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LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

LIMINA MUNDI

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traduzioni

Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “Il cane” di Rafael Barrett

09 giovedì Giu 2022

Posted by emiliocapaccio in Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Idiomatiche, LETTERATURA

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Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Emilio Capaccio, Il cane, Racconti, Rafael Barrett, TRADUZIONI

P A R A G U A Y

 IL CANE

 (1911)

Rafael Barrett (1876-1910)

Traduzione di Emilio Capaccio

Scrittore, saggista e giornalista, nato in Spagna e morto in Francia, ma vissuto per il periodo più significativo della sua vita in Paraguay, tanto da essere considerato uno dei più influenti scrittori di questo paese e promotore della moderna letteratura paraguayana. Ebbe una vita estremamente avventurosa, e bohémienne, fatta di duelli, ristrettezze economiche, collaborazioni con riviste e giornali di vari paesi e continui viaggi per il mondo. In Paraguay arrivò nel 1904, come corrispondente del giornale “El Tiempo”, per documentare la rivolta politica del generale liberale Benigo Ferreira, futuro presidente del Paraguay, dal 1906 al 1908. Barrett riuscì a farsi portare all’accampamento dei ribelli e a restare con loro fino a quando, alla fine dell’anno, non entrò nella città di Asunción insieme a Benigo Ferreira, vittorioso contro le truppe del presidente in carica, Juan Antonio Escurra, che dovette fuggire in Argentina. Sotto il nuovo governo fu nominato direttore dell’Ufficio Generale di Statistica. Dal 1903 al 1910 fu inviato in Argentina, Uruguay, Brasile e Paraguay come corrispondente per vari giornali, coniando per sé il termine di “giornalista militante”. Quasi tutta la sua opera è stata pubblicata postuma. Il racconto proposto è tratto dalla raccolta “Cuentos breves”.

Attraverso le ampie vetrate aperte della sala da pranzo dell’hotel, contemplavo, dal mio tavolo, l’orizzonte marino, sfumato nel lento crepuscolo. Vicino al molo riposavano le vele delle barche. Qualche silhouette elegante attraversava ad intervalli la sala, salendo la rampa; una cocotte che andava a rifarsi la toeletta per la cena, uno sportman pungolato dall’appetito. La sala si andava riempendo; il tintinnio di piatti e posate preludeva il pasto serale; i camerieri, di affettato e diplomatico aspetto, scorrevano in silenzio.
La luce elettrica, sopra la pila di tovaglie bianche come la neve, saltellava dal bordo di un calice alla convessità di un braccialetto d’oro per brillare all’angolo di una bocca sorridente. La brezza della notte smuoveva le piume dei ventagli, agitava i paralumi delle piccole lampade portatili, scopriva un braccio nudo sotto la flottante mussolina, e mescolava gli aromi del campo e del mare ai profumi delle donne. Si stava bene e non si pensava a niente.
All’improvviso un bel cane entrò nella sala da pranzo, e dietro di esso una giovane donna bionda e altezzosa che andò a sedersi assai lontano da me. Il suo accompagnatore si allontanò controllandoci. Era una specie di levriero, di razza incrociata. Il pelo, fine e dorato, brillava come quello di un pupazzo. La testa intelligente, degna di essere accarezzata da una di quelle mani che solo Van Dick ha compreso nelle sue tele, non si allungava in atteggiamento mendico. All’animale aristocratico non importava cosa succedesse sui tavoli. I suoi occhi alteri, gialli e trasparenti come due topazi, sembravano giudicarci sdegnosamente.
Giunto alla mia altezza, si fermò. Lusingato da questa preferenza, gli offrii un boccone di insaccato. Accettò e mi salutò con un discreto cenno della coda. Non ritenni corretto insistere e lo lasciai andare via. Istintivamente guardai verso la giovane bionda. Il blu intenso delle sue pupille sorrise benevolmente.
Dopo aver consumato la cena uscii sul terrazzo, dove c’era solitudine. Il faro proiettava un raggio di luce rotante, ora bianco, ora rosso, sulle acque nere dell’oceano. Il vento si era calmato. Un alito tiepido si levò dalla terra ancora calda.
Assorto davanti a quello spettacolo sentii, quando meno me lo sarei aspettato, le zampe nervose del mio nuovo amico che si posavano su di me. La giovane bionda mi era accanto.
— Che cane ammirevole, signorina…! o signora? – Domandai.
— Signora – disse la voce più dolce che abbia mai sentito.
Cominciammo così a vederci la sera, sulla terrazza solitaria, e durante alcuni pomeriggi facemmo lunghe passeggiate per i campi insieme a Tom, nostro unico testimone.
La signora di V. era russa. Mal sposata, ricca e malinconica, a volte riusciva a ottenere dal marito un periodo di libertà. Allora si abbandonava al fascino della natura e al sapore dei ricordi, e trascinava le sue delusioni per tutte le spiagge mondane.
— Non dovrei odiarlo – mormorava — ma lo odio; sì, lo odio, e Tom lo stesso; è arrogante, geloso, insopportabile; gli avrei perdonato le mie tristezze, se mi avesse dato un figlio. Neppure quello.
Il suo ombrello tracciava un leggero solco sul prato.
— Non posso permettermi un’amicizia, una simpatia. La sua intransigenza selvaggia mi tiene reclusa. Sarà qui fra quindici giorni.
Abbassò la testa dorata e continuò sottovoce:
— Amico mio; povera me se sospettasse questa innocente amicizia. Non potremo vederci più quando arriverà! Sarebbe troppo pericoloso, V. è uno dei migliori tiratori di San Pietroburgo.
Il suo braccio tremava sotto il mio, ma i suoi occhi umidi luccicavano teneramente. Tom saltava sulle farfalle e veniva a leccarci le mani. Lo accoglievamo con grandi risate e dopo lo consolavamo pieni di rammarico.
In altre occasioni la signora di V. mi riceveva nella sua camera. Tom si gettava sopra di me freneticamente. Lei, con gioia da bambina, mi mostrava i ritratti delle sue amiche, o mi raccontava storie della sua infanzia. Di quando in quando, si impossessava di noi un eccesso di sentimentalismo e con le dita intrecciate restavamo muti, lasciando parlare il nostro silenzio emozionato. Ma sempre prima di andarmene, io e Tom, giocavamo come due ragazzini.
Davanti alla gente facevamo finta di non conoscerci. Quando la signora di V. faceva il suo ingresso in sala da pranzo, a malapena inclinava la fronte. Tom faceva la sua solita passeggiata, e si fermava un attimo a ricevere qualche mia attenzione. Niente salti, niente feste! Il tatto di quell’animale era prodigioso! Un giorno in cui stavo pranzando con un conoscente, passò alla larga, come se non mi avesse mai visto. Ma il suo sguardo sembrava dire: “Non sono geloso; è quel signore che mi è antipatico”.
Venne il momento funesto. La signora di V. si presentò alle terme in compagnia del marito, la mia disperazione. L’uomo non lasciava la moglie un istante, come se si trattasse di una prigioniera. La donna portava Tom con loro, e io non riuscivo neppure ad accarezzare la testa del nostro fedele confidente.
Le settimane passavano e io cominciavo a scoraggiarmi, quando un giorno fui presentato al signor V. nel corso di una conversazione con i signori di H. Per una coincidenza uscimmo insieme, e insieme facemmo rientro nell’hotel.
Il signor V. era così come me lo avevano dipinto; il suo aspetto, aspro e sgradevole; la sua conversazione, autoritaria e asciutta. Scambiammo poche parole. Stringendomi la mano mi chiese con indifferenza:
— Volete conoscere mia moglie? Sarà ancora in piedi. È molto riservata, ma le piace discorrere in francese.
Che fare? Salimmo le scale, e ci fermammo davanti alla camera dove avevo trascorso tanti momenti deliziosi. All’improvviso mi assalì il terrore. Il cane! Avevo dimenticato il cane! Il cane mi avrebbe fatto le feste e leccato con tutta la sua anima! Che partito prendere? Povera amica mia! Povero me! Non mi piacque ricordare che il signor V. era uno dei migliori tiratori di San Pietroburgo.
Come chi va a suicidarsi, entrai nella stanza. La signora V., assalita dal mio stesso pensiero, divenne più pallida della morte. Tom, disteso con elegante indolenza, sollevò le orecchie al rumore dei nostri passi e aprì i suoi lucidi occhi giallastri…
Ma non si mosse neppure. Si accontentò di dimenare ironicamente la lunga coda impennacchiata.

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “La guercia” di Júlia Lopes de Almeida

26 giovedì Mag 2022

Posted by emiliocapaccio in Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Idiomatiche, LETTERATURA

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Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Emilio Capaccio, Júlia Lopes de Almeida, La Guercia, Racconti, TRADUZIONI

B R A S I L E

LA GUERCIA

(1903)

Júlia Lopes de Almeida (1862-1934)

Traduzione di Emilio Capaccio

È stata una delle ideatrici della “Accademia brasiliana delle lettere”. Avrebbe dovuto far parte dei 40 “immortali” che inizialmente la costituirono, ma fu scelto di mantenere l’Accademia completamente maschile, sull’esempio di quella francese, e al suo posto di dare la cattedra n. 3 al marito, il poeta Filinto de Almeida, che fu chiamato, per questo, “accademico consorte”. Solo nel 2017, è stato riconosciuto dall’Accademia il torto commesso ai danni della scrittrice e riconosciuta la stessa come cofondatrice dell’Accademia. È nota, oltre che per la sua considerevole opera letteraria, giornalistica e teatrale, di influenza prevalentemente naturalista, anche per essere stata una delle più tenaci abolizioniste della schiavitù e del commercio di persone africane nel suo paese, nonché sostenitrice della repubblica e dell’istruzione delle donne, del divorzio e dei diritti civili. Il racconto proposto è considerato un classico della letteratura brasiliana e inserito in molte antologie scolastiche.

Júlia Lopes de Almeida

La guercia era una donna alta, rinsecchita, macilenta, aveva il petto incavato, il busto ricurvo, le braccia lunghe e smilze, ma i gomiti e i polsi erano tozzi; le mani erano grandi, ossute, deformate da reumi e fatica; le unghie ispessite, opache e grigie, i capelli crespi, di un colore tra il bianco sporco e il biondo cinerino, che al tatto apparivano ruvidi e ispidi; la bocca cadente, in un’espressione di spregio, il collo lungo, raggrinzito, come quello degli avvoltoi; i denti, storti e marci.

Il suo aspetto infondeva terrore nei bambini e ribrezzo negli adulti; non tanto per la sua statura e per la straordinaria magrezza, quanto perché aveva un orribile difetto: le avevano cavato l’occhio sinistro; la palpebra scendeva avvizzita, lasciando, tuttavia, accanto al punto lacrimale, una fistola continuamente purulenta.

Era quella macchia giallastra nel fosco dell’occhiaia, quel distillare incessante di pus, che la rendeva ripugnante agli occhi degli altri.

Viveva in una vecchia casupola, il suo unico figlio, che faceva l’operaio in una sartoria, le pagava il fitto; lei si dava da fare lavando biancheria per gli ospedali e si arrabattava a fare qualunque faccenda domestica, compreso preparare da mangiare. Da bambino, il figlio trangugiava le misere pietanze fatte da lei, a volte anche nello stesso piatto sporco; poi crescendo, il disgusto per quel cibo si era manifestato pian piano sul suo viso; finché un giorno, con il pretesto di dover occuparsi di un ordine, aveva detto alla madre che, per comodità degli affari, di lì in avanti non avrebbe più mangiato a casa…

Lei finse di non capire la verità e si rassegnò.

Tutto il bene e tutto il male venivano da quel figlio.

Che importanza poteva avere che la gente la disprezzasse, se il suo amato figlio la ricompensava con un bacio per tutta l’amarezza dell’esistenza?

Un bacio del figlio era più bello di una giornata di sole, era la più dolce blandizia per il cuore triste di una madre. Ma anche i baci cominciarono a scarseggiare, con la crescita di Antonico. Da piccolo, la stringeva tra le braccia e la riempiva di baci; poi passò a baciarla solo sulla guancia destra, dove non c’era traccia della deformità della madre; ora si limitava a baciarle la mano.

Lei comprendeva tutto e taceva.

Il figlio non soffriva meno della madre.

Quando da bambino fece il suo ingresso nella scuola della parrocchia, i compagni di classe, che lo vedevano andare e venire con la madre, presto cominciarono a chiamarlo — il figlio della guercia.

Questo fatto lo indisponeva enormemente e ogni volta rispondeva:

— Io ho un nome!

Quelli ridevano e si prendevano gioco di lui; il bambino si lamentava con i maestri, i maestri rimproveravano gli alunni e qualche volta li punivano anche, ma il soprannome era rimasto, e presto non fu più soltanto a scuola a chiamarlo in quel modo.

Per strada, spesso, sentiva dire da questa o quella finestra: il figlio della guercia! Sta passando il figlio della guercia! Sta arrivando il figlio della guercia!

Erano le sorelle dei suoi compagni, più piccole e innocenti che, istruite dai loro fratelli, ferivano il cuore del povero Antonico ogni volta che lo adocchiavano.

Le fruttaiole, dove andavano a comprare le guava o le banane per la merenda, impararono rapidamente a chiamarlo allo stesso modo, e, molte volte, scostando gli altri bambini che si affollavano intorno a loro, dicevano con pietà e affetto, allungando una manciata di araçá (1):

— Queste sono per te, figlio della guercia!

Antonico avrebbe preferito non ricevere un bel nulla, al sentire tali parole; tanto più che gli altri bambini, con stizza, irrompevano ad alta voce, cantando in coro un motivo noto:

— Figlio della guercia, figlio della guercia!

Antonico chiese a sua madre che non andasse più a prenderlo a scuola; e rosso di vergogna, le raccontò la ragione; ogni volta che lo vedevano apparire sull’uscio della scuola i compagni bisbigliavano ingiurie, strizzavano l’occhio e gli facevano facce schifate.

La guercia sospirò e non andò più a prendere a scuola suo figlio.

All’età di undici anni, Antonico lasciò la scuola: era arrivato ormai ad azzuffarsi quotidianamente con i compagni che lo tormentavano e lo detestavano. Aveva chiesto di entrare nel laboratorio di un falegname. Ma nel laboratorio del falegname, ben presto impararono a chiamarlo — il figlio della guercia, e a umiliarlo, come quando andava a scuola.

Per di più, il lavoro era pesante e cominciò ad avere vertigini e malori. Trovò allora un impiego di addetto alle vendite, ma in breve tempo, i colleghi cominciarono a raggrupparsi davanti alla porta, per prenderlo in giro, e il venditore ritenne prudente mandarlo via, tanto più che arrivavano dalla strada dei teppistelli ad afferrare fagioli e riso nei sacchi davanti il negozio per gettarli addosso al ragazzo. Era una continua grandine di cereali sul povero Antonico.

Dopo questa esperienza si rintanò in casa, nauseato, smagrito, emaciato, disteso per terra alle mosche, sbadigliando di continuo e amareggiato da tutto. Evitava di uscire di giorno e non accompagnava mai la madre; lei lo risparmiava: aveva paura che in uno svenimento, il ragazzo gli morisse tra le braccia, e così non lo rimproverava mai. All’età di sedici anni, vedendolo più in salute, la guercia chiese e ottenne per lui un impiego in una sartoria. La povera donna raccontò al padrone tutta la storia di suo figlio e lo pregò di non lasciare che gli apprendisti lo umiliassero, ma che serbassero un po’ di carità per quel ragazzo.

Antonico incontrò un certo riserbo e una strana silenziosità da parte dei suoi compagni; quando il mastro diceva: — il signor Antonico – percepiva un malcelato risolino sulle labbra degli operai; ma a poco a poco questo sospetto, o questo risolino, cominciò a svanire, finché non iniziò a sentirsi bene nella sartoria.

Trascorse qualche anno e venne il momento che Antonico si prendesse una bella cotta per una ragazza. Fino ad allora, in questa o in quella inclinazione a infatuarsi, aveva trovato sempre una resistenza che lo aveva scoraggiato e lo aveva fatto indietreggiare senza troppe ferite. Ora, però, la cosa era diversa: si era innamorato veramente. Amava come un dissennato la bella morettina dell’isolato vicino, una ragazzetta adorabile dagli occhi neri come il velluto e la bocca fresca come un bocciolo. Antonico tornò un’altra volta a essere presente assiduamente in casa e si aprì alla madre con maggiore affetto; un giorno, quando ebbe scorso gli occhi della morettina fissarsi su di lui, entrò come un folle nella stanza della guercia e la baciò a lungo sul viso, anche sulla guancia sinistra, in un traboccare di scordata tenerezza.

Quel bacio fu per la donna un’inondazione di gioia. Aveva ritrovato il suo figlio caro. Si mise a canticchiare per tutto il pomeriggio, e quella notte, addormentandosi, confidò a sé stessa:

— Sono felice… mio figlio è un angelo!

Intanto Antonico scriveva, su carta fine, la sua dichiarazione d’amore. Il giorno seguente spedì la lettera di buonora. La risposta si fece attendere parecchio. Per molti giorni Antonico si perse in amare congetture.

All’inizio pensò: — È pudore.

Poi cominciò a sospettare qualcos’altro; alla fine ricevette una lettera in cui la bella morettina confessava di voler essere la sua innamorata, a patto che lui accettasse di separarsi da sua madre. Seguivano spiegazioni ingarbugliate, mal allineate: gli ricordava la necessità di cambiare quartiere; lì, era conosciuto come il figlio della guercia, e lei non voleva essere additata come la nuora della guercia, o qualcosa del genere.

Antonico si disperò. Non poteva credere che la sua casta e gentile morettina avesse pensieri così pratici.

Poi volse il suo rancore alla madre.

Lei era la causa di tutte le sue disgrazie. Aveva tormentato la sua infanzia, rovinato tutte le sue carriere, e ora il suo sogno più luminoso si sarebbe dissolto davanti a lui. Si sentì affliggersi per essere nato da una donna così brutta, e decise di cercare un modo per separarsi da lei; si sarebbe sentito umiliato se avesse continuato a vivere sotto lo stesso tetto; certo, avrebbe continuato ad accudire sua madre, ma lo avrebbe fatto da lontano, andando a trovarla qualche volta, di notte, furtivamente…

Salvava in questo modo la responsabilità di un figlio che deve prendersi cura della madre, e, al tempo stesso, poteva consacrare alla sua amata la felicità che le doveva in cambio del suo consenso e del suo amore…

Ebbe una giornata terribile; la sera, tornando a casa maturò il progetto e la decisione di riferirlo alla madre.

L’anziana donna, accovacciata davanti alla porticina del cortile, lavava alcune pentole con uno straccio unto. Antonico pensò: “Obbligherei veramente mia moglie a vivere con…una tale creatura?” Queste ultime parole furono strappate dal suo spirito con autentico dolore. La guercia sollevò il volto verso di lui, e Antonico, vedendo il pus che le colava sulla faccia, disse:

— Pulitevi la faccia, madre…

Lei affondò la testa nel grembiule e lui continuò:

— Alla fine, non mi avete mai spiegato a cosa è dovuto questo difetto!

— Fu una malattia – rispose la madre strozzando le parole — meglio non ricordarlo!

— Sempre la stessa risposta: meglio non ricordarlo! Perché?

— Perché non ne vale la pena; non c’è rimedio…

— Bene! Adesso ascoltate: ho da riferirvi una novità. Il padrone chiede che io vada a stare nelle vicinanze del negozio…ho già affittato una stanza; voi resterete qui, verrò tutti i giorni a trovarvi per sapere se avete bisogno di qualcosa… È per causa del lavoro; non abbiamo scelta, dobbiamo sottostare!…

Mingherlino, curvato per l’abitudine di cucire sulle ginocchia, asciutto e pallido come tutti i ragazzi cresciuti nell’ombra delle botteghe, dove il lavoro inizia presto e la sera finisce tardi, aveva gettato in quelle parole tutta la sua energia, e ora scrutava la madre con uno sguardo esitante e timoroso.

