontana dai locali più abitati. E poi non era solo più facile chiacchierare senza timore di essere interrotti, potevamo anche leggermente amarci. Con le orecchie tese, è vero, ai rumori di eventuali avvicinamenti, ma in verità i passi erano benevolmente lenti – ovvio che tutti sapessero di noi – ed avevamo sempre il tempo sufficiente per ricomporci. Ci piaceva però pensare di essere davvero esposti alla ronda serale di chiusura delle porte, alle paternali, ai castighi espiatori, desideravamo anacronistiche punizioni corporali che nessuno ci inflisse. Ci piaceva pensarci come frutti proibiti l’uno all’altra, così non arrivammo mai ai limiti d’amore, anche perché era sempre tardi, faceva freddo ed il divano era scomodo. Meglio fermarsi, dunque, e rimandare le effusioni ad altra data.
Non c’era davvero altro anfratto per parlarti del più segreto dei miei luoghi, quello che, malgrado le approssimazioni, non ho mai trovato. Ti parlerò, allora, degli altri piccoli
recessi in cui mi sono rintanato in questi anni.

9
Sulla mia scrivania ho posto un foglio rigido di plastica trasparente per poterci mettere sotto qualche reliquia iconografica in cui specchiarmi ogni volta che mi siedo. Sono immagini di attori, tessere di associazioni, santini e, soprattutto, foto di te, foto di me.
Ero ansioso aspettandoti l’altra sera. Fumavo sigarette, mi sudavano le mani. Un mese era passato senza vedersi. Pensavo già che ti avrei detto: “Scusami se sono agitato, non posso farci niente”. Accesi la TV. Guardai distratto. Spensi.
Mi cosparsi la faccia col dopobarba che mi avevi regalato per Natale: “Dono di fidanzata”, sussurrasti. L’ho sempre usato poco, in verità, sono rimasto attaccato al mio. Non offenderti per questo. Riconosco che il tuo era un’essenza fine, ma sono pigro nelle mie abitudini olfattive. Giravo per la casa. Non arrivavi. Alle sette e mezza avevi detto. Erano quasi le otto.
In cucina mia madre stava terminando di preparare la cena. Non avrei potuto trattenerti a lungo, non avevi mai mangiato qui, nemmeno nei momenti migliori, figuriamoci ora. Finalmente suonasti. Al citofono dissi: “Sei tu?”. Infatti.
Scesi di corsa le scale. Aprii, eri lì e per me fu confusione. Come fosse tutto come prima e niente come prima. Entrasti. Eri di fretta. La tua fretta solita a cui ero affezionato. Mi dicesti di essere in ritardo, di dover fare presto. Non credo che fosse per difenderti dalla mia presenza, no. Eri sempre stata così. Era il tuo lato attivo, questo. Mi parlasti di assemblee, di presidi pacifisti in città (la guerra del Golfo, qui da
noi, era ancora fatta di scontri verbali e servizi televisivi), di sorelle che ti aspettavano, di professori. Volevi salire? Ti sfiorai il braccio in una stretta incerta che avrebbe voluto essere ospitale, affettuosa e riparare l’amore che ti avevo tolto, ma che pure non voleva darti l’impressione di un ripensamento, una stretta lieve che era paura di ferirti ancora e, soprattutto, paura delle tue reazioni, dei tuoi lucidi rimproveri, paura di te. Durò un attimo e ti accompagnai in fretta su in camera. “Ecco il libro”, dissi, “questo è quanto”. Eppure non era vero, non era quanto. Così continuai: “Posso darti qualcuno
dei regali che non ti ho portato per Natale?”. “Così, in fretta e furia?” rispondesti. “No, hai ragione, un’altra volta con più calma”. Mi accorsi di temere un tuo ritorno, sarebbe stato un sollievo consegnarti tutto in quel momento. Avevo paura sul serio. Perché eri bella. Parlavi, parlavi. Non ti sentivo, riuscivo solo a guardarti. Come avevo fatto a lasciarti? Ero stato davvero io? Dal mio reliquario sulla scrivania prendesti alcune foto, non feci in tempo a chiederti quali. Uscisti sempre rivolgendoti a me. Ti replicavo a mezze frasi. Ti domandai qualcosa che non avevo capito. Pensavo alle foto. Erano di certo le mie che ti eri portata dietro. Mi attraversò un filo di compiacimento. Eri già fuori. Faceva freddo. Ti salutai restando sulla porta. Tornai in camera per verificare quali foto avevi scelto per ricordarmi. Non compresi subito quello che vidi. In quella vetrinetta di memorie il volto mancante era il tuo.