La guercia si alzò e, fissando il figlio con un’espressione tremenda, rispose con doloroso sdegno:

— Filibustiere! La verità e che ti vergogni di essere mio figlio! Vattene via! Che anch’io mi vergogno di essere la madre di un tale ingrato!

Il ragazzo se ne andò a testa bassa, dimesso e sorpreso dall’atteggiamento che aveva assunto la madre, fino ad allora sempre paziente e gentile, obbedendo meccanicamente a un ordine così ferocemente impartito.

Lei lo accompagnò fuori, serrò con un botto la porta, e vedendosi sola, si piegò contro il muro, scoppiando a piangere.

Antonico trascorse un pomeriggio e una notte di inquietudine.

La mattina seguente il suo primo pensiero fu quello di tornare a casa; ma non ebbe il coraggio di farlo; rivide il volto furioso della madre, le guance contratte, le labbra assottigliate dall’odio, le narici dilatate, il suo occhio destro sporgente, penetrante fino al fondo del suo cuore, il suo occhio sinistro formicolante, avvizzito e colmo di pus; rivide il suo atteggiamento altero, il suo dito ossuto, con le falangi sporgenti, che puntava energicamente verso la porta sulla strada.

Poteva sentire ancora il suono cavernoso della sua voce, il fiato che aveva preso per dire le vere e amare parole che gli aveva gettato in faccia; rivide tutta la scena del giorno prima e non osò affrontare un’altra volta il pericolo.

Si ricordò della madrina, l’unica amica della guercia, che, però, di rado andava a trovarla. Andò a chiederle di intercedere per lui, e le disse con franchezza tutto quello che era successo.

La madrina lo ascoltò commossa, poi disse:

— L’avevo previsto, quando consigliai a vostra madre di dirvi tutta la verità; lei non volle ascoltarmi, ed ecco!

— Quale verità, madrina?

Trovarono la guercia intenta a smacchiare il vestito elegante del figlio, voleva mandargli tutti gli indumenti lavati e puliti. La povera donna si era pentita delle parole che aveva pronunciato e aveva trascorso tutta la notte alla finestra, aspettando che Antonico tornasse o semplicemente passasse… Presagiva giorni avvenire vuoti e oscuri, e già si detestava. Quando l’amica e il figlio entrarono nella stanza, restò paralizzata: la sorpresa e la gioia le imbrigliarono ogni movimento.

La madrina di Antonico esordì subito:

— Il vostro ragazzo mi ha pregata di venire a chiedervi perdono per quanto è accaduto ieri e colgo l’occasione per dirgli quello che avreste dovuto dirgli voi, molto tempo fa.

— Non dite niente! – mormorò con voce spenta la guercia.

— Invece parlo! È proprio questa mollezza che vi sta facendo soffrire! Ascoltate, ragazzo! Chi accecò vostra madre foste voi!

Il figlioccio divenne livido in volto; la madrina continuò:

— Ah, non fu colpa vostra! Eravate molto piccolo quando, un giorno, a tavola, alzaste una forchetta nella mano; lei era distratta, e prima che potesse evitare la catastrofe, gliela conficcaste nell’occhio sinistro. Riesco ancora a sentire il suo grido di dolore.

Antonico cadde pesantemente a faccia in giù, in preda a uno svenimento; sua madre gli si avvicinò prontamente, borbottando tremante:

— Povero figlio! Vedi? Ecco perché non volevo dirti niente!

(1) È un frutto spontaneo autoctono del Brasile. La sua bacca è sferica, prevalentemente di colore giallo o rosso, mentre la polpa biancastra è di consistenza carnosa, di sapore dolce e lievemente acidula.

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“Inciampare nella gioia” di Sotirios Pastakas. Introduzione e traduzioni di Maria Allo

24 martedì Mag 2022

Posted by maria allo in Idiomatiche, LETTERATURA, Recensioni

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Inciampare nella gioia, Maria Allo, Soterios Pastakas

Sotirios Pastakas

Da “Παραπάτημα στη χαρά” – “Inciampare nella gioia” (libro secondo) di Sotirios Pastakas

Introduzione e traduzione a cura di Maria Allo.

Il testo proposto, Indaco, tratto da “Canti di misconosciuta gloria”, in preparazione presso la Multimedia Edizioni, è inserito in una sezione di sette componimenti sui sette colori dell’arcobaleno, dal titolo “Inciampare nella gioia”, esempio paradigmatico della cifra espressiva più autentica, ricca di humour di Pastakas. Uno dei sette testi , Rosso, è già noto ai lettori italiani, perché pubblicato nell’ampia antologia del poeta greco dal titolo “ Corpo a corpo”(Multimedia , Salerno 2016) e Blu nella prestigiosa Rivista di poesia Steve di Modena, diretta da Carlo Alberto Sitta ( N. 57 2021) con l’ introduzione di Giancarlo Cavalli, a cui si deve la premessa: “ Vorrei premettere per coloro che non conoscono Soterios Pastakas, che dovranno rapidamente abbandonare gli stereotipi legati all’idea della poesia greca nutrita di miti e archeologia, nel solco della tradizione classica, con sprazzi di paesaggio mediterraneo; se qualcosa di tutto questo, una sorta di grecità, permane in Pastakas, ciò avviene nell’unico modo possibile per un poeta contemporaneo dal respiro internazionale, ossia sovvertendola e demistificandola con le armi corrosive dell’ironia e del disincanto”. In Indaco, colore tra l’azzurro e il viola, associato alla spiritualità e alle facoltà intuitive della psiche, il poeta non denuncia una causa precisa ma dichiara il sentimento dominante della nostalgia di futuro per l’instabilità di tutte le cose: “Non hanno nome le ginocchia. / Sono andate e se ne sono andate/ e non tornano, / come non vanno all’indietro/ il fulmine, l’onda/ gli acini nel mazzo di uva, / Zeus ed Europa sulla spiaggia, / del loro primo amore/. Lo sguardo ironico del poeta sulla realtà, attraverso il gioco della ripetizione, proietta nel futuro un sentimento destinato al passato, quindi assimila il futuro al passato, cioè gli anni ancora da vivere, ignoti e imprevisti, a quelli già vissuti, noti e scontati. Si avverte il desiderio di qualcosa che sottragga all’ ignavia e all’apatia di un personaggio, quasi un doppio del poeta, che contemporaneamente narra la sua vita e vi ragiona sopra: “Dall’indaco il colore diventa cenere,/mare anche lui e non conosce/ il suo nome”. Lo spirito di Pastakas, apparentemente piano e semplice, erotico, mordace e immerso nei “colori” cangianti, scava nel buio dell’inconscio e della memoria. Il potere della sua poesia, con continua alternanza tra realismo e visionarietà al contempo allusiva, non è quello di determinare logicamente la realtà ma di dare forma a una realtà altra che non genera conoscenza ma una nuova coscienza. La poesia crea la vita di Pastakas che non si lascia “confinare nei termini asfittici di una poetica” (G. Cavallo). Certamente il proverbiale incontro con il poeta americano Jack Hirschman si palesa in qualche misura, sia nelle scelte stilistiche che nella formula di poesia “in re” che si faccia corpo, che si faccia vedere e toccare, come dice L. Anceschi. Anche l’interesse del poeta per la letteratura internazionale come per la traduzione di poeti italiani, riesce a far convivere, con assoluta originalità, l’essenza della classicità con le istanze della modernità. Nella chiusa del testo proposto il poeta prende le distanze con la lucida coscienza con la quale fronteggia il negativo e quel fulmen in clausola, battuta amara e autoironica, frequente nella poesia di Pastakas, giustifica la linea programmatica e il dinamismo di un Maestro riconosciuto per le generazioni più giovani.

“l’unica immortalità
che ho incontrato,
quella del corpo
l’unica gioia che mi è stata data
cantare
all’inizio della vecchiaia:
l’irriducibilità del pene”.

L’effetto complessivo è di forte amara ironia.

INDACO

Il Mar Libico
come tutti i mari,
non sa che si chiama Libico,
non conosce il suo nome:
un mare è anche quello,
insieme a tutti gli altri.
Come tutti i mari
cambia colore
di volta in volta,
una volta è pulito
e talvolta pieno di impurità.
Dall’indaco
il colore diventa cenere,
mare anche lui e non conosce
il suo nome.
Come la nave di stanotte
scafo arrugginito “Alekos”
con vernice dipinta di fresco
sulla vecchia lamiera:
«Pacifico», «Monte Carlo»,
nomi che sbiadiscono
sotto la vernice,
non appena le navi
raggiungono il porto, virano
per il prossimo,
cambiano nome,
cambiano carico
e l’equipaggio.
Un mare li accoglie
un mare dice addio,
il Libico non lo sa
il suo nome, come
non conoscono le navi
il loro nome, come non
conosci il corpo
se il tuo nome è Demetra,
Aleka o Calliope.
Il Mar Libico
non conosce il suo nome.
Indaco dall’anima corruttibile
spende nomi
muore ogni giorno.
Molte volte
nello stesso giorno.
La nostra piccola anima lo sa
quanto indaco dreni
ogni ora, ogni momento:
nella necroscopia di oggi
nomi vecchi preferiti
Gavdos, Chrissi, Elafonissos,
Palaiochóra. I mari
stanno cambiando anche i nomi.
Il Libico diventa il mare
di Citera, il mar Ionio,
anche lui è colpito da sciami di venti
del nord e forti venti meridionali.
Il vento cambia nome,
le onde diventano raffiche di onde,
le montagne in fondo
grotte ogni giorno
uccidono la nostra anima,
precedentemente Minosse,
Radamanthis, Sarpidon:
tu mi guardi, io ti guardo
non assomiglio a nessuno,
come la gioia mi condivido
su mille sentieri:
cuori, ferite e interiora fioriti.
Onde nerissime
dalle curve al ciglio della strada,
ho le vene aperte
e la gioia come una gomma forata,
si lascia velocemente
tutto indietro
prima di schiantarsi,
non si cura di noi.
Non hanno nome le ginocchia.
Sono andate e se ne sono andate
e non tornano,
come non vanno all’indietro
il fulmine, l’onda,
gli acini nel mazzo di uva,
Zeus ed Europa
sulla spiaggia,
del loro primo amore,
“Giove” da una lavanderia a secco
è diventato un negozio di kebab,
l “Europa” da salone di bellezza
un’agenzia di viaggi,
i negozi cambiano di mano,
rinnovano le vetrine
ogni giorno, sfitti
rimangono per giorni,
“Philion” viene battezzato
“Dolce”, Via Venizelos
prima di diventare Venizelos,
si chiamava Machis Analatou,
Elias Iliou, il corpo
che si contorce stasera
nelle mie mani ha così tanti
e tanti nomi,
prima e dopo di me,
posso battezzarlo,
la sensazione cambia sempre
gusta quando mordi
la prugna la prima volta
per quest’anno. Il nuovo anno
cambia i numeri.
I corpi dei cuori,
dal sessantasette
in Sud Africa
e fino ad oggi,
reni, fegati.
Cambiano mano i soldi,
nominando i beneficiari
nei libretti di risparmio,
cambiamo portachiavi
marca di sigarette
le nostre abitudini mattutine,
cambiamo playlist.
Stiamo cambiando treni, metropolitane,
autobus, a volte cavalieri
su due ruote, cerchi, pneumatici
nel motore l’olio.
Stiamo cambiando lo shampoo,
il formaggio quotidiano
sulla nostra tavola,
stoviglie, salotti, tende.
Stiamo cambiando colore dei capelli,
smalto alle unghie, opinioni politiche,
hobby, lavori, mogli, amanti,
anime camici da serpente,
prescrizioni mediche
piano in condominio,
taverne, bar, ristoranti,
amici e quartiere, auto, banca
soggiorno, tende.
Stiamo cambiando la lampada,
quattro psichiatri insieme,
sedici poetastri.
Si cambiano le gonne
le ragazze come indossano
la loro nuova anima,
sandali, scarpe, club e canzoni.
Ho cantato con passione
meno le trasformazioni
dell’anima mortale
con più coraggio
l’unica immortalità
che ho incontrato,
quella del corpo
l’unica gioia che mi è stata data
cantare
all’inizio della vecchiaia:
l’irriducibilità del pene.

ΛΟΥΛΑΚΙ

Το Λιβυκό πέλαγος
σαν όλες τις θάλασσες,
δεν ξέρει πως το λένε Λιβυκό,
δεν ξέρει τ’ όνομά του:
μια θάλασσα είναι κι αυτό,
μαζί με όλες τις άλλες.
Σα τις θάλασσες
αλλάζει χρώμα
από στιγμή σε στιγμή,
άλλοτε καθαρή
κι άλλοτε γεμάτη ακαθαρσίες,
περιττώματα, από λουλακί
το χρώμα της να γίνεται σταχτί,
σαν θάλασσα κι αυτή
δεν ξέρει το όνομά της.
Σαν το αποψινό καράβι,
σκουριασμένο σκαρί το «Alekos»
με τη φρεσκοβαμμένη μπογιά
πάνω στην παλιά λαμαρίνα:
«Pacific», «Monte Carlo»,
ονόματα που αχνοφαίνονται
κάτω από το βερνίκι,
καράβια που μόλις
πιάσουν λιμάνι, τραβάνε
για το επόμενο,
αλλάζουν όνομα,
αλλάζουν φορτίο
και πλήρωμα,
μια θάλασσα τα υποδέχεται
μια θάλασσα τ’ αποχαιρετά,
το Λιβυκό δεν γνωρίζει
τ’ όνομά του, όπως
δεν γνωρίζουν τα καράβια
τ’ όνομά τους, όπως δεν
γνωρίζει το σώμα
αν σε λένε Δήμητρα,
Αλέκα, Καλλιόπη.
Το Λιβυκό πέλαγος
δεν ξέρει τ’ όνομά του.
Λουλακί φθαρτής ψυχής
ξοδεύει ονόματα
πεθαίνει κάθε μέρα.
Πολλές φορές
μέσα στην ίδια μέρα.
Η ψυχούλα μας το ξέρει
πόσο λουλακί στραγγίζει
κάθε ώρα, κάθε στιγμή:
στη νεκροφάνεια του σήμερα
ονόματα παλιά αγαπημένα
Γαύδος, Χρυσή, Ελαφόνησος,
Παλαιοχώρα. Οι θάλασσες
αλλάζουν κι αυτές ονόματα.
Το Λιβυκό γίνεται θάλασσα
των Κυθήρων, Ιόνιο,
σαν θάλασσα κι αυτό
το χτυπάν βόρειοι ριπαίοι
άνεμοι, σφοδροί νότιοι άνεμοι.
Αλλάζει ονόματα ο άνεμος,
τα κύματα γίνονται
ριπές κατά κύματα,
τα βουνά στο βυθό
σπηλιάδες κάθε μέρα
σκοτώνουν τη ψυχούλα μας,
άλλοτε Μίνως,
Ραδάμανθυς, Σαρπηδών:
με κοιτάτε, σας κοιτώ
δεν μοιάζω με κανέναν,
σαν τη χαρά μοιράζομαι
σε χίλια μονοπάτια:
καρδιές, πληγές
κι ανθισμένα σπλάχνα.
Κατάμαυρα τα κύματα
απ’ τις στροφές στο οδόστρωμα,
έχω τις φλέβες ανοικτές
και τρύπιο λάστιχο η χαρά,
τ’ αφήνει γρήγορα
όλα πίσω της
προτού να ντεραπάρει,
δεν νοιάζεται για κανέναν.
Δεν έχουν όνομα τα γόνατα.
Φεύγουν και χάνονται
και πίσω δεν γυρνάνε,
όπως πίσω δεν γυρνούν
η αστραπή, το κύμα,
οι ρόγες στο τσαμπί τους,
ο Δίας κι η Ευρώπη
στην αμμουδιά,
του πρώτου έρωτά τους,
ο «Δίας» από καθαριστήριο
έγινε σουβλατζίδικο,
η «Ευρώπη» κομμωτήριο
από γραφείο ταξιδίων,
αλλάζουν χέρια τα μαγαζιά,
ξηλώνουν βιτρίνες
κάθε μέρα, ανοίκιαστα
παραμένουν για μέρες,
σε «Φίλιον» βαφτίζεται
το «Dolce», η Βενιζέλου
πριν γίνει Βενιζέλου,
είναι Μάχης Αναλάτου,
Ηλία Ηλιού, το κορμάκι
που σπαρταράει απόψε
στα χέρια μου έχει τόσα
όσα ονόματα,
πριν και μετά από μένα,
μπορώ να του δώσω,
το συναίσθημα αλλάζει
πάντα γεύση όταν δαγκώνει
δαμάσκηνο πρώτη φορά
για φέτος. Το νέο έτος
αλλάζει νούμερα.
Τα σώματα καρδιές,
απ’ το εξήντα εφτά
στη Νότιο Αφρική
και μέχρι σήμερα,
νεφρά, συκώτια.
Αλλάζουν χέρι τα λεφτά,
όνομα οι δικαιούχοι
στα βιβλιάρια καταθέσεων,
αλλάζουμε μπρελόκ
μάρκα τσιγάρων
τις πρωινές μας συνήθειες,
αλλάζουμε play list.
Αλλάζουμε τρένα, μετρό,
Λεωφορεία, ενίοτε αναβάτες
σε δίκυκλα, ζάντες , ελαστικά
στη μηχανή το λάδι.
Αλλάζουμε το σαμπουάν,
το καθημερινό τυρί
στο τραπέζι μας,
σερβίτσια, καθιστικά, κουρτίνες.
Αλλάζουμε χρώμα μαλλιών,
βαφή νυχιών, πολιτικές απόψεις,
χόμπι, δουλειές,
γυναίκες, γκόμενες,
ψυχές πουκάμισα φιδιού,
φαρμακευτική αγωγή,
όροφο σε πολυκατοικίες,
ταβέρνες, μπαρ, εστιατόρια,
φίλους και συνοικίες,
αυτοκίνητα, τράπεζα
καθιστικό, κουρτίνες.
Τη λάμπα αλλάζουμε,
τέσσερις Ψυχίατροι μαζί,
δεκάξι ποιητάρηδες.
Αλλάζουν φουστάνια
τα κορίτσια σαν να φορούν
ψυχούλα τους καινούργια,
πέδιλα, παπούτσια,
κλαμπ και τραγούδια.
Τραγούδησα με πάθος
λιγότερο τις μεταμορφώσεις
της θνητής ψυχής
και θάρρος περισσό
την μόνη αθανασία
που γνώρισα,
εκείνη του σώματος
τη μόνη χαρά που μου δόθηκε
να τραγουδήσω
μες στο αρχόμενο γήρας:
την αφθαρσία του πέους.

© Maria Allo

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Fernando Pessoa. Traduzioni di Emilio Capaccio

19 giovedì Mag 2022

Posted by emiliocapaccio in Idiomatiche, LETTERATURA

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Emilio Capaccio, Fernando Pessoa, POESIA, TRADUZIONI

La vita è ciò che facciamo di essa.

I viaggi sono i viaggiatori.

Ciò che vediamo non è ciò che vediamo,

ma ciò che siamo.