 

*

 

ALESSANDRO TRASCIATTI è nato a Lucca nel 1965. Francesista di formazione, ha lavorato prima come archivista e postino, poi come editore dei Libratti, collana di letteratura illustrata nata dal blog Il Trasciatti – lunario inattuale di letteratura e desueta umanità. Tra le sue pubblicazioni troviamo Prose per viaggiatori pendolari (Mobydick 2002), Il dottor Pistelli. Una vita in ritardo (Garfagnana 2013), Avevo costruito un sogno. Storie e fatiche di un postino artista (Ediesse 2014), Scampoli (Oèdipus 2017). Negli anni ha scritto per diverse riviste letterarie e non, tra cui Il Grandevetro, Sinopia, Poesia, Paragone, Gente Viaggi; suoi testi sono apparsi anche su spazi online come La Balena Bianca, Altri Animali, NiedernGasse. Attualmente
collabora con Nuova Tèchne – rivista di bizzarie letterarie e non (Quodlibet).

Hanno detto di lui:
«I modelli di Trasciatti potrebbero essere due autori come Antonio Delfini e Robert Walser, al netto delle distanze; lo fanno pensare la sua misura, la prosa limpida e allegra, la presa soggettiva sulla realtà, e la levità con cui tocca la disperazione facendola subito evaporare.» – Andrea Cirolla, Doppiozero

«A suo modo [Trasciatti] è uno Cheval-Fitzcarraldo.» – Nazareno Giusti, Avvenire

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TRE DONNE

31 mercoledì Mar 2021

Posted by marian2643 in I nostri racconti, LETTERATURA

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Anna Maria Bonfiglio, Il profumo del mandorlo


ALBA

Dopo un inverno interminabile, flagellato da piogge e nevicate, finalmente era arrivato il sole. Dentro l’auto la temperatura era alta, nonostante dal finestrino aperto entrasse qualche refolo di vento. Era la prima volta che si incontravano, dopo un paio di mesi trascorsi nella burrasca di eventi che avevano turbato l’armonia della loro amicizia. Fra di loro, adesso, aleggiava un silenzio fatto di parole vuote, di frasi stereotipate, e infarcito di commenti banali sul traffico domenicale. Parole che nascondevano la paura di dire o di ascoltare altro da quel repertorio di idiozie che si stavano scambiando. Saveria guidava sbuffando, grattava le marce ed inviava occhiate preoccupate all’indicatore del carburante. Gloria mostrava il suo solito sorriso accomodante e tentava di distrarre Saveria dal suo nervosismo raccontando che aveva fatto la pulizia del viso, che la sua collega Gisella era affetta da una labirintite e che le piante del suo terrazzo si stavano riprendendo dopo le gelate subìte. Le piante (ma avrebbe potuto essere qualunque altra cosa) avevano riportato Diego alla mente di Alba. La floricoltura era un interesse che lui e Gloria condividevano, chissà quante volte Diego le aveva portato piantine e bulbi e aveva colto per lei le rose del suo piccolo giardino, così come una volta, non troppo tempo fa, le raccoglieva per lei, confidandole che raramente si risolveva a strappare i fiori dalle piante se non per casi eccezionali e assegnando al gesto un valore ben più grande di quello che gli si potesse attribuire. Emozionata, Alba s’inebriava al profumo di quel mazzetto di fiori e, appena appassiti, ne riponeva qualcuno fra le pagine di un libro. Chissà se anche Gloria conservava i cadaveri degli omaggi floreali di Diego.

            Fra strappi e frenate erano giunte sul viadotto San Michele. A destra, invisibile ma perfettamente delineato nella sua memoria, sorgeva il rustico di Diego, il loro rifugio; era il luogo della loro intimità, dove, dopo l’amore, restavano a parlare a lungo, di poesia, di esoterismo, di amici comuni. In uno di quei pomeriggi Diego aveva portato con sé un mazzo di tarocchi e aveva cercato di istruire Alba sulla loro simbologia. Le aveva raccontato di suo nonno, che “leggeva le carte” ed aveva avuto fra i suoi clienti nientemeno che Mussolini. Lei lo ascoltava e si appassionava ai racconti di lui, le si apriva la visione di un mondo infinitamente lontano da quello che era stato ed era il suo. Ora provava una fitta di nostalgia al pensiero che non avrebbe mai più ritrovato quelle ore rubate al monotono fluire delle sue giornate. E si diceva che era strano come quei gesti comuni potessero, in retrospettiva, apparire assoluti e insostituibili.