F. P.

Fernando Pessoa (1888-1935), traduzioni di Emilio Capaccio 

QUANDO VERRÀ LA PRIMAVERA

Quando verrà la primavera
se sarò già morto,
i fiori fioriranno della stessa maniera.
E gli alberi non saranno meno verdi della primavera scorsa.
La realtà non ha bisogno di me.
Sento un’allegria enorme
nel pensare che la mia morte non abbia alcuna importanza.
Se sapessi che domani morirei
e la primavera venisse dopo domani
morirei contento perché essa verrebbe dopo domani.
Se la primavera è il suo tempo, quando dovrebbe arrivare se non nel suo tempo?
Mi piace che tutto sia reale e che tutto sia certo;
e mi piace perché così sarebbe, anche se non mi piacesse.
Per questo, se muoio adesso, muoio contento,
perché tutto è reale e tutto è certo.
Possono pregare in latino sulla mia bara, se lo vogliono.
Se lo vogliono, possono danzare e cantare a ruota di essa.
Non ho preferenze per quando non è più possibile avere preferenze.
Qualunque cosa, quando sarà, sarà per quello che è.
 
QUANDO VIER A PRIMAVERA

Quando vier a Primavera,
Se eu já estiver morto,
As flores florirão da mesma maneira
E as árvores não serão menos verdes que na Primavera passada.
A realidade não precisa de mim.
Sinto uma alegria enorme
Ao pensar que a minha morte não tem importância nenhuma
Se soubesse que amanhã morria
E a Primavera era depois de amanhã,
Morreria contente, porque ela era depois de amanhã.
Se esse é o seu tempo, quando havia ela de vir senão no seu tempo?
Gosto que tudo seja real e que tudo esteja certo;
E gosto porque assim seria, mesmo que eu não gostasse.
Por isso, se morrer agora, morro contente,
Porque tudo é real e tudo está certo.
Podem rezar latim sobre o meu caixão, se quiserem.
Se quiserem, podem dançar e cantar à roda dele.
Não tenho preferências para quando já não puder ter preferências.
O que for, quando for, é que será o que é.
 
HO COSÌ TANTO SENTIMENTO

Ho così tanto sentimento
che spesso mi convinco
di essere sentimentale,
ma riconosco nel valutarmi
che tutto questo è un pensiero
che alla fine non ho mai fatto.
Noi, tutti quelli che vivono,
abbiamo una vita che è vissuta
e un’altra che è pensata,
ma l’unica che abbiamo
in effetti, è quella che si divide
tra la vera e la falsa.
Quale tuttavia sia quella vera
e quale quella falsa,
nessuno potrà mai spiegarlo;
e viviamo di modo
che la vita che abbiamo
è quella che pensiamo.
 
TENHO TANTO SENTIMENTO

Tenho tanto sentimento
Que é frequente persuadir-me
De que sou sentimental,
Mas reconheço, ao medir-me,
Que tudo isso é pensamento,
Que não senti afinal.
Temos, todos que vivemos,
Uma vida que é vivida
E outra vida que é pensada,
E a única vida que temos
É essa que é dividida
Entre a verdadeira e a errada.
Qual porém é a verdadeira
E qual errada, ninguém
Nos saberá explicar;
E vivemos de maneira
Que a vida que a gente tem
É a que tem que pensar.
 

VEDO I PAESAGGI SOGNATI


Vedo i paesaggi sognati con la stessa chiarezza con cui fisso quelli reali. Se mi sporgo sui miei sogni è su qualcosa che mi sporgo.
Se vedo passare la vita, sogno qualcosa.

Qualcuno ha detto che le figure dei sogni hanno stesso rilievo e ritaglio delle figure della vita. Per me, anche se comprendessi che si usasse una simile frase, non la accetterei. Per me, le figure dei sogni non sono uguali a quelle della vita. Sono parallele.
 
VEJO AS PAISAGENS SONHADAS


Vejo as paisagens sonhadas com a mesma clareza com que fito as reais. Se me debruço sobre os meus sonhos é sobre qualquer coisa que me debruço.
Se vejo a vida passar, sonho qualquer coisa.

De alguém disse que para ele as figuras dos sonhos tinham o mesmo relevo e recorte que as figuras a vida. Para mim, embora compreendesse que se me aplicasse frase semelhante, não a aceitaria. As figuras dos sonhos não são para mim iguais às da vida. São paralelas.
 
NON VADO A TROVARE NESSUNO NON FREQUENTO ALCUNA SOCIETÀ


Non vado a trovare nessuno, non frequento alcuna società — né dentro i salotti, né dentro i caffè. Farlo sarebbe sacrificare la mia unità interiore, arrendersi a conversazioni inutili, rubare tempo quantomeno ai miei ragionamenti e ai miei progetti, se non altro ai miei sogni, che sono più belli delle chiacchiere altrui.
Mi devo all’umanità futura. Quanto di me sprecherei è il patrimonio divino possibile degli uomini di domani; ridurrei la felicità che potrei dargli e ridurrei me stesso, non solo ai miei occhi reali, ma agli occhi di Dio.
Può non essere così, ma sento il dovere di crederlo.
 
NÃO FAÇO VISITAS NEM ANDO EM SOCIEDADE ALGUMA


Não faço visitas, nem ando em sociedade alguma – nem de salas, nem de cafés. Fazê-lo seria sacrificar a minha unidade interior, entregar-me a conversas inúteis, furtar tempo senão aos meus raciocínios e aos meus projectos, pelo menos aos meus sonhos, que sempre são mais belos que a conversa alheia.
Devo-me a humanidade futura. Quanto me desperdiçar desperdiço do divino património possível dos homens de amanhã; diminuo-lhes a felicidade que lhes posso dar e diminuo-me a mim-próprio, não só aos meus olhos reais, mas aos olhos possíveis de Deus.
Isto pode não ser assim, mas sinto que é meu dever crê-lo.
 

 
NON HO MAI CUSTODITO GREGGI

Non ho mai custodito greggi
ma è come se li custodissi.
La mia anima come un pastore
conosce il vento e il sole
e va mano a mano con le stagioni
a seguire e a guardare.
Tutta la pace della natura senza gente
viene a sedersi accanto.
E io divento triste come un crepuscolo
per la nostra immaginazione
quando raffresca in fondo alla pianura
e si sente la notte entrare
dalla finestra come una farfalla.

Ma la mia tristezza è quieta
perché è naturale e giusta
ed è ciò che nell’anima deve esserci
quando essa pensa d’esistere
e le mani colgono fiori senza che se ne accorga.

Come uno scampanellio di sonagli
oltre la curva della strada,
i miei pensieri sono contenti.
Solo mi dispiace sapere che sono contenti,
perché se non lo sapessi
invece d’essere contenti e tristi,
sarebbero allegri e contenti.

Pensare è spiacevole come andare nella pioggia
quando il vento cresce e sembra piovere di più.

Non ho ambizioni né desideri
essere poeta non è una mia ambizione
è il mio modo di stare solo.

E se desidero a volte,
per divagare, essere un agnellino
(o tutto il gregge
a sparpagliarmi nella costa
ed essere al contempo tante cose felici)

è solo perché sento ciò che scrivo al crepuscolo
o quando una nuvola passa la mano sulla luce
e corre un silenzio attraverso l’erba.

Quando mi siedo a scrivere versi
o, passeggiando per sentieri e scorciatoie,
scrivo versi su un foglio che è nel mio pensiero,
sento un vincastro tra le mani
e vedo un ritaglio di me
in cima ad un’altura,
tenere d’occhio il mio gregge e vedere le mie idee
o tenere d’occhio le mie idee e vedere il mio gregge
e sorridere vagamente come chi non comprende
ciò di cui si parla e vuole fingere di comprendere.
Saluto tutti quelli che mi leggeranno,
togliendomi il largo cappello
quando mi vedono alla mia porta
non appena la diligenza s’eleva in cima alla collina.

Li saluto e gli auguro il sole,
e la pioggia, quando la pioggia è necessaria
e che le loro case abbiano
ai piedi d’una finestra aperta
una sedia prediletta
dove si seggano, leggendo i miei versi.
E leggendo i miei versi pensino
che io sia una cosa naturale ―
per esempio, un albero antico
all’ombra del quale da bambini
si sedevano con un tonfo, stanchi di giocare
e si pulivano il sudore dalla testa accaldata
con la manica del grembiulino a righe.
 
EU NUNCA GUARDEI REBANHOS

Eu nunca guardei rebanhos,
Mas é como se os guardasse.
Minha alma é como um pastor,
Conhece o vento e o sol
E anda pela mão das Estações
A seguir e a olhar.
Toda a paz da Natureza sem gente
Vem sentar-se a meu lado.
Mas eu fico triste como um pôr de sol
Para a nossa imaginação,
Quando esfria no fundo da planície
E se sente a noite entrada
Como uma borboleta pela janela.

Mas a minha tristeza é sossego
Porque é natural e justa
E é o que deve estar na alma
Quando já pensa que existe
E as mãos colhem flores sem ela dar por isso.

Como um ruído de chocalhos
Para além da curva da estrada,
Os meus pensamentos são contentes.
Só tenho pena de saber que eles são contentes,
Porque, se o não soubesse,
Em vez de serem contentes e tristes,
Seriam alegres e contentes.

Pensar incomoda como andar à chuva
Quando o vento cresce e parece que chove mais.

Não tenho ambições nem desejos
Ser poeta não é uma ambição minha
É a minha maneira de estar sozinho.

E se desejo às vezes
Por imaginar, ser cordeirinho
(Ou ser o rebanho todo
Para andar espalhado por toda a encosta
A ser muita cousa feliz ao mesmo tempo),

É só porque sinto o que escrevo ao pôr do sol,
Ou quando uma nuvem passa a mão por cima da luz
E corre um silêncio pela erva fora.

Quando me sento a escrever versos
Ou, passeando pelos caminhos ou pelos atalhos,
Escrevo versos num papel que está no meu pensamento,
Sinto um cajado nas mãos
E vejo um recorte de mim
No cimo dum outeiro,
Olhando para o meu rebanho e vendo as minhas ideias,
Ou olhando para as minhas ideias e vendo o meu rebanho,
E sorrindo vagamente como quem não compreende o que se diz
E quer fingir que compreende.
Saúdo todos os que me lerem,
Tirando-lhes o chapéu largo
Quando me vêem à minha porta
Mal a diligência levanta no cimo do outeiro.

Saúdo-os e desejo-lhes sol,
E chuva, quando a chuva é precisa,
E que as suas casas tenham
Ao pé duma janela aberta
Uma cadeira predileta
Onde se sentem, lendo os meus versos.
E ao lerem os meus versos pensem
Que sou qualquer cousa natural –
Por exemplo, a árvore antiga
À sombra da qual quando crianças
Se sentavam com um baque, cansados de brincar,
E limpavam o suor da testa quente
Com a manga do bibe riscado.
 
PREGHIERA

Signore, la notte viene e l’anima è vile.
Tanto fu lo sconquasso e la bramosia!
Ci rimane oggi nel silenzio ostile
il mare universale e la nostalgia.

Ma la fiamma, che la vita in noi creò,
se ancora ha vita, ancora non è spenta.
Il freddo morto in cenere la occultò:
la mano del vento può darle altra spinta.

Dia il soffio, la brezza – rovina o trepidanza –
affinché la fiamma dell’ardire venga in mostra,
e conquisteremo di nuovo la Distanza –
del mare o un’altra, ma che sia la nostra!
 
PRECE

Senhor, a noite veio e a alma é vil.
Tanta foi a tormenta e a vontade!
Restam-nos hoje, no silencio hostil,
o mar universal e a saudade.

Mas a chamma, que a vida em nós creou,
se ainda há vida ainda não é finda.
O frio morto em cinzas a ocultou:
a mão do vento pode erguel-a ainda.

Dá o sopro, a aragem – ou desgraça ou ancia –
com que a chamma do esforço se remoça,
e outra vez conquistemos a Distancia –
do mar ou outra, mas que seja nossa!
 
NON BASTA APRIRE LA FINESTRA

Non basta aprire la finestra
per vedere i campi e il fiume.
Non basta non essere ciechi
per vedere alberi e fiori.
È necessario anche non avere alcuna filosofia.
Con la filosofia non ci sono alberi: ci sono solo idee.
C’è soltanto ognuno di noi, come una caverna.
C’è soltanto una finestra chiusa e il mondo là fuori;
e un sogno di ciò che si potrebbe vedere se la finestra s’aprisse,
che mai è ciò che si vede quando la finestra s’apre.
 
NÃO BASTA ABRIR A JANELA

Não basta abrir a janela
para ver os campos e o rio.
Não é bastante não ser cego
para ver as árvores e as flores.
É preciso também não ter filosofia nenhuma.
Com filosofia não há árvores: há ideias apenas.
Há só cada um de nós, como uma cave.
Há só uma janela fechada, e todo o mundo lá fora;
e um sonho do que se poderia ver se a janela se abrisse,
que nunca é o que se vê quando se abre a janela.

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “L’immagine” di José Pedro Bellán

12 giovedì Mag 2022

Posted by emiliocapaccio in Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Idiomatiche, LETTERATURA

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Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Emilio Capaccio, José Pedro Bellán, L'immagine, Racconti, TRADUZIONI

U R U G U A Y

L’IMMAGINE

(1914)

José Pedro Bellán (1889-1930)

Traduzione di Emilio Capaccio

È stato drammaturgo, per il quale è maggiormente conosciuto, insegnante in varie scuole e corsi serali, scrittore, politico, esponente del partito “Colorado”, uno dei partiti politici che ha governato per più anni il paese. È stato deputato dal 1926 al 1930. Ha fatto parte del movimento artistico e letterario che ha dato vita, nella città di Montevideo, alla rivista “Bohemia”, pubblicata dal 1908 al 1910, diretta da Louis Alberto Lista e, in seguito, da Edmundo Bianchi. Le sue opere teatrali e le sue raccolte di racconti rispecchiano in prevalenza la corrente del realismo con grande capacità di introspezione dei personaggi, affrontando tematiche attinenti il puritanesimo, il ruolo della donna, l’educazione cattolica, e la cultura borghese. In generale, i personaggi di Bellán, spesso, si fanno portatori di conflitti interiori che scaturiscono dal nuovo modello spaziale di aggregazione sociale, che è la grande città, degli inizi del ‘900 a scapito dell’ambiente rurale. Il racconto proposto è tratto da una delle prime raccolte: “Huerco”.

In una delle ultime casette del barrio dei pescatori, quasi sulla riva del mare, il vecchio Leopoldo, settantenne, fuma la pipa carica di virginia (1). Davanti a lui, la moglie del figlio, pungolata da un pensiero tenace, rammenda una calza grigia bucata sul tallone. Restano così per molto tempo: muti, senza guardarsi, come se fossero soli. Certamente hanno lo stesso pensiero.

La tempesta non si ferma. Per tre ore ha sconquassato il barrio e lo ha riempito di paura.

Il mare è una tempesta immensa che stordisce. I suoi promontori d’acqua durano per un istante, convulsi, inquieti, poi crollano nello stesso momento. Sembrano ribollire.

Tutte le barche sono tornate fuorché una.

— Maria ci mette troppo, dice Leopoldo, rompendo il silenzio.

Si riferisce alla nipote di dieci anni, una bella bambina con gli occhi azzurri, bianca e delicata. L’hanno mandata già tre volte a chiedere notizie e per tre volte ha cercato i compagni di suo padre, i pescatori salvi, implorandoli di riferire qualche informazione, anche la più semplice, la più insignificante.

Quando è tornata, ha risposto nello stesso modo delle volte precedenti.

— Nessuno sa niente… nessuno lo ha visto.

Si è seduta vicino al tavolo e vi si è appoggiata. Le sue piccole mani esangui si sono congiunte come in preghiera.

La scena si è ripetuta. L’immagine fredda del raccoglimento stretto alle cose ha permeato la stanza. È passato un po’ di tempo.

Leopoldo parla di nuovo. La sua voce si fa inquieta e spaventa.

— Questo vento!

Elena ascolta con ansia. Poi, spinta dai suoi pensieri, domanda:

— Quanti erano nella barca?

— I soliti. Lui e i due ragazzi.

Si ferma. Poi sbotta:

— Una volta sono quasi annegato.

Elena chiede con interesse:

— E come vi siete salvato?

— Ascolta tu stessa. Era notte. Il vento si infilava tra il velame in una maniera tale che ebbi paura avrebbe rovesciato la barca. Allora mi legai a essa, annodai le corde agli anelli e, non potendo sciogliere le vele, le squarciai con il coltello. In seguito, stemmo più di sette ore sulla barca, come su una boa alla deriva. Un vaporetto ci soccorse.

— Se solo Renato avesse quest’idea – dice Elena, con l’immaginazione che corre.

— Sì… lui sa di queste cose…

Elena non pensa che lui lo sappia; ha dato uno sguardo attento al suo passato e non ricorda che Renato abbia mai parlato di qualcosa di simile. Da ciò intuisce che non saprebbe salvarsi e un’angoscia più grande le preme sulla gola. In tutto questo, la bambina sembra addormentata sul tavolo.

Senza rendersene conto, Elena giunge a una crudele tenerezza. Esclama tristemente:

— Povero Renato… ricordate quando vi siete andato in collera con lui? Nessun figlio si sarebbe comportato così.

— È vero ragazza, avete ragione. Ricordo anche che in seguito ho pianto per la prima volta. Che cuore!…

Elena continua:

— Non se la prende mai per niente. Vedeste la guerra che gli fece mio padre. Tuttavia, dopo che ci siamo sposati, Renato non ha smesso di fargli favori. Se n’è preso cura e lo ha mantenuto. Si può dire che mio padre ha vissuto a sue spese.

Ora non riesce a trattenersi. Emette un singhiozzo.

— Andiamo ragazza; non c’è motivo di piangere…

Entrambi si fanno silenziosi per paura di farsi prendere troppo dall’inquietudine. Leopoldo afferra un palangaro e lo svolge quanto gli consente lo spazio intorno a lui. Dopo lo rimette a posto, controllando amo dopo amo, sughero dopo sughero. Qualcosa di strano passa attraverso il palangaro, tra le sue dita febbrili.

Elena mette da parte il rammendo senza rendersene conto. Guarda il vecchio e lo osserva a lungo con ansia, cercando una risposta alla sua muta domanda, insistendo su quel volto rinsecchito che resta tranquillo. È convinta che il vecchio lo sa, necessariamente. Trent’anni in mare, non gli danno il diritto di conoscerlo bene?…

Si alza e prendendolo per le spalle gli dice in una supplica disperata:

— Voi lo sapete… voi lo sapete…

Il vecchio spalanca gli occhi per lo stupore. In quel momento il suo Renato è un ragazzino che ha appena finito di gattonare, che ha disordinato tutto rompendo i ninnoli, che dice, mamma, papà, e che piange quando non lo baciano. Tarda solo pochi secondi per capire cosa vuole quella ragazza. Allora il rude scuotimento gli fa umidire gli occhi, e risponde in modo ottuso:

— Non lo so… come faccio a saperlo?…

Questa volta è lei a usare parole di conforto.

— Ora siete voi che vi ponete male — dice affettuosamente. — Aspettiamo. È possibile che non sia accaduto nulla di grave.

Ma, sentendo che Leopoldo respira violentemente, continua con maggiore tenerezza:

— Calmatevi… vi farà male. E poi… Maria è lì. Se si svegliasse e ci sorprendesse… La povera piccola è felice dormendo.

Leopoldo bacia la ragazza e lei si siede al suo fianco, sfiorandolo quasi con la gonna. Così, messi uno accanto all’altro, si sentono meglio.

Tornano a parlare di Renato. All’inizio lo fanno con animo sereno, con più fermezza. Tuttavia, nel momento in cui i dettagli dei ricordi emergono, un tono commosso sale dalle loro gole.

Parlano di lui come se non esistesse.

Maria li interrompe bruscamente. Dal suo sogno esclama a mezza voce:

— Sì, la barca… la barca… – Poi un grande grido, angoscioso, indefinito.

— Avete sentito? — Dice convulsivamente Elena — Sarà qualche incubo.