Imboccato il vialetto d’accesso, ecco la casa che Saveria e Gloria da due anni avevano preso in affitto per trascorrervi le estati. Mancavano da sette mesi, da quel settembre che le aveva viste, entusiaste, organizzare grigliate e country-party. Era stato durante l’ultimo di quei party che lei aveva avuto le prime avvisaglie di quello che sarebbe accaduto. Diego si era mostrato annoiato, manifestando attenzioni solo per Gloria. Alba si era accusata di essere la solita sospettosa, si rimproverava la sua mancanza di fiducia e la sua ossessione nei confronti di Diego.

            Dopo avere indossato i grembiuli e i guanti da giardinaggio, Gloria e Saveria si erano date da fare con zappe e rastrelli per sistemare le aiuole e piantare le nuove talee. Alba stava distesa sulla sdraio con il viso rivolto verso il cancello. Sul vialetto transitavano le macchine dei vicini e ad ogni passaggio lei trasaliva immaginando di stare aspettando Diego. Sapeva che non sarebbe successo, Diego non le avrebbe più raggiunte. La sua era diventata una presenza negata che pure s’imponeva con il peso dell’assenza. Forse ci sarebbe stata meno amarezza se fra loro tre avessero potuto parlarne, ma parlarne avrebbe significato sollevare la cortina dell’ignoto, aprire il vaso di Pandora ed essere pronte a sopportarne i venefici vapori.

Alba si domandava perché mai aveva acconsentito a trascorrere questa giornata proprio lì, dov’era più presente il ricordo delle recenti vicende, con Saveria e Gloria, testimoni e complici del sovvertimento che aveva investito la sua vita.

            Mentre Gloria si allontanava per una doccia, Saveria si dedicava alla preparazione del barbecue e, mentre spezzava legnetti e ammucchiava foglie secche, rivolgeva ad Alba uno sguardo affettuosamente indagatore: “Allora, come va?” E in questo interrogativo si affollavano una quantità di domande. Alba sapeva che Saveria avrebbe voluto aiutarla, che avrebbe voluto condividere il suo disagio e darle i giusti consigli, ma non voleva leggere nello sguardo e nelle parole dell’amica il larvato compatimento, preferiva sorriderle e dirle che andava tutto bene.

GLORIA

Quell’aria da vedova inconsolabile che aveva assunto Alba la irritava. Certo, avrebbe voluto farla sentire in colpa e lei detestava sentirsi in colpa. La rodeva la curiosità di sapere se stava ancora con Diego o se avevano rotto, ma Gloria era decisa a non cadere nella sua trappola. Temeva di lasciarsi prendere dal nervosismo e non voleva che succedesse, sarebbe stato fare il suo gioco. Sotto la doccia, mentre lasciava che l’acqua le scorresse addosso, pensava che  non era possibile far finta che non fosse successo niente e dimenticare le ore che lei e Diego avevano trascorso in quella casa. Era stata un’estate bellissima. Arrendersi alle attenzioni di Diego era stato sorprendente. Anche se aveva cercato di non prenderlo troppo sul serio, alla fine aveva vinto lui.

Alba e Saveria si stavano occupando del fuoco, le vedeva vicine vicine a parlottare. Immaginava che anche Saveria avrebbe voluto scavare nella sua vita e ricevere le sue confidenze. Quando aveva saputo di lei e Diego si era mostrata contenta, ma ora le sembrava che tutta la sua comprensione fosse per Alba. Perché alla fine sono i perdenti che stuzzicano quella parte pronta alla commiserazione, sono quelli che suscitano simpatia e per i quali si parteggia, ma Gloria a questa simpatia rinunciava volentieri, preferiva essere considerata fredda e inattaccabile e non tutta sospiri e malinconie, reclinata come un ciclamino moribondo.  Guardava il rametto di lunaria appeso alla maniglia della finestra che le aveva portato Diego in un meriggio di grilli. In ognuna di quella piccole foglie argentee le sembrava fosse rimasta impigliata la luce dei suoi occhi, quella luce che le aveva regalato attimi di stupore.