— Chi lo sa. Sogna… che cosa sognerà?…

— Dovrei svegliarla?

— No no, lasciatela dormire tranquilla. Sarà felice. Immagino che sogni suo padre!

I due si alzano per osservarla meglio. Elena arriva prima. Una sensazione di freddo le rende difficile la respirazione. Rimane immobile, insieme al vecchio, che patisce la stessa difficoltà. Entrambi sembrano trattenuti da una straordinaria visione.

Leopoldo, con la mano ad artiglio si preme una guancia. La pelle della fronte, in profondi solchi, si stende e la sua bocca resta aperta, anelante, pietosa, come un becco assetato.

A sua volta, Elena mostra una sorpresa lampante. Si regge la fronte e stringe le palpebre, muovendo la testa da un lato all’altro, come se volesse sfuggire ad un’immagine che la investe da ogni parte. Sente le gambe afflosciarsi e cade sulla panca, vicino al tavolo.

Mormora:

— È possibile… solo… solo…!

Regna il silenzio dell’emozione. I due fanno un gesto. Una moltitudine di espressioni appare sui loro volti, con sorprendente rapidità. Terrore, angoscia, veemenza, panico, contentezza, paura, delusione, impotenza, tutto accelerato, fuggente, tutto convulso. Pare che abbiano visto qualcosa di tremendo dalla finestra.

— Che onda formidabile — esclama Elena, come una dissennata. — Lo ucciderà, lo ucciderà! Oh!…

Sta per continuare ma Leopoldo le copre la bocca.

— Zitta… zitta… — e le afferra la testa con entrambe le mani. Il cuore dei due si sente battere con strepitio. Maria continua a dormire nella stessa posizione, con il viso nascosto tra le braccia acciambellate a forma di nido. La candela accesa poco prima da Elena illumina metà della stanza. Un’ombra spessa e irregolare ricade pesantemente sulla testa della bambina.

— La tempesta è più forte lì. Avete sentito?… È più forte lì.

Leopoldo cerca di frenarla per impedirle di dire ciò che vorrebbe dire.

— Ti inganni, ti inganni… – risponde con spontaneità. — Ne so più di te. La barca resiste perché…

Tace, chiude gli occhi, fa uno sforzo mentale e dice con implorante incoerenza.

— No, no; se avesse forza, se potesse ancora…se ha perso i sensi?

Elena abbraccia il vecchio.

— Papà – chiama il suocero — Papà… il mio Renato sta morendo… Guardate, guardate… che colpo di mare… lo ha trascinato dentro.

— Ah! Ah!… uscite fuori…uscite fuori…venite a vedere?

Elena… le sue gambe pendono dalla balaustra. Si regge. E i due, abbracciati più forte, guardandosi negli occhi, continuano fatalmente la narrazione di un fatto che si produce nello stesso istante, a qualche miglio in mezzo al mare.

— Oh… non reggerà…

— Sì… vi dico di sì…

— No, no… oh… come si solleva il mare…

— Cade, cade… si sgonfia…

— La barca è scomparsa, la barca è affondata… dov’è?…

— Appare… l’onda è passata sopra…

— E Renato è lì… ha gli occhi chiusi… è tutto livido.

Elena si scuote con violenza.

— Oh!… che orrore… che bestia grande… terribile… la bocca… la bocca… si avvicina a Renato… mio Dio!…

— Renato… tirati su, tirati su… – grida Leopoldo, come se l’altro potesse sentirlo.

— Se lo prende… se lo prende – esclama Elena — ha ingoiato una gamba… se lo porta… cade in mare… cade in mare…ormai… è caduto… è caduto… è caduto… non si vede più… è affondato… è affondato Renato! Renato… – conclude con voce strozzata e il suo corpo ondeggia come una colonna colpita alla base.

In quel momento, Maria si sveglia. Senza notare fuori sua madre e suo nonno, setaccia la stanza con un’occhiata. Poi, gira per tutta la casa, gridando dolorosamente, chiamando con angosciosa impazienza, come se l’essere che cerca volesse fuggirle con spietatezza.

— Papà… papà…

Un gatto nero sfreccia per la stanza.

(1) Indica per omonimia il tipo di tabacco che viene prodotto nello stato della Virginia negli Stati Uniti d’America.

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “Io non so se sono lei” di Roberto Arlt

28 giovedì Apr 2022

Posted by emiliocapaccio in Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Idiomatiche, LETTERATURA

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Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Emilio Capaccio, Io non so se sono lei, Racconti, Robert Arlt, TRADUZIONI

A R G E N T I N A

IO NON SO SE SONO LEI

(1935)

Roberto Arlt (1900-1942)

Traduzione di Emilio Capaccio

Figlio di emigrati, padre prussiano e madre triestina, è stato uno scrittore, drammaturgo e giornalista di grande talento. I suoi reportage, come corrispondente della guerra civile spagnola, appaiono sul quotidiano “El Mundo”, di Buenos Aires, diretto da Alberto Gerchunoff. Su una colonna dello stesso, puntualmente, appaiono anche resoconti di viaggi all’interno dei confini del paese e in paesi come Brasile, Uruguay e Nordafrica. Molta popolarità assumono le sue “aguafuertes”, cronache, a volte, dalle tinte “costumbriste”, che trattano temi sociali e politici, con spirito critico e condanna delle condizioni dei più derelitti nei “barrios” miseri e popolosi. I suoi personaggi, spesso donne, sono permeati da atmosfere cupe e spietate della Buenos Aires dei primi anni del XX secolo. La sua scrittura rompe gli schemi della narrativa tradizionale modernista, mediante l’utilizzo di un linguaggio più duro e asciutto e di temi connessi con le problematiche del progresso tecnologico e dell’espansione caotica e allucinante dei centri di agglomerazione urbana. È considerato uno dei fondatori della moderna letteratura argentina e padre spirituale di un’intera generazione di scrittori sudamericani, come: Riccardo Piglia, Gabriel García Márquez, Isabel Allende e altri. Il racconto proposto è apparso sulla rivista “El Hogar” il 23 febbraio del 1935. Non è contemplato nelle due raccolte di racconti che Arlt ha pubblicato in vita. Solo nel 2018, il racconto è stato inserito nella raccolta completa: “El bandido en el bosque de ladrillo”, a cura di Gastón S. Gallo, edito da Simurg.

Fred, stupito, piantò lo sguardo su un’immagine della rivista, scritta in una lingua che non comprendeva. Greta Garbo, guardandosi allo specchio, con la mano destra immortalava lo spazzolino con cui si lavava i denti. Ai lati della fotografia, una boccetta di stagno versava un lago color rosa di pasta dentifricia: Crystaldent.

La diva, avvolta in una vestaglia da camera di velluto, ruotava la testa sorridendo con le sue labbra simili ai petali di un’orchidea. Per un attimo, Fred rimase curvo sulla rivista americana, poi, seduto sul ciglio del letto, rifletté:

“È assurdo che Greta Garbo si presti a fare la pubblicità di un dentifricio, nessuna attrice che si rispetti arriverebbe a tanto. A meno che non abbia grane finanziarie. Ma in che cosa spende ciò che guadagna? Ad ogni modo, chi si salva dal fare cose stupidi? Se io, tre anni fa, come avevo pensato, mi fossi messo a studiare inglese, la mia situazione sarebbe un po’ diversa.”

Avvicinò la testa all’immagine. Indubbiamente, la ragazza della pasta dentifricia era Greta Garbo. Sollevò gli occhi per confrontare l’immagine della rivista con una fotografia che aveva attaccato al muro molto tempo prima. Era lei, con i suoi capelli di vetro biondo, le palpebre socchiuse, gli occhi rivolti al cielo, le labbra simili ai petali di un’orchidea, con la molla dei baci rotta per sempre, come se pretendesse in un desiderio inestinguibile risucchiare tutti i piaceri che soffiano le brezze da ogni direzione del mondo.

Ripeté tra sé:

“Soffrirebbe di ristrettezze economiche. Ma è assurdo. Forse, al momento opportuno, una mattina è arrivato un agente pubblicitario, uno di quei promotori dall’aria gioviale che, offrendo grossi sigari, avrà snocciolato un motivo di facile comprensione. Le avrà detto:

— Vi occorre qualcosa, miss Greta? Posi per Crystaldent. Centomila dollari, all right?”

Staccandosi dal tavolo, Fred si sistemò su una sedia accanto allo spigolo del letto. Nonostante l’ordine, la sua camera dava l’impressione di essere stata smantellata. Osservò con la coda dell’occhio il ritratto dell’attrice, appeso al muro, ombreggiato nelle parti scure, e in cui l’iposolfito del bagno, che cominciava a decomporsi, ingialliva le zone chiare. Si chiese per la centesima volta, parlando a voce alta:

— Che uomo potrebbe mai essere l’amante di una donna così? In lei tutto è commedia.

All’improvviso accade qualcosa di straordinario.

— Commedia in me! – ripeté una voce.

Fred alzò precipitosamente le palpebre.

La rivista era caduta per terra. Dalle pagine spiegazzate, la scia di un vestito saliva verticalmente nell’aria, come falpalà di fumo di un abito astrale. Sulla gorgiera bianca del vestito di raso nero fioriva un’adorabile testa.

La riconobbe all’istante. Era lei, con un copricapo di castoro che lasciava spuntare qualche ricciolo inanellato dietro i lobi delle orecchie. Tra le fioriture delle sue ciglia, osservava l’uomo dentro la stanza con una leggera ruga a forma di forcina sulla fronte, mentre Fred, con le mani appoggiate sul bordo del tavolo, si immobilizzava nel proprio stupore. Greta Garbo sorrideva scoprendo la fila dei denti, con gli occhi grigio-verdi illuminati come dagli ultimi bagliori del sole di un luogo esotico.

Fred rispose, senza sapere ciò che diceva:

— Non parlate così forte. La padrona di casa dorme nella stanza accanto. È una vecchia perversa.

Lei ancora non aveva ripreso a parlare.

Lo fissava gravemente. Sembrava di ritrovarsi in una steppa nevosa. A Fred, involontariamente, affiorò alla mente Anna Karenina (1). La donna si voltò bruscamente su sé stessa e si fermò davanti alla sua fotografia, attaccata alla buona sulla parete. Fred indovinò il suo pensiero e cercò di discolparsi.

— Non ho mai avuto abbastanza denaro per comprargli una cornice adeguata.

L’attrice sollevò il cuscino. Fred, sorridendo, continuò, guardando come lo lasciava cadere.

— È un buon metodo per capire se i letti siano puliti. Gli insetti hanno un debole per i cuscini.

Finalmente lei disse:

— Quindi, voi vivete qui?

— È più tetro di una galera, vero?

— Sì.

Ora apriva l’anta dell’armadio. Curiosava all’interno, mentre il suo corpo ondulava leggermente, come se sorreggesse il ricordo ancora recente di una piacevole danza.

— Tutti questi abiti sono invernali – commentò Fred. — Per di più, sono pieni di tarme.

Greta Garbo buttava l’occhio qua e là.

— Cercate una sedia? – Fece segno di cederle la sua. — È l’unica che c’è… La padrona di casa è una donna meschina.

Subito, la sua voce si arrochì nel fondo della gola. Le sue parole sembrarono sgorgare da più in profondità, pensò:

“Possibile che non abbia niente da dirle? Ora che lei è qui!”

Quando parlò nuovamente, il suo timbro rivelò una tale sofferenza che la diva nordica rimase immobile davanti all’armadio, con la schiena riflessa nello specchio.

— È meraviglioso e assai triste – proseguì Fred. — Voi, la donna che suscita soggezione nella moltitudine delle platee, siete qui, ora. Qui, realmente con il vostro corpo, con il vostro volto impossibile da concepire accanto al nostro.

Poi, si alzò dalla sedia e, afferratala per un braccio, la fece sedere sul bordo del letto. Come dal ciglio di un sogno, si domandò:

— È mai possibile tutto questo?

Greta Garbo contemplava le punte delle sue scarpe di raso.

— Siete qui, umile e triste come Susan Lenox, come Anna Christie, come la dolorosa amante de “La modella”(2). E io non so concepire altro da dirvi che silenzio. Riverserei nelle vostre orecchie parole meravigliose, ma mi accorgo solo ora che le parole sono meravigliose quando si rivolgono a un fantasma, non a una donna in carne e ossa. Mi ascoltate?

Con le gambe accavallate, poggiata sul sostegno del letto, la donna dai capelli di cristallo restava fredda e distante.

Fred proseguì:

— Mi guardate come un gatto che ha rubato il pesce, è così? Non mi importa. Perché siete venuta? Il vostro ambiente non è questo, e non comprendo la vostra lingua. Vi detesto. Questa è la verità. Vi detesto. Non conosco uno solo dei vostri ammiratori che non sia affamato del vostro amore. Non per godere di esso, siete così magra, ossuta e isterica, ma per avere la rifusione di umiliarvi, il piacere di piegarvi. Così con quell’unica moneta potremmo riscattare l’amara ammirazione che avete seminato nel cuore di tutte le donne.

Greta Garbo lo ascoltava come affacciata sull’orlo di un precipizio, con l’ombra di una montagna sul viso e alle spalle un vento gelido.

Il pensiero rimestava in Fred grandi folate di odio.

— Oh, lo so! Se qualcuno potesse vedervi in questa misera stanza in affitto, davanti a queste fotografie macchiate dalle mosche, con il vostro aspetto di viaggiatrice stanca, vi compatirebbe.

Camminava lentamente da un punto all’altro della stanza.

— Lo so. Vi compatirebbero. Correrebbero a offrirvi un bicchiere di limonata, a cambiare le lenzuola. Ma perché ve ne state con la testa china? È per umiltà? No, non lo è. È perché conoscete la semplice meccanica dell’odio, e sperate che la sua raffica si disperda nell’aria. Quando avrò riversato ai vostri piedi tutto il risentimento che fa ribollire la mia indignazione, e la mia ira si sarà esaurita, solleverete il viso, e le vostre braccia fresche e indolenti ricadranno sulle mie spalle. Così avete fatto anche con gli altri, ed è per questo che vi odio, perché i nostri rancori si sciolgono come neve sul fiore delle vostre labbra.

L’attrice non sollevò le palpebre. Fissava la punta delle sue scarpe. Restò così, intristita, come sull’orlo di un precipizio, nelle cui profondità correva un nero torrente.

Fred si avvicinò e le disse sottovoce come se stesse rilevando un segreto:

— Ipocrita… la più ipocrita e perfida di tutte le donne! Provocatrice! Ora comprendete perché le donne corrono, come quando si va al mercato, ad esaltare per qualche moneta le peripezie della vostra esistenza di celluloide? Perché in ognuno di quei torbidi episodi, che voi siate meretrice, spia o demi-mondaine, riscoprono al sole le arterie della loro vita. Per questo vi amano e vi esaltano. Non potrebbe che essere così. Alla fine di ogni avventura, corre incontro a voi un disperato che, con il viso rivolto alla luce, trasforma in estasi la sua infamia, esclamando:

Ti ringrazio, Dio, di amare e di poter ricevere come un’elemosina lo sguardo di questa donna che ha trascinato per tuguri la sua bellezza immortale!

Ve ne rendete conto? Avete la virtù di trasformare in bellezza il sudiciume del mondo! Non volete rispondermi!? È chiaro! Risulta molto più comodo.

Fred accese una sigaretta e contemplò, per brevi istanti, come si spegneva nello specchio la fiamma del cerino.

— Eppure ci sono degli illusi che credono veramente in questo, nel vostro amore!… senza rendersi conto che non potrete mai amare nessuno, se non il vostro successo. Siete sempre stata così rabbiosamente egoista, che il vostro petto è rimasto senza sentimenti. Non mi meraviglia che finiate per mettere in bella mostra un dentifricio. Non c’è da stupirsi Oh! È ridicolo. Ridicolo e spaventoso.

Siete egoista e dura come la mala pietra contro cui si ferisce il piede lungo la strada. La vostra ingordigia e la violenza dei gesti, la falsa febbre dei vostri occhi, con ciglia ugualmente false, e le labbra spudorate che sono rimaste fiacche e inerti nel baciare così tante bocche senza baci, si traducono in pellicce, in collane, in viaggi lunghi come sogni e nello stritolare cuori semplici. Siete diventata un simbolo del secolo. Per questo meritereste di morire lapidata sulla riva del mare, affinché le acque vi purifichino. No… Sarebbe una morte fin troppo dolce. Dovrebbero legarvi a un palo, sopra un mucchio di legna secca, e come le streghe di un tempo, bruciarvi viva. E così le vostre ceneri sarebbero ripulite.

Fred si accasciò e, seduto accanto al tavolo, pose la fronte sulle dita di una mano.

La diva scostò un ricciolo dalle tempie, avanzò verso di lui, e in piedi, curva sulla sua spalla sinistra, gli parlò come a un vecchio amico:

— Tutti quegli uomini che caddero ai miei piedi e dissero: “Ti ringrazio, Dio, di amare e di poter ricevere come un’elemosina lo sguardo di questa donna che ha trascinato per tuguri la sua bellezza immortale!”. Tutti quegli uomini che ho incatenato per il collo e che ho accostato amorosamente al mio collo, tutti gli uomini le cui fronti febbrili si sono raffreddate al tocco delle mie labbra, mi hanno già detto anche queste parole che avete pronunciato voi: che meritavo di essere lapidata o che meritavo di essere bruciata viva. Ora capite? E in questo odio inestinguibile verso di me, sta la mia grandezza. Questo odio è la mia schiva bellezza. Non ho conosciuto uno solo di quegli uomini che hanno bevuto dalla mia bocca, come in un calice di seta, baci che fanno svaporare il cervello, che non abbia voluto lacerarmi sotto le sue unghie, incenerirmi con un bacio maledetto. Vi rendete conto di quanto è grande il vostro amore, tesoro mio?

Fred protestò furiosamente.

— Non chiamatemi tesoro… – Poi, senza poter trattenere un sorriso, borbottò: — Questa è bella.

La donna nordica ugualmente sorrise:

— D’altra parte, io non sono Greta Garbo.

— Non siete Greta Garbo? Ma come?

— Sono la ragazza della rivista.

— Ma siete uguale a lei.

— Così somigliante, sì, che a volte credo che io non sia io ma lei.

— Questa è davvero buona per una bella storia.

— Vi crea disturbo?

— Oh no! Nel modo più assoluto. Come potrei sentirmi a disagio dentro questo sortilegio?

A sua volta, la ragazza si mise a camminare per la stanza, lanciando in aria volute di fumo dalla sigaretta che aveva tra le mani.

— Un commerciante si accorse della mia somiglianza con la diva. Mi assunse per promuovere il suo banco. Un mese dopo i proventi erano cresciuti del trenta per cento. Quando si decise di prolungarmi il contratto, una casa di moda mi aveva già offerto venti volte di più. Viaggi, interviste con manager… La mia carriera è stata rapida, prodigiosa. Ho contratti con aziende di prodotti chimici, catene di grandi alberghi. Un impianto termale che era quasi sul lastrico mi assunse per una stagione e la pubblicità, abilmente orchestrata, riversò frotte di visitatori verso il lido deserto.

— Non avete girato qualche film?

— Mai!… Alcuni produttori cinematografici hanno chiesto di incontrarmi. Ho sempre rifiutato di fare cinema. A cosa servirebbe? Il mio successo dipende da quello della vera Greta Garbo.

— La vanità non vi ha tentata?