 

SAVERIA

Le faceva rabbia che Alba e Gloria non stessero assaporando il gusto di quella giornata che avrebbe potuto dissipare la tensione. Mostravano un atteggiamento innaturale, ed era chiaro che fra di loro l’ombra di Diego aveva scavato un percorso buio che nessuna delle due voleva percorrere. Forse se avesse  raccontato loro di quella mattina di dicembre in cui Diego le aveva chiesto d’incontrarla, sarebbero riuscite a ritrovare un briciolo di buonsenso e avrebbero smesso di pensare a Diego come al più grande bene perduto.

Quella mattina, seduta di fronte a lui al tavolino di un bar, dopo averlo ascoltato aveva pensato che la sua anima era come il suo corpo, scarna, sdutta, in una parola: minuscola. E come il suo corpo si raggomitolava e scompariva nel cavo della poltroncina che lo accoglieva, così la sua anima si avvolgeva su se stessa e si ricopriva per rendere invisibile il poco di sé.

            Diego l’aveva guardata con uno sguardo nuovo, diverso da quello che conosceva e lei aveva cominciato a sentirsi a disagio.

            “Ebbene- aveva detto ad un certo punto- di cosa volevi  parlarmi?”

            “Ho una storia con Gloria – aveva risposto lui senza indugio- ma è una cosa che non sta in piedi, iniziata per noia e continuata per inerzia. Qualcosa a cui non ho dato nessuna importanza.”

            “E perché allora me ne stai parlando?”

            “Perché è con te che vorrei stare.”

            “E Alba?”

            Lui aveva alzato le spalle con noncuranza.

L’indifferenza ed il cinismo con i quali stava mettendo in gioco i sentimenti di Alba e di Gloria l’avevano sconcertata. Aveva sempre pensato a lui come ad un uomo leale, lo aveva considerato un amico, una persona di cui fidarsi ed ora invece le appariva un gran bastardo che non si faceva scrupolo di usarle per riempire i suoi vuoti.

Prima di avviare il motore Saveria aveva dato un’ultima occhiata al cancello,  aveva abbracciato con lo sguardo casa e giardino per assicurarsi che tutto fosse a posto, infine aveva imboccato il vialetto per tornare sulla carrozzabile. Lungo la strada bar e pizzerie avevano acceso le insegne, il mare aveva preso il colore del piombo fuso ma, al largo, residue macchie di smeraldo ricordavano il lucore mattutino. In fondo era stata una buona giornata, calma e riposante, solo percorsa da una segreta vena di malinconia.

Saveria adesso guidava tranquillamente, in silenzio. Gloria aveva poggiato la testa allo schienale ed aveva chiuso gli occhi, Alba teneva ostinatamente lo sguardo al di là del finestrino. Si stava lasciando alle spalle, questa volta per sempre, il viadotto San Michele, il rustico di Diego e l’estate di un anno da dimenticare. Diego era un fantasma, un’ombra che non sarebbe sparita alla prima luce della nuova stagione, l’avrebbero incontrata ancora, nelle parole che avrebbero taciuto, negli occhi degli amici che avrebbero domandato di lui e forse l’avrebbero portata a lungo dentro come un dolore incarnito. Saveria pensava che qualcuno avrebbe dovuto spezzare quella specie di incantesimo che le teneva inchiodate come statuine di cartapesta sul loro trono di gesso e quel qualcuno non poteva che essere lei. Allora aveva fermato l’auto sulla prima piazzola di sosta che aveva incontrato e aveva detto: “Bene, ragazze, è arrivato il momento che vi racconti una storia.”

Anna Maria Bonfiglio

 

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Anime e animali

27 sabato Feb 2021

Posted by Loredana Semantica in I nostri racconti, LETTERATURA

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Anime e animali, Loredana Semantica, racconto

Camilla amava i gatti. Ne ammirava il corpo proporzionato e flessuoso, la piccola testa triangolare, gli occhi gialli, verdi, azzurri, tutte le fessure oblunghe delle pupille piantate nel buio a scrutare la notte. Bello il loro pelo variopinto, la sua lucentezza briosa, dalle tonalità del bianco, al rosso, al nero, declinato in tutte le molteplici sfumature del marrone, gli ineffabili grigi. Affascinanti i balzi eleganti dei gatti in barba a tutte le leggi della fisica, la disinvolta indifferenza del loro  incedere nel mondo e di contro i picchi di curiosità sfacciata e intrigante. Lo strusciarsi ruffiano contro le gambe, le fusa, le onde positive di vibrazioni che queste  diffondono, il magnetismo animale della presenza, il sicuro piglio del passo sui cornicioni a chilometri dal suolo, la capacità di giocare con un filo di lana, una pagliuzza d’erba, una foglia secca.