— Perché la vanità? Sono arrivata a non sapere se io sono io o sono lei. Nel mio guardaroba ho tutta la collezione dei costumi che Greta Garbo ha usato per girare i suoi film. Adrian, il sarto di Hollywood, mi manda sempre una copia dei modelli destinati a lei. Come Greta, mi hanno fotografato tra bambine bionde con mazzi di fiori, come Greta, mi hanno fotografato in mezzo a truffatori, marinai, trafficanti di gomma, avventurieri; come Greta, mi hanno fotografata a pesca, giocando sulla neve, guardando, desolata, dal parapetto di una nave, la costa che si dissolve nell’orizzonte… Ho finito per confondermi…io non so se sono lei. A volte mi sembra di sì…che sono Greta Garbo in uno dei suoi attacchi di nevrastenia, i quali, come nebbiolina, velano i contorni dei suoi successi.

E di lei, quella vera, che mi dite?…

— Non lo so… Non voglio vederla, non voglio sapere niente di lei come donna. Dicono che le sue ciglia siano finte, che i suoi piedi siano grandi, e che la sua mancanza di intelligenza sia molta. Niente di tutto questo mi riguarda e non mi interessa. Io sono Greta, la Greta perfezionata e filtrata attraverso l’arte degli stilisti, degli esperti dei laboratori fotografici e dei produttori di pasta dentifricia. E questo mi basta.

— Sì, credo che basti.

Fred osservava il profilo della ragazza, la linea del naso, il sopracciglio energico, le labbra come sfiorate da una folata di etere.

Lei continuò:

— Che cosa mi importa di tutto! Mi hanno adorata tanto! Lo sapete, uomo della stanza di questa pensione? Tutti! Come se fossi lei. E poi, io lo sono. Mi hanno amata per tanto tempo. Impiegati che hanno una moglie sgradevole, solitari che percorrono il mare in fuga da un fallimento fraudolento, lestofanti, fantasiosi. Nessuno ha voluto vedere in me la donna che fa la pubblicità di un modello di Gaster o dei profumi di Nieber. Io e l’altra ci siamo mescolate in un solo, indissolubile sogno. E tutti ci hanno dato il loro amore, anche le donne!

Parlava sempre come se fosse affacciata sull’orlo di un precipizio, con l’ombra di una montagna sul viso e alle spalle un vento gelido venuto da lontano.

— Essere amata! Sapete perché mi sono staccata dalla pagina della rivista, uomo della stanza di questa pensione? Perché il vostro amore mi ha chiamata. Sì, mio caro! Il vostro grande amore! Avete passato ore e ore seduto ai piedi di questo letto a guardarmi negli occhi. E quando dicevate: “Io non potrei mai amarla”, era perché sapevate che io, o lei, o noi due, non saremmo mai venute qui, al vostro fianco. E ora lasciate che vi baci.

Poggiata come stava sul bordo del tavolo, corse al centro. Fred sollevò il viso e avvicinò la bocca. I petali di carne aderirono lentamente ai suoi, la sua anima veniva risucchiata in un sospiro che restava sospeso all’infervorarsi del cuore. L’odore salato del mare copriva le loro teste, i grandi occhi erano così vicini ai suoi che sentì perdersi dentro di loro. All’improvviso uno strepito terribile risuonò accanto, poté vedere come la figura della donna si rimpiccioliva, fino a che una piccola sagoma di bambola penetrò tra i fogli della rivista, e allora rialzò il viso con sonno e sofferenza. Un piacere era morto.


[1] Greta Garbo fu la protagonista di due versioni tratte dal romanzo di Lev Tolstoj: una versione senza sonoro diretta, nel 1927, da Edmund Goulding, dal titolo “Love”, e un rifacimento sonoro diretto, nel 1935, da Clarence Brown, dal titolo: “Anna Karenina”.

[2] Greta Garbo interpretò Susan Lenox nel film “Cortigiana” del 1931, diretto da Robert Zigler Leonard. Interpretò Anna Christie nell’omonimo film del 1930, diretto da Clarence Brown; di questo film, l’anno successivo venne girato una versione tedesca, diretta da Jacques Feyder, con protagonista la stessa Garbo, ma con un cast di attori diverso. Il film “La modella” fu girato nel 1930, diretto ancora da Clarence Brown.

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Capo Horn – Tijuana. Cuentos Olvidados. “La perquisizione” di Baldomero Lillo

14 giovedì Apr 2022

Posted by emiliocapaccio in Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Idiomatiche, LETTERATURA

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Baldomero Lillo, Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Emilio Capaccio, la perquisizione, Racconti, TRADUZIONI

C I L E

LA PERQUISIZIONE

(1917)

Baldomero Lillo (1867-1923)

Traduzione di Emilio Capaccio

È considerato il principale esponente del naturalismo sociale nella letteratura cilena. Il suo stile preciso ed espressivo, dai chiari echi modernisti, con descrizioni minuziose dei paesaggi, risente dell’influenza dei grandi naturalisti europei, quali: Honoré de Balzac, Émile Zola, Lev Tolstoj. Collaborò con varie riviste e giornali, tra i quali la rivista “Zig-Zag” e i quotidiani “El Mercurio” e “Las Últimas Noticias”. I suoi personaggi appartengono ai ceti sociali più poveri e sfruttati, irretiti nel loro destino, in una squallida miseria. Al lavoro nelle miniere e all’aspra vita delle comunità minerarie dedica una raccolta di racconti, intitolata “Sub Terra”, pubblicata nel 1904. L’opera è il frutto della conoscenza delle dure condizioni di vita dei minatori di carbone del suo villaggio, fatta attraverso i racconti e le testimonianze dei protagonisti, e dell’esperienza che Lillo stesso fece in uno spaccio di una miniera negli anni giovanili. Il racconto proposto è tratto dalla seconda edizione della raccolta, pubblicata nel 1917, con l’aggiunta di cinque racconti, tra cui “El registro”, ovvero “La perquisizione”.

La mattina era fredda e nebbiosa, una sottile pioggerella bagnava i grossi cespugli di vecchi boldi (1) e di litracee (2) rachitiche. L’anziana donna, con la gonna arrotolata e i piedi scalzi, andava a passo svelto per l’angusto sentiero, evitando per quanto possibile l’unghiata dei rami, dai quali scorrevano grossi goccioloni, che foravano il terreno molle e spugnoso della scorciatoia. Era un sentiero solitario e poco battuto che, deviando dalla strada scura, conduceva a un piccolo insediamento distante una lega e mezza dall’imponente stabilimento carbonifero, le cui costruzioni apparivano, di tanto in tanto, fra le radure della boscaglia, nella distanza sfocata dell’orizzonte.

Nonostante il freddo e la pioggia, il viso della donna era intriso di sudore e il suo respiro, rotto e affannoso. Stretto al petto, portava un fagotto avviluppato tra le pieghe del logoro scialle di lana.

Piccola, esile, rinsecchita. Il suo volto, pieno di rughe con occhi scuri e tristi, aveva un’espressione umile, rassegnata. Si mostrava molto inquieta e sospettosa, e man mano che gli alberi diventavano più radi, si faceva più visibile la paura e l’agitazione.

Quando sboccò sul margine del bosco, si fermò un istante a guardare con attenzione lo spazio scoperto che si estendeva davanti a lei, come un immenso lenzuolo grigio, sotto il cielo d’ardesia, quasi nero in direzione del nordest.

La pianura sabbiosa e sterile era deserta. A diritta, interrompendo la loro monotona uniformità, si alzavano i muri bianchi dei capannoni coronati dalle lisce soffittature di zinco, che scintillavano sotto la pioggia. E più in là, toccando quasi le pesanti nubi, saliva dall’enorme ciminiera della miniera il nero ciuffo di fumo, contorto, sbrindellato dalle raffiche furibonde del settentrione. L’anziana donna, sempre timorosa e irrequieta, dopo un istante di osservazione fece passare il suo corpo sottile tra i fili di ferro della recinzione che delimitava da quel lato i terreni della struttura, e si incamminò in linea retta verso le abitazioni. Di tanto in tanto si chinava a raccogliere il biodo umido, stecchi di legno, rametti, radici secche disseminate nella sabbia, con cui realizzò un piccolo fastello che fissò con uno spago e adagiò sulla testa.

Con questo trofeo fece il suo ingresso lungo i corridoi degli alloggi, ma gli sguardi ironici, i sorrisetti e le parole a doppio senso indirizzate al suo passaggio, le fecero capire che lo stratagemma era noto e non ingannava gli occhi penetranti delle vicine.

Sicura del riserbo di quella brava gente, non diede importanza a quelle frecciatine e si fermò solo quando si trovò davanti la porta del suo alloggio. Infilò la chiave nella serratura, fece girare i cardini e una volta dentro passò il catenaccio.

Dopo aver sistemato in un angolo il fastello e adagiato accuratamente il fagotto sul letto, si tolse lo scialle e lo appese a una cordicella che attraversava la stanza all’altezza della testa.

Più tardi, diede fuoco a un mucchietto di sterpi e di carbone che era pronto nel camino e sedendosi su una piccola panca davanti al focolare, attese. Una fiamma scintillante si alzò e illuminò la stanza sui cui muri nudi e freddi si disegnò l’ombra surreale e spigolosa dell’anziana. Quando credette che il calore fosse sufficiente, mise sui ferri la teiera con l’acqua per il mate, afferrò il pacco sul letto, lo slegò e collocò il suo contenuto, una libbra di erba e una libbra di zucchero, sull’estremità della panca, dove si trovavano già la tazza di maiolica sbreccata e la cannuccia di latta.

Mentre il fuoco scoppiettava, la donna accarezzò con le dita secche l’erba sottile e lucida di un bel colore verde, pregustandosi la squisita bevanda che il suo palato goloso era impaziente di provare.

Era da molto tempo che il desiderio di assaporare un mate di quell’erba odorosa e fragrante era diventato un’ossessione, un chiodo fisso nel suo cervello di sessagenaria. Ma quanto le era stato difficile soddisfare quel “vizio”, come lo chiamava lei; perché suo nipote José, che faceva il custode della miniera, guadagnava appena quel poco per non morire di fame, ed era l’unico a lavorare.

L’erba dello spaccio era scadente e aveva un cattivo gusto, mentre nel villaggio, ce n’era una finissima, con foglioline così pure e aromatiche che solo a ricordarla veniva l’acquolina in bocca. Ma costava quaranta centavos (3) alla libbra! È vero che per l’erba dello spaccio pagava il doppio, ma il pagamento lo poteva fare con fiche o buoni che poteva trarre dallo stipendio del nipote, mentre per acquistare l’altra erba era necessario moneta sonante.

Ma questo non era l’unico problema. C’era anche il severo divieto per tutti i lavoratori della miniera di comprare anche un solo spillo, al di fuori dallo spaccio della Compagnia. Ogni articolo che proveniva da un’altra fonte veniva immediatamente dichiarato di contrabbando e confiscato, e il contrabbandiere punito con l’immediata espulsione dalle residenze.

Per lunghi mesi aveva accumulato centavo dopo centavo, in un angolo del letto, sotto il materasso, la somma che le occorreva. Aveva badato che a suo nipote non fosse mancato l’essenziale, privandosi lei stessa del necessario e, a poco a poco, la quantità di monete era aumentata fino a quando finalmente la somma raccolta fu sufficiente non solo a comprare un chilo d’erba, ma anche un po’ di zucchero, di quello bianco e cristallino che nello spaccio non si vedeva mai.

Dopo, però, sarebbe venuta la parte più difficile. Andare fino al villaggio, fare la spesa senza destare sospetti nei guardiani, che come degli Argo sorvegliavano con cento occhi il viavai della gente.
Al pensiero, la donna si impauriva. Perdeva tutto il coraggio. Che ne sarebbe stato di lei e del ragazzo in quell’inverno che si presentava così crudo se li avessero buttati fuori dalla stanza, lasciandoli senza pane e senza un tetto dove ripararsi?

Ma il denaro era lì, che la tentava, come a sussurrarle:

— Andiamo, prendimi, non aver paura.

Scelse un giorno di pioggia, in cui la sorveglianza era meno attenta, e alle prime luci del mattino. Non appena il ragazzo se ne fu andato alla miniera, prese le monete, diede un giro di chiavi alla porta, e si addentrò nella pianura, portando il rotolo di cordicelle che le serviva per legare i fastelli di legna, quando andava a raccoglierla di tanto in tanto nel bosco.

Ma una volta che si fu allontanata abbastanza, scavalcò la recinzione di fili di ferro e prese lo stretto sentiero che, evitando il lungo giro della strada, conduceva in linea retta verso il villaggio. La distanza era lunga, molto lunga per le sue povere gambe; ma la percorse senza troppa fatica grazie al clima gradevole e all’eccitazione nervosa che la possedeva.

Non fu così al ritorno. La via le sembrò aspra, interminabile, e dovette fermarsi più volte per riprendere fiato. Poi sperimentò una grande angoscia per il compimento di quel reato a cui la coscienza colpevole dava proporzioni inquietanti.

La presa in giro del temuto divieto di fare acquisti fuori dallo spaccio, la terrorizzava come se avesse commesso un latrocinio mostruoso. E a ogni istante le sembrava di vedere dietro un albero la sagoma minacciosa di qualche sorvegliante che improvvisamente si gettava su di lei e le strappava il pacchetto.

Più volte fu tentata di gettare l’involucro compromettente a un lato della strada per liberarsi di quell’angoscia, ma la fragranza aromatica dell’erba che attraverso la carta solleticava il suo olfatto, la faceva desistere dal prendere una decisione così dolorosa. Perciò, quando si trovò da sola dentro la stanza, al sicuro da qualunque sguardo indiscreto, la colse un attacco d’infantile allegria.

E mentre l’acqua pronta per bollire diffondeva il gorgoglio che precede l’ebollizione, con le mani incrociate sulle ginocchia seguiva con gli occhi le tenui volute del vapore che cominciavano a uscire dal becco curvo della teiera.

Nonostante l’atroce stanchezza della lunga camminata, provava una dolce sensazione di contentezza. Stava per gustare nuovamente gli squisiti mati di un tempo, che erano stati la sua delizia quando ancora c’erano intorno a lei le persone che le furono sottratte da quell’insaziabile divoratrice di giovani: la miniera, che sotto le piante, nel profondo della terra, stendeva la nera rete dei suoi passaggi, inferno e ossario di tante generazioni.

All’improvviso un colpo brusco alla porta la strappò dalle sue meditazioni. Una paura terribile si impossessò di lei e quasi senza accorgersi di ciò che stava facendo, prese il pacco e lo nascose sotto la panca. Un secondo colpo più forte del primo, seguito da una voce ruvida e imperiosa che gridava: “Aprite, nonna, presto, presto!”, la tirò fuori dalla sua immobilità. Si alzò in piedi e girò la serratura.

Il padrone dello spaccio e il suo giovane dipendente furono i primi a oltrepassare la soglia, seguiti da due inservienti con alcuni sacchi sulle spalle che depositarono sul pavimento ammattonato. L’anziana si lasciò cadere sulla panca.

Paralizzata, guardava davanti a sé con un’espressione da ebete; la bocca semichiusa e la mascella appesa rivelavano il culmine della sorpresa e dello spavento. Mentre il suo corpo si liquefaceva, si riduceva fino a diventare qualcosa di piccolissimo e impalpabile, l’imponente figura di quell’uomo dalla barba bionda e dai baffi attorcigliati, avvolto nel suo lussuoso cappotto, assumeva proporzioni colossali, riempiva la stanza, impedendo ogni tentativo di sgattaiolare via e di nascondersi.

Nel frattempo, il dipendente, un giovinastro sveglio e agile, aiutato dagli inservienti, aveva iniziato la perquisizione. Dopo aver gettato da un lato le coperte del letto, girato il materasso e tastato la paglia attraverso il tessuto, aprirono il piccolo baule e, a uno a uno, gettarono al centro della stanza gli stracci che vi erano contenuti, lasciandosi andare ad apprezzamenti sgradevoli per quei vestiti, talmente strappati e cenciosi, che non si sapeva come afferrarli. Poi, rovistarono negli angoli, rimossero i pochi e miseri utensili dal loro posto e d’improvviso si fermarono a guardarsi disorientati.

Il padrone, in piedi davanti alla porta, in atteggiamento severo e distinto osservava i movimenti dei suoi subalterni senza scucire una parola.

Il giovane dipendente si rivolse a uno degli uomini, chiedendogli:

— Sei sicuro di averla vista passare attraverso il filo spinato?

L’interpellato rispose:

— Sicuro, signore, come ora sto vedendo voi davanti ai miei occhi. Spuntava dalla scorciatoia e scommetterei dieci a uno che veniva dal villaggio.

Ci fu un breve silenzio, poi la voce del padrone dello spaccio proruppe:

— Beh, perquisite lei.

Mentre i due uomini afferrarono l’anziana per le braccia e la tennero in piedi, il giovane eseguì in fretta la ripugnante operazione.

— Non ha nulla – disse, asciugandosi le mani che si erano inumidite nei risvolti dei vestiti bagnati.

E tutto sarebbe finito bene per la donna se quel giovane, nel suo desiderio di perquisire in ogni luogo, non si fosse avvicinato alla panca e guardato sotto.

Appena si fu abbassato, si voltò verso il padrone con sguardo raggiante.

— Guardate dove l’ho trovata, signore, questa vecchia dei diavoli!

Il padrone ordinò secco:

— Requisite il pacco e uscite.

Quando il giovane dipendente e gli inservienti se ne furono andati, il padrone osservò un istante la piccola e misera figura dell’anziana, raggomitolata sulla panca, poi, assumendo un aspetto imponente, avanzò di qualche passo e con voce severa la rimproverò:

— Se non foste una povera vecchia, vi farei sbrattare la stanza, gettandovi in strada. E questo, in coscienza, sarebbe giusto, perché lo sapete bene che comprare qualcosa fuori dallo spaccio è un furto che si fa alla Compagnia. Per ora, poiché è la prima volta, voglio essere indulgente, ma se dovesse accadere un’altra volta, adempirò rigorosamente al mio dovere. Andate con Dio e chiedetegli di perdonarvi questo peccato indegno per i vostri capelli grigi.

L’anziana rimase da sola. Il suo petto traboccava di gratitudine per la bontà del padrone e sarebbe caduta in ginocchio ai suoi piedi se la sorpresa e la paura non l’avessero paralizzata. Senza alzarsi dalla panca, si girò verso il camino e piegò pesantemente la testa.

Fuori, il maltempo aumentava a poco a poco; una raffica aprì la porta e alimentò il fuoco morente, scompigliando sulla nuca della donna le rade ciocche grigie che mettevano a nudo il collo lungo e sottile, con la pelle raggrinzita attaccata alle vertebre.


[1] Alberello spontaneo, sempreverde, originario del Cile, con fiori bianchi e foglie aromatiche, ruvide e ricoperte di peluria.

[2] Famiglia di piante erbacee o legnose, diffuse in tutto il mondo, principalmente nelle fascia tropicale e temperata. Vivono indistintamente in ambienti aridi, umidi e acquei, con caratteristiche peculiari, per ogni specie, in relazione a tali ambienti.

[3] Unità di misura di diverse monete dell’America Latina, corrispondente alla centesima parte. Si traduce letteralmente “centesimo”.

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Norah Lange -Traduzioni di Emilio Capaccio

23 mercoledì Mar 2022

Posted by emiliocapaccio in Idiomatiche, LETTERATURA

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Norah Lange, POESIA, TRADUZIONI

Norah Lange (1905-1972)

Da quel braccio
da cui discendi
arriverai alla mano.
La mano aperta
che ti insegna ad amare
.

N. L.

LUNGO LA STRADA

Lungo la strada c’è un silenzio di parole impossibili
la sera prega in eremo di fuoco.
Sul luogo deserto
fanno penitenza le ombre
le stelle dondolano la scala
da dove gli angeli scenderanno sulla terra.
Goccia a goccia la mia vita si dissangua.

La sera una sola lacrima chiara
ogni ombra è un palpito del cuore che ci bacia.
Vicino, più vicino
è il cuore della notte.

Il silenzio piega gli istanti.
Ogni foglia è una parola in più
che dice la primavera quest’anno.
Per perpetuare l’emozione
la notte serra la parola che è nata.
 
EN EL CAMINO

En el camino hay un silencio de palabra imposible
La tarde reza en ermita de fuego
Sobre el despoblado
hacen penitencia las sombras
Las estrellas columpian la escalera
por donde bajarán los ángeles a la tierra
Mi vida se desangra gota a gota.

La tarde es una sola lágrima clara
Cada sombra es un latido que nos besa
Cerca, más cerca
el corazón de la noche.

El silencio doblega los instantes
Cada hoja es una palabra más
que dice la primavera este año
Para perpetuar la emoción
cerró la noche la palabra que nacía.
 
IL SOLE È CADUTO

Il sole è caduto
con ali spezzate
sopra un ponente.

I tuoi occhi si sono riempiti di crepuscoli pallidi.

È venuto l’eterno vuoto della tua presenza
e tutte le mie ore si sono riempite
di distanze.

Le tue lacrime scivolano
lungo il pendio d’un ricordo.

Il rosario dei tuoi baci
delle tue impronte
attende i tuoi passi.

Ritorna.

Forse alla tua finestra
un verso mio si dissangua.
 
EL SOL SE HABÍA CAÍDO

El sol se había caído
con las alas rotas
sobre un Poniente.

Tus ojos se llenaron de crepúsculos pálidos.

Vino el vacío eterno de tu presencia
y todas mis horas se llenaron
de distancias.

Tus lágrimas se deslizan
por la pendiente de un recuerdo.

El rosario de tus besos
de tus huellas
aguarda tus pasos.

Vuelve.

Acaso en tu ventana
un verso mío se desangra.
 
ALBEGGIARE

Nel cuore d’ogni albero
ha sussultato la mezzanotte.

La notte si sminuzza
in una lenta processione di nebbia.

Tutte le sere mettono fine alla loro stanchezza.

Le insegne luminose dormono
nello stupore dei loro colori
e anticipano la contemplazione d’ogni misero.

In ogni angolo veglia il sonno
e il tuo ricordo è l’unico dolore
che umilia la superbia dei marciapiedi.

Lontano, il primo mendico,
tradisce il portico dove ha dormito.

E la città s’apre come una lettera
per svelarci la sorpresa delle sue strade.

AMANECER

En el corazón de cada árbol
se ha estremecido la medianoche.

La noche se desmenuza
en lenta procesión de niebla.

Todas las tardes terminan su cansancio.

Los letreros luminosos duermen
el asombro de sus colores
y anticipan la contemplación de cada pobre.

En toda esquina vigila el sueño
y es tu recuerdo la única pena
que humilla la altivez de las aceras.

Lejos, el primer mendigo,
traiciona el portal donde ha dormido.

Y la ciudad se abre como una carta
para decirnos la sorpresa de sus calles.

SERA DA SOLA

Vuota la casa dove tante volte
le parole incendiarono i suoi angoli.
La notte si porta avanti
sul piano muto
che nessuno sta suonando

Sola passo da un ricordo a un altro
aprendo le finestre
perché il tuo nome popoli
la misera quiete di questa sera.
Più nessuno immobilizza le lunghe ore chiuse
alla mia felicità.

E il tuo ricordo è un’altra cosa
grande e quieta
dove inciampo da sola.
E i miei battiti formano una fila di passi
che vanno dalla tua porta all’oblio.
 
TARDE A SOLAS

Vacía la casa donde tantas veces
las palabras incendiaron los rincones.
La noche se anticipa
en el piano, mudo
que nadie toca.

Voy a solas desde un recuerdo a otro
abriendo las ventanas
para que tu nombre pueble
la mísera quietud de esta tarde a solas.
Ya nadie inmoviliza las horas largas y cerradas
a toda dicha mía.

Y tu recuerdo es otra cosa
grande y quieta
por donde yo tropiezo sola.
Y mis latidos forman una hilera de pisadas
que van desde tu puerta hacia el olvido.
 
PERCHÉ LA TUA VITA ERA CHIARA

Tu che hai la vita così chiara
mi guardi, come se fossi una lacrima.
Ho messo a tacere le cattive parole
e mi alzo come la prima ombra.
Precisa come l’ombra d’un albero
creata da una luna piena.
E tu non la capisci. Non vedi più
della luce che causa quell’ombra.
Domani, quando non ci sarà più luce
dietro la mia figura triste,
cercherai l’ombra. Io sarò un paesaggio
abbrumato di tenebre, senza contorni,
come quei singhiozzi ripetuti, lenti:
e poiché la tua vita deve essere sempre chiara,
mi eliminerai come una lacrima,
ed io allora, prosciugata in ore vuote,
avrò la purezza dei cimiteri
dentro le lunghe notti…
 
POR QUÉ TU VIDA FUE CLARA

Tú que tienes la vida tan clara
me miras, como si yo fuese una lágrima.
He callado las palabras malas
y me alzo como una primera sombra.
Precisa como la sombra de un árbol
originada por una luna llena.
Y tú no lo comprendes. No vez más
que la luz que causa esa sombra.
Mañana, cuando no se haga la luz
detrás de mi figura triste,
buscarás la sombra. Yo seré un paisaje
abrumado de tinieblas, sin contornos,
como esos sollozos repetidos, lentos:
y como tu vida ha de ser siempre clara,
me eliminarás como a una lágrima,
y yo entonces, agotada en horas huecas,
tendré la pureza de los cementerios
en las noches largas… 

VERSI A UNA PIAZZA

La sera muore come un eremita.
Sul dorso della notte
il cielo trema stretto alle stelle.

La notte tesa e lenta
s’aggrappa ai lampioni,
piccoli e tenui come una luna nuova.

Piazza: sulla tua soglia d’ombre
la sua voce s’alza come una litania
al verde silenzio dei tuoi alberi.

Le strade sono fremiti del destino
sotto il bagliore azzurro di tanto cielo.
La città si rompe bruscamente
contro il grembo dei tuoi piccoli angoli verdi.

 
VERSOS A UNA PLAZA

La tarde muere como una eremita.
Sobre la espalda de la noche
el cielo se estremece apretado de estrellas.

La noche crispada y lenta
se apega a los faroles,
pequeños y suaves como una luna nueva.

Plaza: sobre tu umbral de sombras
su voz sube como una letanía
al silencio verde de tus árboles.

Los caminos son temblores de dicha
bajo la llamarada azul de tanto cielo.
La ciudad se rompe bruscamente
contra el regazo de tus esquinitas verdes.
 
TUTTO IL DOLORE SI È ROVESCIATO

Tutto il dolore si è rovesciato
sul paesaggio.
La sera trasparente
come l’acqua
si è guardata nei tuoi occhi.
Lontano
la notte inginocchiata
tesse tenebre
innanzi al suo specchio.
Il mio cuore un plenilunio di tristezza.

TODO EL DOLOR DERRAMANDO

Todo el dolor derramado
sobre el paisaje.
La tarde transparente
como un agua
se ha mirado en tus ojos.
Lejos
la noche arrodillada
trenza tinieblas
ante su espejo.
Mi corazón es un plenilunio de tristeza.

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Joyce Kilmer, traduzioni di Emilio Capaccio

23 mercoledì Feb 2022

Posted by emiliocapaccio in Idiomatiche

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Emilio Capaccio, Joyce Kilmer, POESIA, TRADUZIONI

La tromba echeggia stridula e dolce,
ma non di guerra canta oggi.
La via è ritmata da piedi
di soldati che vengono a pregare.

J. K.

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Joyce Kilmer (1886-1918), traduzioni di Emilio Capaccio

LA LANTERNA DELL’AMORE

Perché la strada era lunga e ripida
per una terra oscura e solitaria,
Dio mise sulle mie labbra una canzone
e una lanterna nella mano.

Di notte in miglia e stanche miglia
che si tendono implacabili sul mio cammino
la mia lanterna arde chiara e serena,
un inesauribile calice di bagliore.

Dorate luci e luci violette,
come fiochi sono i vostri vantati splendori.
Osservate questa mia minuscola lucina;
più stellata d’una stella!

LOVE’S LANTERN

Because the road was steep and long
and through a dark and lonely land,
God set upon my lips a song
and put a lantern in my hand.

Through miles on weary miles of night
that stretch relentless in my way
my lantern burns serene and white,
an unexhausted cup of day.

O golden lights and lights like wine,
how dim your boasted splendors are.
Behold this little lamp of mine;
it is more starlike than a star!

COME VENTI CHE SOFFIANO CONTRO UNA STELLA

Per Aline

Ora per quale capriccio d’insensato caso
occhi radiosi conoscono giorni bui?
E piedi calzati di luce dovrebbero incedere
danzando per uggiosi e grevi cammini?

Ma i raggi dai Cieli, chiari e colmi di sé,
possono penetrare l’oscurità della terra;
e dirompe ma nutre, nella tua anima,
la gloria della celeste allegria.

I dardi d’affanno e sofferenza, scagliati
contro la tua pacifica bellezza, sono
tanto sciocchi quanto impotenti
come venti che soffiano contro una stella.

AS WINDS THET BLOW AGAINST A STAR

For Aline

Now by what whim of wanton chance
Do radiant eyes know sombre days?
And feet that shod in light should dance
Walk weary and laborious ways?

But rays from Heaven, white and whole,
May penetrate the gloom of earth;
And tears but nourish, in your soul,
The glory of celestial mirth.

The darts of toil and sorrow, sent
Against your peaceful beauty, are
As foolish and as impotent
As winds that blow against a star.

ALBERI

Penso che non vedrò mai
una poesia bella come un albero.

Un albero la cui bocca affamata è pronta
per il dolce seno fluente della terra;

un albero che guarda Dio tutto il giorno,
e alza le braccia fogliose per pregare;

un albero che può portare in estate
un nido di pettirossi tra i suoi capelli;

sul cui petto è caduta la neve;
che vive intimamente con la pioggia.

Le poesie sono fatte dagli sciocchi come me,
ma solo Dio può fare un albero.

TREES

I think that I shall never see
A poem lovely as a tree.

A tree whose hungry mouth is prest
Against the earth’s sweet flowing breast;

A tree that looks at God all day,
And lifts her leafy arms to pray;

A tree that may in summer wear
A nest of robins in her hair;

Upon whose bosom snow has lain;
Who intimately lives with rain.

Poems are made by fools like me,
But only God can make a tree.

MAIN STREET

Per S. M. L.

Mi piace guardare la scia fiorita della luna sul mare,
ma non è una vista così bella come una volta era Main Street
quando tutto era coperto da un paio di piedi di neve,
e sulla strada frizzante e radiosa scampanellavano le slitte.

Main Street, orlata di foglie autunnali, era piacevole,
e le sue grondaie erano piene di denti di leone all’inizio della primavera;
mi piace ricordarla bianca di brina o impolverata nel caldo
perché penso sia più umana di qualsiasi altra strada.

Una strada larga e trafficata di città è battuta da mille ruote,
e un peso di traffico sul petto è tutto ciò che sente:
è ottusamente cosciente del carico e della fretta e del lavoro che non cessa mai,
ma umana non può essere come Main Street e riconoscere i suoi fedeli.

Un centinaio di squadre d’operai al giorno c’erano in Main Street,
e venti o trenta persone, e qualche bambino fuori a giocare
e non c’era cocchio o carrozza o uomo o ragazza o ragazzo
che Main Street non ricordasse e che non sembrasse rallegrarsi.

Camion, macchine e tram sopraelevati
fanno risuonare di dolore la stanca strada della città
ma c’è ancora un’eco rimasto nel profondo del mio cuore,
una musica che i ciottoli di Main Street hanno fatto sotto un carretto da macellaio

Sia ringraziato Dio per la Via Lattea che attraversa il firmamento,
questo è il sentiero che i miei piedi calpesterebbero ogni volta che devo morire.
Alcuni la chiamano Spada d’Argento e altri Corona di Perle,
ma è lei l’unica cosa a cui penso, Main Street, Heaventown.

MAIN STREET

For S.M.L.

I like to look at the blossomy track of the moon upon the sea,
But it isn’t half so fine a sight as Main Street used to be
When it all was covered over with a couple of feet of snow,
And over the crisp and radiant road the ringing sleighs would go.

Now, Main Street bordered with autumn leaves, it was a pleasant thing,
And its gutters were gay with dandelions early in the Spring;
I like to think of it white with frost or dusty in the heat,
Because I think it is humaner than any other street.

A city street that is busy and wide is ground by a thousand wheels,
And a burden of traffic on its breast is all it ever feels:
It is dully conscious of weight and speed and of work that never ends,
But it cannot be human like Main Street, and recognise its friends.

There were only about a hundred teams on Main Street in a day,
And twenty or thirty people, I guess, and some children out to play.
And there wasn’t a wagon or buggy, or a man or a girl or a boy
That Main Street didn’t remember, and somehow seem to enjoy.

The truck and the motor and trolley car and the elevated train
They make the weary city street reverberate with pain:
But there is yet an echo left deep down within my heart
Of the music the Main Street cobblestones made beneath a butcher’s cart.

God be thanked for the Milky Way that runs across the sky,
That’s the path that my feet would tread whenever I have to die.
Some folks call it a Silver Sword, and some a Pearly Crown,
But the only thing I think it is, is Main Street, Heaventown.

IN MEZZO ALL’OCEANO IN TEMPO DI GUERRA

Il fragile splendore della linea del mare,
il volto sereno e velato d’argento della luna,
fa di questa nave un luogo incantato
pieno di chiara gioia e dorata malia.
Ora, per un po’, sarà spontanea risata
mischiata al canto per conferir più dolce grazia,
E le vecchie stelle, nella loro corsa senza fine,
daranno ascolto e invidieranno la giovane umanità.

Nondimeno stanotte, a cento leghe di distanza,
queste acque si tingono d’uno strano e terribile rosso.
Avanti alla luna, una nube oscenamente grigia
s’alza da ponti che si schiantano con cavi volanti.
E queste stelle sorridono a modo loro immemorabile
su onde che avvolgono un migliaio di nuovi morti.

MID-OCEAN IN WAR-TIME

The fragile splendour of the level sea,
The moon’s serene and silver-veiled face,
Make of this vessel an enchanted place
Full of white mirth and golden sorcery.
Now, for a time, shall careless laughter be
Blended with song, to lend song sweeter grace,
And the old stars, in their unending race,
Shall heed and envy young humanity.

And yet to-night, a hundred leagues away,
These waters blush a strange and awful red.
Before the moon, a cloud obscenely grey
Rises from decks that crash with flying lead.
And these stars smile their immemorial way
On waves that shroud a thousand newly dead!

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Edgar Allan Poe: il poeta del mistero

16 mercoledì Feb 2022

Posted by emiliocapaccio in Idiomatiche, LETTERATURA

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Edgar Allan Poe, POESIA, traduzione

Perché la tartaruga ha il passo sicuro,
è questa una ragione per tagliare le ali dell’aquila?

E. A. P.

poe

Edgar Allan Poe (1809-1849), articolo e traduzioni di Emilio Capaccio

Egdar Allan Poe nacque il 19 gennaio del 1809 a Boston, nel Massachussetts.
Fu il secondogenito di una coppia di attori girovaghi, David Poe Jr. (1784-1811) ed Elizabeth Arnold Poe (1787-1811), i quali vennero a mancare entrambi, quando Edgar ebbe appena 3 anni.
La madre morì in seguito a una lunga malattia, probabilmente tubercolosi o polmonite, sola e abbandonata dal marito, in uno squallido albergo di Richmond, chiamato “Indian Queen Tavern”.
Per quanto riguarda la morte del padre, invece, le fonti dell’epoca concordano nell’affermare che morì poco tempo prima o dopo la morte della moglie, ma non sono state mai chiarite le circostanze della sua morte, né è stato mai rinvenuto il luogo della sua sepoltura.
Oltre a Edgar, gli altri figli della coppia furono: William Henry Leonard (1807-1831) anche egli versato alla poesia, prematuramente scomparso a causa di una grave forma di tubercolosi, e Rosalie (1810-1874), la cui nascita, suscitò, all’epoca, molte dicerie sull’effettiva parentela con i fratelli.
Il padre di Poe, infatti, diventato violento e schiavo dell’alcool, aveva abbandonato la moglie, Elizabeth, quando presumibilmente la stessa non avrebbe potuto essere stata già incinta della bambina.
Alla morte dei genitori, i 3 bambini furono separati e dati in affidamento: il fratello maggiore fu affidato ai nonni di Baltimora, nel Maryland, mentre Edgar e Rosalie, che sarebbe diventata un’ottima insegnante di calligrafia presso una scuola femminile di Richmond, furono affidati a due diverse famiglie di Richmond, in Virginia, rispettivamente alla famiglia di John e Frances Allan, di origini scozzese e facoltosi commercianti di tabacco, e alla famiglia di John e Jane Scott Mackenzie.
Nel 1815, Poe si trasferì a Londra con la famiglia adottiva dove ricevette la prima istruzione presso alcune scuole private.
Nel 1821, ritornato a Richmond, cominciò ad appassionarsi molto presto alla musica, alla letteratura e alla poesia, iniziando a scrivere i suoi primi versi e frequentando la scuola di Joseph H. Clarke.
In questo periodo, si infatua di Jane Stith Craig Stannard (1793-1824), madre di Robert Stannard, compagno di studi di Poe.
La donna lo aveva sempre elogiato e incoraggiato nei suoi primi sforzi letterari e a lei Poe dedicò una delle sue poesie più belle: To Helen.
La morte prematura di Jane, in seguito a uno scoppio di un’arteria, gettò il poeta in una profonda disperazione.
L’anno seguente iniziò la frequentazione di Sarah Elmira Royster (1810-1888), quindicenne e sua vicina di casa.
I due, a causa della disapprovazione del padre della ragazza, che non considerava Poe adatto a sposare la figlia perché squattrinato e orfano, vissero una breve relazione clandestina e passionale fino a quando la volontà del padre non la spuntò e la ragazza dovette lasciare Poe per sposare, qualche tempo dopo, il ricco uomo d’affari Alexander Barrett Shelton (1807-1844).
Nel 1826, con già tante sofferenze alle spalle, si iscrisse all’università di Charlotteville, Virginia, alla facoltà di lingue antiche e moderne, ma 6 mesi dopo fu costretto a lasciare l’università a causa dei debiti che aveva contratto con il gioco d’azzardo, e del conseguente rifiuto del padre adottivo di continuare a pagargli la retta universitaria.
In aperto conflitto con John Allan, nel 1827, decise di lasciare la Virginia per andare a Boston, dalla zia Maria Clemm, parente del padre naturale.
Qui conobbe la figlia di Maria Clemm, Virginia, che diventerà nel 1836 sua moglie, quando la ragazza non aveva ancora che 13 anni, con un matrimonio celebrato in segreto.
Sempre nel 1827, pubblicò la sua prima raccolta di versi: Tamerlane and Other Poems, seguita, nel 1829, dalla seconda raccolta, intitolata: Al Aaraaf, Tamerlane and Minor Poems.
Dopo lo scarso successo di queste prime raccolte, decise di entrare nell’Accademia militare di West Point, ma circa 8 mesi più tardi si fece cacciare per insubordinazione, determinando la definitiva rottura con il padre adottivo che nel 1834 lo cancellerà anche dalle disposizioni testamentarie.
Nel 1831 si trasferì per un breve periodo a New York dove pubblicò senza successo una terza raccolta di poesie, intitolata: Poems.
Ritornato nuovamente a Baltimora, dalla zia Clemm, iniziò a scrivere i primi racconti horror e del grottesco, collaborando con alcuni giornali di Baltimora, Richmond, New York e Filadelfia, tra i quali: “Saturday Visitor”, “The Courier”, “The Gift”, Southern Literary Messenger”.
I racconti riscossero inaspettatamente un notevole successo di pubblico, tanto che sull’onda della popolarità, gli fu offerto la carica di vicedirettore del “Southern Literary Messenger”.
Dal 1838 al 1840 diresse, insieme a William Evans Burton (1804-1860), il giornale “Burton’s Gentleman’s Magazine” di Filadelfia.
In questo stesso periodo pubblicò anche il suo unico romanzo: The Narrative of Arthur Gordon Pym, e nel 1840 la sua prima raccolta di racconti: Tales of the Grotesque and Arabesque, tradotta nel 1856 da Charles Baudelaire (1821-1867) con il titolo: “Histoires extraordinaires”.
Nel 1844 si trasferì nuovamente a New York e l’anno successivo divenne redattore e proprietario del “Broadway Journal”.
Pubblicò sulla rivista “The Evening Mirror”, il poemetto The Raven con il quale raggiunse la definitiva consacrazione.
Tuttavia, le continue difficoltà economiche, l’abuso di alcool e le accuse di plagio mosse in seguito alla pubblicazione di un secondo volume di racconti dal titolo: Tales (accuse già ricevute in occasione della pubblicazione di un trattato di conchiliologia, nel 1838), gettarono Poe in uno stato di profonda prostrazione che lo costrinse a chiudere definitivamente il “Broadway Journal”.
La crisi si acuì enormemente nel 1846 con la morte della moglie, Virginia, per tubercolosi, a soli 27 anni.
Nonostante tutto, nel 1848, riuscì a pubblicare un poema in prosa sul tema della cosmogonia dell’universo dal titolo: Eureka.
Iniziò successivamente una serie di viaggi in molte città degli Stati Uniti, tenendo conferenze, recitando poesie, conducendo una vita dissoluta e facendo uso di droghe, soprattutto laudano.
In questo periodo, intrecciò molte brevi relazioni amorose nel tentativo di smorzare un continuo e intimo malessere.
Si riavvicinò al suo vecchio amore, Sarah Elmira Royster, rimasta, nel frattempo, vedova, con la quale strinse un rinnovato legame amoroso che avrebbe dovuti condurli a celebrare quelle nozze che non avevano potuto celebrare in passato per l’ostilità del padre della ragazza.
Il 27 settembre del 1849 Poe uscendo di casa scomparve inspiegabilmente.
Aveva lasciato detto a Sarah Elmira Royster, con la quale doveva sposarsi qualche giorno dopo, che avrebbe dovuto incontrare il suo editore Griswold, dopodiché sarebbe andato a prendere la zia Maria Clemm a Baltimora per portarla definitivamente a Richmond.
Poe non andò né a Baltimora né si incontrò con Griswold.
Fu ritrovato da un amico 6 giorni dopo sul ciglio di una strada, completamente stralunato, semi-cosciente e in preda a delirium tremens.
Morì in ospedale 3 giorni più tardi, il 7 ottobre del 1849, all’età di 40 anni, senza poter spiegare lucidamente quello che gli era accaduto.
Molte teorie si sono congetturate negli anni sulle cause della sua morte, alcune estremamente fantasiose.
Secondo una versione, resa da una testimonianza, fu adescato in un’osteria da alcune persone che lo avrebbero fatto ubriacare per costringerlo a votare più volte lo stesso candidato, una pratica subdola in uso nel XIX secolo, chiamata “cooping”.
Tuttavia, la versione che sembrerebbe più accreditata, esaminando i sintomi che Poe presentava nel momento del ritrovamento, senza avere peraltro una prova certa da un punto di vista medico-legale (poiché non fu mai eseguita un’autopsia e, in aggiunta, il certificato di ricovero in ospedale, insieme all’atto di morte, non sono mai stati ritrovati), potrebbe essere quella che sostiene l’ipotesi che Poe sia morto a causa di idrofobia, contratta dal morso di qualche animale di cui nemmeno lui poté accorgersi o prestò attenzione.