Avere davanti agli occhi un piccolo felino, con i pregi di quelli selvaggi e senza i problemi che quelli darebbero, era per Camilla un incomparabile regalo della natura. Guardare giocare due micetti la riconciliava col mondo, come ammirare un albero nel suo rigoglio, un fiore nel suo splendore. Era una sorta di danza, una fusione di tenerezza e bellezza, dove la morbidezza del pelo e i corpicini dai movimenti incerti e goffi si mescolavano nel gioco all’esercizio per la lotta necessaria alla vita futura.

Camilla ne aveva avuti tanti gatti nel suo giardino. Fino ad una ricca colonia di sedici animaletti, molti anni prima. Ancora adesso ne aveva intorno.  Da quando suo marito Oscar aveva montato una tettoia di policarbonato sul gazebo del giardino, i gatti del quartiere avevano deciso che quello era un luogo congeniale. La tettoia non era spiovente, ma piana, come Oscar avesse potuto montare una tettoria piana in un gazebo  progettato col tetto spiovente era un miracolo di inventiva.  Come avesse potuto sormontarla da un telo di polietilene era un mistero ancora più profondo. Il telo risultava praticamente inutile, esteticamente orribile, ed era stato strappato dal vento in più punti.

A dispetto di ciò i gatti avevano eletto quel luogo come prediletto.  Il telo di polietilene era diventato un tiragraffi ideale. C’era un gatto bianco latte pezzato a macchie grigie, con una testa quasi tonda e l’aria soddisfatta di chi non teme nemici, che amava schiacciare un pisolino nell’angolo sinistro della tettoria. Un altro tigrato rosso tutto pelo passava ogni mattina,  calpestando con le zampette guantate una passatoia in ferro  nero di appena otto centimetri. Non mancava di farsi vivo uno splendido gatto nero, lucido di pelo e muscoloso, simile a una pantera in miniatura, con magnetici occhi gialli. Compariva in modo spettacolare, ergendosi statuario in tutto il suo splendore. Almeno altri due o tre felini bazzicavano quel posto tra i quali un elegante persiano grigio polvere, probabilmente non randagio. Era diventato un luogo trafficato come il corso principale di un paese. Non potevano mancare le zuffe animate da soffi, zampate e miagolii che si concludevano con l’allontanamento dell’ultimo invasore. A Camilla non erano chiare le dinamiche degli scontri per cui qualche volta restava alla finestra per studiarle. Il gazebo era antistante alla finestra, la tettoia da quel punto di osservazione appariva come un palcoscenico.

Camilla amava i gatti, ma non solo. L’amore per gli animali le era semplicemente connaturato, pensava che fossero parte del creato e dovessero essere rispettati come abitanti della terra, espressione della natura e, se domestici, come amici.

Per questo motivo Camilla, quando era bambinetta di sette o otto anni non capì perché in quella bella pineta in montagna, con la giostra e l’altalena, le panchine e aiuole, un posto ideale per divertirsi e giocare. Non capì dicevo, perché  quel giorno un gruppetto di tre bambini, appena più grandetti, torturò e uccise un passerotto che aveva avuto la sventura di finire tra le loro mani. Dopo esserselo passato l’un l’altro tirandolo come una palla, l’ultimo del gruppo lo lanciò in aria e gli sferrò un calcio mandandolo a sbattere contro un tronco. Neanche il tempo di un grido. Camilla rimase attonita e sconvolta. Questo episodio si stampò indelebilmente nella memoria, finché fu capace di darsi ragione di questa crudeltà.

Divenne grande. Allora capì che  quei ragazzini si dicono balordi, e più in generale che gli uomini si dividono in due categorie i buoni, che operano per il bene e i cattivi, capaci di gesti simili, non soltanto con le bestie, ma anche con i simili. Capì che c’erano mille sfumature tra questi estremi. Di solito chi era crudele con gli animali non era benevolo nemmeno con le persone, solo che su queste avesse un briciolo di potere. Ne concluse che la vera natura di una persona emerge col potere. Decise che avrebbe imparato a riconoscere gli uomini e avrebbe sempre operato perché il potere fosse dato ai buoni. E così fece.  Indicibile impresa.  

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