ULALÌ

Solo abitavo
in un mondo di lamento,
e la mia anima una marea stagnante,
finché la bella e dolce Ulalì si fece timida mia sposa,
finché la fulva e giovane Ulalì si fece ridente mia sposa.

Ah, men ― meno scintillanti
son le stelle della notte
degli occhi della radiante fanciulla!
giammai può contender ciò che può far la bruma
dalle tinte di porpora e di perla della luna,
col più trasandato boccolo dell’umile Ulalì ―
giammai può accostarsi al raggiante sguardo più svagato e modesto d’Ulalì.

Or Dubbio ― Or Pena
più non vengono,
perché l’anima sua mi rende sospiro per sospiro,
e per tutto il giorno
splende, forte e luminosa,
Astarte, in mezzo al cielo,
mentre sempre a lei volge gli occhi di matrona la cara Ulalì ―
mentre sempre a lei volge gli occhi di viola la giovane Ulalì.

EULALIE [1] 

I dwelt alone
in a world of moan,
and my soul was a stagnant tide,
till the fair and gentle Eulalie became my blushing bride ―
till the yellow-haired young Eulalie became my smiling bride.

Ah, less ― less bright
the stars of the night
than the eyes of the radiant girl!
that the vapor can make
with the moon-tints of purple and pearl,
can vie with the modest Eulalie’s most unregarded curl ―
can compare with the bright-eyed Eulalie’s most humble and careless curl.

Now Doubt ― now Pain
come never again,
for her soul gives me sigh for sigh,
and all day long
shines, bright and strong,
Astarte within the sky,
while ever to her dear Eulalie upturns her matron eye ―
while ever to her young Eulalie upturns her violet eye.

FANNY [2]

Il cigno morente dei laghi del nord
intona, chiaro e dolce, il suo inno selvaggio di morte,
e come la solenne melodia evade
per la collina e la valle e nell’aria si dissolve,
così giunse la tua morbida voce musicale,
così tremò sulla tua lingua il mio nome.

Come sprazzo di luce in una nuvola d’ebano
che invela l’austero cielo di mezzanotte,
trapassando la fredda sera nel suo nero sudario,
così giunse il primo sguardo di quell’occhio;
ma come roccia adamantina,
stette il mio spirito e affrontò il colpo.

Lascia che la memoria richiami il ragazzo
che depose il suo cuore sul tuo sacrario,
quando lontano risuonano i suoi passi
ricorda che proruppe al tuo fascino divino;
una vittima uccisa sull’altare dell’amore
da occhi ammalianti che scrutavano sdegnosamente.

FANNY 

The dying swan by northern lakes
sing’s its wild death song, sweet and clear,
and as the solemn music breaks
o’er hill and glen dissolves in air;
thus musical thy soft voice came,
thus trembled on thy tongue my name.

Like sunburst through the ebon cloud,
which veils the solemn midnight sky,
piercing cold evening’s sable shroud,
thus came the first glance of that eye;
but like the adamantine rock,
my spirit met and braved the shock.

Let memory the boy recall
who laid his heart upon thy shrine,
when far away his footsteps fall,
think that he deem’d thy charms divine;
a victim on love’s alter slain,
by witching eyes which looked disdain.

A F …

Adorata! Tra ferventi dolori
che s’accalcano intorno al mio passo terreno ―
(miserabile passo, ahimè! dove cresce
una deforme rosa solitaria) ―
la mia anima riceve per lo meno conforto
nel sogno di te, ed in esso conosce
un Eden di blando riposo.

E così la tua memoria viene a me
come una qualche remota isola incantata
in qualche mare tumultuoso ―
qualche oceano che mormora da lontano e libero
dalle burrasche ― ma dove, in quel frattempo,
i cieli più sereni, continuamente,
solo su quella isola luminosa, sorridono.

TO F …

Beloved! amid the earnest woes
that crowd around my earthly path ―
(drear path, alas! where grows
not even one lonely rose) ―
my soul at least a solace hath
in dreams of thee, and therein knows
an Eden of bland repose.

And thus thy memory is to me
like some enchanted far-off isle
in some tumultuous sea ―
some ocean throbbing far and free
with storms ― but where meanwhile
serenest skies continually
just o’er that one bright island smile.

UN SOGNO

In visioni di tenebrosa notte
ho sognato di gioie svanite, ma un sogno
ad occhi aperti di vita e di luce
mi lasciava col cuore spezzato.

Ah, cosa non è un sogno di giorno
per chi i suoi occhi ha posato
sulle cose intorno a lui con un lampo
che volge ancora al passato?

Quel sogno santo ― quel sogno santo,
mentre tutto il mondo stava strillando,
mi sostenne qual amorevole fascio,
amorevole spirito guida.

Sebbene quella luce, in notte e bufera,
tremolò tanto da lontano ―
che mai può esserci di più puramente splendente
nella diurna stella del Vero?

A DREAM

In visions of the dark night
I have dreamed of joy departed ―
but a waking dream of life and light
hath left me broken-hearted.

Ah! what is not a dream by day
to him whose eyes are cast
on things around him with a ray
turned back upon the past?

That holy dream ― that holy dream,
while all the world were chiding,
hath cheered me as a lovely beam
a lonely spirit guiding.

What though that light, thro’ storm and night,
so trembled from afar ―
what could there be more purely bright
in Truth’s day-star?

A M …

O, io non mi curo che la mia sorte terrena
ben poco abbia della terra in sé,
che anni d’amore siano stati bruciati
nel delirio d’un momento:

Non m’importa, mia adorata,
che i disperati siano di me più felici,
ma che tu debba immischiarti in questo mio destino
che mi porta ad andar via.

Né che le mie sorgenti d’estasi
stiano zampillando ― ahimè! di lacrime ―
o che il brivido d’un singolo bacio
abbia scosso i molti anni.

Né che fiori di venti primavere
si siano appassiti come il loro colore
che giace morituro sul mio cuore oppresso
dal peso d’una stagione colma di neve.

Né che l’erba ― O! che possa prosperar!
sulla mia fossa stia crescendo o sia già cresciuta ―
ma che, mentre stia morendo o sia ancor vivo,
non possa io che esser solo, mia signora.

TO M …

O! I care not that my earthly lot
hath little of Earth in it,
that years of love have been forgot
in the fever of a minute:

I heed not that the desolate
are happier, sweet, than I,
but that you meddle with my fate
who am a passer by.

It is not that my founts of bliss
are gushing ― strange! with tears ―
or that the thrill of a single kiss
hath palsied many years ―

‘Tis not that the flowers of twenty springs
which have wither’d as they rose
lie dead on my heart-strings
with the weight of an age of snows.

Not that the grass ― O! may it thrive!
on my grave is growing or grown ―
but that, while I am dead yet alive
I cannot be, lady, alone.

LA DORMIENTE [3]

A mezzanotte, nel mese di giugno,
mi trovo sotto la mistica luna.
Un vapor d’oppio, confuso, umidiccio,
esala dal suo anello dorato
e mollemente cala, goccia a goccia,
sulla cima quieta del monte;
assonnato e musicalmente
slitta lento verso la valle universale.
S’inclina sulla fossa il rosmarino;
fluttua il giglio sulla corrente;
la bruma avvolgendosi al suo petto
fa dissolvere il rudere nel silenzio.
Guarda, simile al Lete! Osserva! Il lago
abbandonarsi a un sonno cosciente
e per nulla vorrebbe svegliarsi.
Dormono tutte le Bellezze! ― Osserva
là dove giace Irene coi suoi Destini!

O, splendente fanciulla! Può esser
giusto questo bovindo aperto sulla notte?
Brezze viziose, dalle cime degli alberi,
scorrono ridenti attraverso la grata ―
brezze intangibili, in magica rotta,
vanno e vengono attraverso la tua stanza
ondulando le tende del baldacchino
così capricciose ― così spaventose ―
sulle palpebre chiuse e orlate, sotto le quali
dormiente la tua anima resta celata,
cosicché, dal pavimento e sulle pareti
come fantasmi s’issano e cadono le ombre!
O, fanciulla adorata, non provi sgomento?
Perché mai, e cosa mai stai sognando tu, qui?
Di certo sei venuta da lontani mari
a meravigliare questi alberi del giardino!
Strano il tuo vestito! Strano il tuo pallore!
E più strane le tue trecce così lunghe
e tutta questa grandiosa silenziosità!

Dorme la fanciulla! O, possa il suo sonno
esser come duraturo, tanto profondo!
Lo serbi il cielo nella sua santa fortezza!
Si tramuti questa stanza in altra più sacra,
questo letto in altro malinconico,
e prego Iddio che ella possa restare
con occhi serrati, finché non se ne andranno
i pallidi spettri ammantati.

Dorme la mia amata! O, possa il suo sogno
esser come lungo tanto profondo!
Possano lievi i vermi strisciar sopra di lei!
Lontano nella foresta, antica e oscura,
per lei possa spalancarsi una grande cripta ―
qualche cripta che sovente si richiuse
allungando i suoi neri e alati pannelli,
trionfante, sui drappi stemmati
nei funerali della sua grande famiglia ―
qualche sepolcro remoto e solitario,
contro il cui portale lei abbia lanciato
delle pietre, per gioco nell’infanzia ―
qualche tomba dalla cui porta risonante
ella mai più forzerà a levarsi un eco,
tremando al pensiero, povera figlia della colpa!
che là dentro erano i morti a gemere tanto.

THE SLEEPER

At midnight, in the month of June,
I stand beneath the mystic moon.
An opiate vapor, dewy, dim,
exhales from out her golden rim,
and softly dripping, drop by drop,
upon the quiet mountain top,
steals drowsily and musically
into the universal valley.
The rosemary nods upon the grave;
the lily lolls upon the wave;
wrapping the fog about its breast,
the ruin moulders into rest;
looking like Lethe, see! the lake
a conscious slumber seems to take,
and would not, for the world, awake.
All Beauty sleeps! ― and lo! where lies
Irene, with her Destinies!

Oh, lady bright! can it be right ―
this window open to the night?
The wanton airs, from the tree-top,
laughingly through the lattice drop ―
the bodiless airs, a wizard rout,
flit through thy chamber in and out,
and wave the curtain canopy
so fitfully ― so fearfully ―
above the closed and fringéd lid
neath which thy slumb’ring soul lies hid,
that, o’er the floor and down the wall,
like ghosts the shadows rise and fall!
Oh, lady dear, hast thou no fear?
Why and what art thou dreaming here?
Sure thou art come o’er far-off seas,
a wonder to these garden trees!
Strange is thy pallor! strange thy dress!
Strange, above all, thy length of tress,
and this all solemn silentness!

The lady sleeps! Oh, may her sleep,
which is enduring, so be deep!
Heaven have her in its sacred keep!
This chamber changed for one more holy,
this bed for one more melancholy,
I pray to God that she may lie
forever with unopened eye,
while the pale sheeted ghosts go by!

My love, she sleeps! Oh, may her sleep,
as it is lasting, so be deep!
Soft may the worms about her creep!
Far in the forest, dim and old,
for her may some tall vault unfold ―
some vault that oft hath flung its black
and wingéd panels fluttering back,
triumphant, o’er the crested palls
of her grand family funerals ―
some sepulchre, remote, alone,
against whose portals she hath thrown,
in childhood, many an idle stone ―
some tomb from out whose sounding door
she ne’er shall force an echo more,
thrilling to think, poor child of sin!
It was the dead who groaned within.

CANTO [4]

Ti vidi nel tuo giorno nuziale ―
quando una vampa di rossore veniva da te
sebbene intorno la felicità si stendeva
e il mondo tutto l’amore avanti a te:

e nel tuo occhio una luce fiammante
(o qual che fosse) era tutta sulla terra
così che il mio sguardo di dolore
poteva vederne la bellezza.

Quel rossore, forse, era pudor di fanciulla ―
così come ben si comprende ―
benché i suoi bagliori avessero alzato più
ardita fiamma nel petto di colui, ahimè!

che ti vide nel tuo giorno nuziale
quando quel profondo rossore veniva da te
sebbene intorno la felicità si stendeva
e il mondo tutto l’amore avanti a te.

SONG

I saw thee on thy bridal day ―
when a burning blush came o’er thee,
though happiness around thee lay,
the world all love before thee:

and in thine eye a kindling light
(whatever it might be)
was all on Earth my aching sight
of Loveliness could see.

That blush, perhaps, was maiden shame ―
as such it well may pass ―
though its glow hath raised a fiercer flame
in the breast of him, alas!

who saw thee on that bridal day,
when that deep blush would come o’er thee,
though happiness around thee lay;
the world all love before thee.

A UNA IN PARADISO

Tu eri per me quel tutto, amore,
per il qual l’anima mia si struggeva,
un verde isolotto in mezzo al mare,
amore, un fontanile e un altare
tutto adorno di bei frutti e di fiori
e tutti miei erano quei fiori.

Ah, sogno troppo splendido per durare!
Ah, siderea speranza, che t’alzasti
solo per essere offuscata!
Là fuori una voce dal futuro grida,
“Avanti! Avanti!” ― ma è sul passato
(vortice oscuro!) che il mio spirito in bilico
giace, muto, immobile, inorridito.

Perché, ahimè! ahimè! per me
la luce della vita è passata!
Non più — non più — non più —
(questa lingua riserva il mare solenne
alle sabbie della riva)
fiorirà l’albero disseccato dal fulmine
o s’alzerà l’aquila ferita.

E tutti i miei giorni sono imbambolati
e tutti i miei sogni notturni
son dove il tuo occhio grigio volge
e dove il tuo passo scintilla —
in qualche eterea danza
su qualche etereo fiume.

TO ONE IN PARADISE

Thou wast all that to me, love,
for which my soul did pine:
a green isle in the sea, love,
a fountain and a shrine
all wreathed with fairy fruits and flowers,
and all the flowers were mine.

Ah, dream too bright to last!
Ah, starry Hope, that didst arise
but to be overcast!
A voice from out the Future cries,
“On! on!” — but o’er the Past
(dim gulf!) my spirit hovering lies
mute, motionless, aghast.

For, alas! alas! with me
the light of Life is o’er!
No more — no more — no more —
(such language holds the solemn sea
to the sands upon the shore)
shall bloom the thunder-blasted tree,
or the stricken eagle soar.

And all my days are trances,
and all my nightly dreams
are where thy gray eye glances,
and where thy footstep gleams —
in what ethereal dances,
by what eternal streams.

SONETTO – ALLA SCIENZA

Scienza! Vera figlia dell’antico tempo!
che muti ogni cosa coi tuoi occhi penetranti!
Perché predi così sul cuore del poeta,
vulture, le cui ali son ottuse realtà?

Come potrebbe egli amarti? o crederti giusta,
se non volesti che libero vagasse
in cerca di tesori per cieli ingioiellati,
benché con ali intrepide s’involò?

Non hai spinto Diana dal suo carro,
e cacciato via l’Amadriade dal bosco
che in una più felice stella ha trovato riparo?

Non hai strappato la Naiade alle sue correnti,
l’elfo al verde prato, e da me il sogno
dell’estate sotto l’albero di tamarindo?

SONNET – TO SCIENCE

Science! true daughter of Old Time thou art!
who alterest all things with thy peering eyes.
Why preyest thou thus upon the poet’s heart,
vulture, whose wings are dull realities?

How should he love thee? or how deem thee wise,
who wouldst not leave him in his wandering
to seek for treasure in the jewelled skies,
albeit he soared with an undaunted wing?

Hast thou not dragged Diana from her car?
and driven the Hamadryad from the wood
to seek a shelter in some happier star?

Hast thou not torn the Naiad from her flood,
the Elfin from the green grass, and from me
the summer dream beneath the tamarind tree?


A FS – S. O – D

Vorresti esser amata? ― allora fa’ che il tuo cuore
non abbandoni il sentiero d’oggi!
Essendo ogni cosa che ora tu sei,
non essere niente che non sei.

Così per il mondo i tuoi modi gentili,
la tua grazia, la tua più che bellezza,
saranno un tema di lode senza fine,
e l’amore ― un semplice dovere

TO FS – S. O – D [5]

Thou wouldst be loved? ― then let thy heart
from its present pathway part not!
Being everything which now thou art,
be nothing which thou art not.

So with the world thy gentle ways,
thy grace, thy more than beauty,
shall be an endless theme of praise,
and love ― a simple duty.

[1] La traduzione letterale del titolo della poesia è: “Eulalia”; componimento che Poe dedicò alla prima moglie-fanciulla, Virginia. Eulalia significa: “colei che parla dolcemente”. “Ulalì” è una libera trasposizione del traduttore.

[2] Poesia pubblicata sul “Baltimore Saturday Visiter”, il 18 maggio del 1833.

[3] La poesia venne pubblicata per la prima volta nel 1831 con il titolo: “Irene”. Il 22 maggio del 1841, completamente riveduta, fu pubblicata sul “Saturday Chronicle” di Filadelfia con il titolo: “The sleeper”

[4] La poesia fu dedicata a Sarah Elmira Royster, fidanzata di Poe che dovette sposare, per volere della famiglia, il facoltoso Alexander Barrett Shelton, il 6 dicembre del 1828.

[5] La poesia fu dedicata da Poe alla poetessa Frances Sargent Locke Osgood (1811-1850).

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Stavros Girgenis traduce Maria Allo

01 martedì Feb 2022

Posted by Loredana Semantica in Idiomatiche, LETTERATURA, Poesie

≈ 1 Commento

Tag

Eleni Marinaki, Maria Allo, POESIA, TRADUZIONI

Le poesie di Maria Allo ospitate su  Exitirion  e tradotte in greco da Stavros Girgenis

(I)
Δεν γνώριζα πως ήμουν μέσα
σ’ ένα αιχμηρό σημείο της γλυσίνας
πριν το άνθισμα.

—Γη που παραμένει (Ed. di Poesia Controluna, 2018)


non sapevo di essere dentro
in un punto affilato del glicine
prima di fiorire.

—La terra che rimane (Ed. di Poesia Controluna, 2018


(II)
Η ΓΗ ΠΟΥ ΠΑΡΑΜΕΝΕΙ
Άσε με να μιλήσω για τη θάλασσα και τις αβύσσους της
γίνεται φως στις διαφάνειες
όπως οι αναμνήσεις ή αυτό που λείπει
– κοίτα – αυτό το φαράγγι παραμένει φραγμένο
μια τρύπα στο στήθος
με θάμνους σε όλες τις εποχές.
Άσε με να μιλήσω για τη νύχτα όταν πυκνώνει
στους κροτάφους και στο όνομά σου
τότε με φωτίζεις και μένεις μέσα σ’ αυτή τη σάρκα
διαλύοντας τη σκιά και την απόσταση που εγγίζει τον ουρανό.
Άσε το θάρρος σου οργωμένο στα χείλη μου
περιφρουρεί και αγκαλιάζει τα όρια της θάλασσας
όπως η μνήμη που παραμένει και μεταλλάσσεται.

—Σχισμές ( Ed. L’arcolaio, 2016)


LA TERRA CHE RIMANE
Lasciami parlare del mare e dei suoi abissi
si fa luce nelle trasparenze
come i ricordi o ciò che manca
– vedi – resta questa gola insabbiata
un foro dentro il petto
con sterpaglie in tutte le stagioni.
Lasciami parlare della notte quando si addensa
sulle tempie e sul tuo nome
allora mi rischiari e resti dentro questa carne
strappando l’ombra e la distanza che avvicina il cielo.
Lasciami il tuo coraggio arato sulle labbra
custodisce e abbraccia i confini del mare
come la memoria che resta e si trasmuta.

—Solchi (Ed. L’arcolaio, 2016)


(III)
Πριν τη γένεση του κόσμου
ήμασταν αθώοι
εποχές απρόβλεπτων κυττάρων
τυχαία πλέγματα από τουμπερόζες στον κήπο.
Πριν τη γένεση του κόσμου
ανέπνεε η αυγή και τα φύλλα
αιωρούνταν στην στέγη του στάβλου.
Στον στροβιλισμό υπήρχε το ίδιο όνειρο
[μια μοναδική δύναμη]
σε μετεωρισμό στον άνεμο θερμοί χώροι
βαθύτητα οραμάτων.
Η ιπποκαστανιά σκόρπιζε στα πεζοδρόμια
σκαντζόχοιρους γεμάτους μούρα
με κάποιο κρυφό χάδι του ήλιου
που μερικές φορές έτρεμε ανάμεσα στα μακριά κλαδιά
θωπεύοντάς μας τα χέρια και αίφνης
το θρόισμα των γκρίζων περιστεριών
μέσα στη σιωπή του πρωινού μας ξυπνούσε.
Τώρα δεν υπάρχει εποχή,
κυριαρχεί το σκοτάδι και τα μάτια
χάνονται ανάμεσα στις βλεφαρίδες.
Τώρα στο ψηλάφισμα δεν υπάρχει παρά μόνο ορίζοντας
ο ασταθής πλανήτης εκτοξεύει βέλη.
Είναι εδώ οι Άγιοι Τόποι όπου ο τετράρχης Ηρώδης
ολοκλήρωσε τη σφαγή των αθώων;

—Ξέφωτο (Ed. Ladolfi, 2021)


Prima della genesi del mondo
noi eravamo indocili
stagioni di cellule impreviste
intrecci casuali di tuberose nell’orto.
Prima della genesi del mondo
si respirava l’alba e le foglie
fluttuavano sul tetto della scuderia.
Nel vorticare c’era lo stesso sogno
[una forza unica]
in bilico nel vento caldi spazi
profondità di visioni.
L’ippocastano disseminava sui selciati
ricci gremiti di bacche
con qualche furtiva carezza di sole
che a volte tremava tra i lunghi rami
sfiorandoci le mani e improvviso
il frullare di tortore grigie
nel silenzio del mattino ci destava.
Ora non c’è stagione,
sovrasta il buio e gli occhi
si perdono tra i cigli.
Ora a tentoni si va non c’è orizzonte
il pianeta precario lancia strali.
È qui la Terra Santa dove Erode il tetrarca
consumò la strage degli innocenti?

—Radure (Ed. Ladolfi, 2021)


(IV)
ΞΕΡΕΤΕ
Ξέρετε, έχουμε ρυάκια λάσπης να ανασκάψουμε
πέτρες λάβας και μαύρους αρκεύθους στο πέρασμα των αιώνων.
Όσο για μένα, μια φωτιά φιδογυρνούσε
στα οστά μου: αλλά δεν φαντάστηκα μια φωνή
μέχρι που έβαλα στο στήθος μου
τη μυρωδιά του δέρματός της όπως για να αποφύγει
τις λάμψεις του ιπποφαούς ο χειμώνας έζησε
σε συνεχή πόλεμο από κατάλληλη απόσταση
σαν κόκκινα σφεντάμια που σε μια ανάσα τώρα
στροβιλίζονται έρημα γύρω από τον άνεμο.
Ξέρετε, ξυπνάω το πρωί
σαρώνοντας κάθε φύλλο στο χαμηλότερο κλαδί
αυτού που είναι διασκορπισμένο ανάμεσά μας.

—Ξέφωτο (Ed. Ladolfi, 2021)


SAPETE
Sapete, abbiamo flussi di fango da estirpare
lapilli di lava e ginepri neri lungo i secoli.
Quanto a me un fuoco serpeggiava
nelle ossa: ma non immaginavo una voce
finché ho riposto nel mio seno
l’odore della sua pelle come a stornare
da lampi di biancospini l’inverno vissuto
in continua guerra a debita distanza
come aceri rossi che in un soffio ora
volteggiano deserti intorno al vento.
Sapete, mi sveglio al mattino
scrutando ogni foglia sul ramo più basso
di quel che è disperso fra noi

 —Radure (Ed. Ladolfi, 2021)


(V)
ΚΑΘΕΤΟ 
ΒΛΕΜΜΑ
Δεν υπάρχει σχισμή βράχου
στην οποία μπορεί να κυματίσει η θάλασσα.
Λευκοί ερωδιοί διαβαίνουν τον λήθαργο
των κοχυλιών που κοιμούνται
στον πιο καθαρό βυθό της θάλασσας
αλλά σε μια κατάρα το ηφαίστειο
εξαφανίζει ονόματα και φωνές όταν η νύχτα
κατέρχεται και σε ένα βράχο η κραυγή
αναφλέγεται ανάμεσα στις σαπισμένες ακτίνες στις ακτές
σ’ εκείνον που δεν έχει φως στο πρόσωπό του.
Μόνο μερικές φορές η ανάσα είναι καθρέφτης
[ενός κάθετου βλέμματος.

—Ανέκδοτο (2020)


SGUARDO VERTICALE
Non c’è fenditura di scoglio
in cui il mare possa fluttuare.
Bianchi aironi incrociano il torpore
di conchiglie in dormiveglia
sul fondo più chiaro del mare
ma in una maledizione il vulcano
nomi e voci dilegua quando la notte
scende e sopra una roccia il grido
divampa tra i raggi marci nei lidi
su chi non ha luce in viso.
Solo a tratti il respiro è specchio
[di uno sguardo verticale.

—Inedito (2020)


(VI)
ΔΕΝ ΜΠΟΡΕΙΣ ΝΑ ΣΤΑΜΑΤΗΣΕΙΣ
Δεν μπορείς να σταματήσεις τον άνεμο
μόνο να συλλάβεις τους οιωνούς του
πίσω από το ανάλαφρο βάρος ενός σύννεφου.
Σου μιλώ από άγνωστους καιρούς
δίχως να ξέρω πώς με διαπερνά
η σκιά, ενώ μια δέσμη ακτίνων
αναρριχάται συγκεχυμένα σε αδιαπέραστα μονοπάτια.
Έχω σπείρει ίχνη
πίσω από ασύνδετους άξονες στον βυθό
τώρα επιπλέουν σε ένα χάσμα
ενώ η σκιά διαστέλλει τη λάμψη μου.
Ιδού. Γράφε καθώς πέφτεις.
Λοιπόν, αυτό μου αφήνεις ως στίχο:
τη μυστική φωνή – σπόρο του χρόνου
και τη βροχή στα χέρια.
Στην αναπνοή σου όλες οι λέξεις,
όλη η σιωπή
ολόκληρο το σύμπαν, τα πάντα και όλοι

—Γη που παραμένει (Ed. di Poesia Controluna, 2018)

Eleni Marinaki e Maria Allo, rispettivamente in greco e in italiano, leggono la poesia di Maria Allo

NON SI PUÒ FERMARE
Non si può fermare il vento
solo cogliere i suoi presagi
dietro il peso lieve di una nube.
Ti parlo da tempi sconosciuti
senza sapere come mi attraversa
l’ombra, mentre un fascio di raggi
si inerpica confuso per sentieri impervi.
Ho seminato impronte
dietro cardini sconnessi nei fondali
ora fluttuano in una voragine
mentre l’ombra dilata il mio chiarore.
Ecco. Scrivi mentre cadi.
Dunque questo mi lasci come verso:
la voce segreta − seme del tempo
e la pioggia fra le mani.
Nel tuo respiro tutte le parole,
tutto il silenzio
l’universo intero, tutto e tutti

—La terra che rimane (Ed. di Poesia Controluna, 2018)

Maria Allo è autrice di questo blog, la sua biografia qui

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Emilio Capaccio traduce Marsden Hartley

06 giovedì Gen 2022

Posted by emiliocapaccio in Idiomatiche, LETTERATURA, Poesie

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Tag

Emilio Capaccio, Marsden Hartley, Poesie, TRADUZIONI

Torno a meditare sempre sull’idea della vita,
mentre medito perennemente sull’esistenza del momento.

M. H.

Marsden Hartley

Poesie di Marsden Hartley (1817-1943). Traduzione di Emilio Capaccio

VENDITORE DI PESCE

Ho preso le squame
dalle guance della luna.
Ho fatto le pinne dalle ali della ghiandaia,
gli occhi dai susini nell’ombra.
Ho preso i vermigli dalle labbra del sole.
Da tutto questo ho fatto nascere un pesce nel cielo,
l’ho messo a nuotare per te in un azzurro d’ottobre.
Siedo sulla riva del ruscello e osservo
il prato in visibilio
mentre volge in oro cinerino.
Sono sempre belli i pesci
che vengono a te dall’arcobaleno.
Perché sono stati creati,
perché li ho messi
a nuotare?

FISHMONGER

I have taken scales from off
the cheeks of the moon.
I have made fins from bluejays’ wings,
I have made eyes from damsons in the shadow.
I have taken flushes from the peachlips in the sun.
From all these I have made a fish of heaven for you,
set it swimming on a young October sky.
I sit on the bank of the stream and watch
the grasses in amazement
as they turn to ashy gold.
Are the fishes from the rainbow
still beautiful to you,
for whom they are made,
for whom I have set them,
swimming?

UCCELLI CANORI

Cento uccelli canori al più vicino squarcio dolorante,
sembrava amassero il suo dolore
empito d’iper iconica spogliatezza.
Non m’attendevo sì strabiliante opulenza
d’appressarsi a me celata col far del giorno,
benché la mane sia il momento e la primavera
il modo in cui sa esser migliore l’amore.

Attraverso il fogliame un bruciante
impeto d’ali dorate, leste, vorticose.
Tutti gli uccelli canori del mondo son venuti
a me, e son in me viventi
Io solo fresco ricetto e umile ombra ho dato,
alle mie foglie premute da eccessivo sole.

Ho detto che son venuti cento uccelli canori
per me,
e ora che chiaro m’è tutto, quelli che son stati,
che son stati davvero vicino,
son due solo, o tre,
Ma come m’hanno preso.

WARBLERS

An hundred warblers in the nearest aching gap,
it seems as though it loved its aching
filled with hyper-ikonistic misery.
I did not expect such staggering wealth
to come to me by dawn-delivered stealth,
though morning is the time and spring
the way love knows of its best being.

All through the leaves a burning
rush of gilded, swift, whirling wing.
All warblers of the world have come
to me, and are in me living
I only cool retreat and humble shade giving,
my leaves with excess of sun trampled.

I said an hundred warblers came
to me,
and now that I am clear, what it
was, was very near
it was but two, or three,
But how they fastened me.

L’AQUILA NON VUOLE AMICI

L’aquila non vuole amici,
impiega i suoi pensieri per altri fini –
ha i suoi cerchi da iscrivere
a dodicimila piedi da dove
i pesci setacciano il mare,
trova il suo conforto nell’illesa
immensità,
dove pensano le aquile non c’è bisogno
d’essere soli –
Nell’isolamento
c’è un profondo senso di casa.

THE EAGLE WANTS NO FRIENDS

The eagle wants no friends,
employs his thoughts to other ends –
he has his circles to inscribe
twelve thousand feet from where
the fishes comb the sea,
he finds his solace in unscathed
immensity,
where eagles think, there is no need
of being lonesome –
In isolation
is a deep revealing sense
of home.

FIDUCIA

“Avremo il sole ora”.
dicevano i tremuli gabbiani
“Abbiamo percorso la gamma del mare tuonante,
uno per uno, uno per uno,
e sebbene l’onda sia piena di pane
un’ala è spesso sfinita dai tendini
d’una cosa così varia e vasta;
facciamo la nostra geodetica sorveglianza,
perché le aringhe sono una cosa splendente,
una forma di lucente immaginazione,
una grandiosa circostanza.
Il brivido d’una foglia di frassino e di pino
fa altra musica per la determinazione d’un giorno,
anche i gabbiani amano la forma delle rose
prima che il giorno muoia.”

CONFIDENCE

“We’ll have the sun now,”
the quaking sea gulls said.
“We’ve run the gamut of the thundering sea,
one by one one by one,
and though the wave is full of bread
a wing is often tendon-weary
of a thing so varied-vast;
we do our geodetic surveillance,
for herring are a shining thing,
a shape of sleek imagining,
a pretty circumstance.
The shiver of an ash leaf and of pine
makes other music for a day’s determining,
even sea gulls love the shape of roses
ere day closes.”

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Buon compleanno, Arthur

20 mercoledì Ott 2021

Posted by emiliocapaccio in Idiomatiche

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Arthur Rimbaud, Emilio Capaccio, POESIA, traduzione

Credo di essere all’inferno, quindi ci sono

A.R.

Arthur Rimbaud (1854-1891), traduzioni di Emilio Capaccio

Rimbaud

MIO BOHÉMIEN

Me ne andavo coi pugni nei taschini sfondati.
Il mio cappotto diventava ideale.
Andavo a cielo nudo, Musa! a te leale.
Oh! Là! Là! che amori splendidi sognati!

Le mie mutande avevano un largo foro.
Pollicino sognante, rimavo al furore
Della corsa. La mia locanda l’Orsa Maggiore,
Le mie stelle in cielo un dolce coro.

Le ascoltavo seduto sul ciglio delle vie,
Sere buone di settembre, sentivo un goccìo
Di rugiada sulla fronte, corposo liquore;

Facendo rime in ombre lunghe lunghe,
Come lire, trascinavo le stringhe
Delle scarpe ferite, un piede vicino al mio cuore.
 
MA BOHÈME

Je m’en allais les poings dans mes poches crevées.
Mon paletot aussi devenait idéal.
J’allais sous le ciel, Muse! et j’étais ton féal.
Oh! Là! Là! que d’amours splendides j’ai rêvées!

Mon unique culotte avait un large trou.
Petit Poucet rêveur, j’égrenais dans ma course
Des rimes. Mon auberge était à la Grande Ourse,
Mes étoiles au ciel avaient un doux frou-frou.

Et je les écoutais, assis au bord des routes
Ces bons soirs de septembre où je sentais des gouttes
De rosée à mon front, comme un vin de vigueur;

Où, rimant au milieu des ombres fantastiques,
Comme des lyres, je tirais les élastiques
De mes souliers blessés, un pied près de mon coeur!
 
SOGNATO PER L’INVERNO

D’inverno andremo in un piccolo vagone rosa
Con cuscini azzurri.
Staremo bene. Un nido di baci dissennati riposa
Negli angoli molli.

Chiuderai gli occhi per non veder dal finestrino
Smorfiare le ombre delle sere,
Queste mostruosità astiose popolate
Da demoni neri e lupi neri.

Poi ti sentirai la guancia scalfita …
Un piccolo bacio come un ragno folle
Ti correrà per il collo …

E tu mi dirai: “Cerca!”, inclinando la testa
E prenderemo tempo per trovar quell’animaletto
Che fugge tanto …
 
RÊVÉ POUR L’HIVER

L’hiver, nous irons dans un petit wagon rose
Avec des coussins bleus.
Nous serons bien. Un nid de baisers fous repose
Dans chaque coin moelleux.

Tu fermeras l’oeil, pour ne point voir, par la glace,
Grimacer les ombres des soirs,
Ces monstruosités hargneuses, populace
De démons noirs et de loups noirs.

Puis tu te sentiras la joue égratignée …
Un petit baiser, comme une folle araignée,
Te courra par le cou …

Et tu me diras: “Cherche!” en inclinant la tête,
Et nous prendrons du temps à trouver cette bête
Qui voyage beaucoup …
 
ORAZIONE DELLA SERA

Vivo seduto, come un angelo tra le mani d’un barbiere
Impugnando un boccale a forti scanalature,
L’epigastrio e il collo inarcato, una Gambier ai denti,
Sotto l’aria gonfia d’impalpabili velature.

Come gli escrementi caldi d’una vecchia piccionaia,
Mille sogni in me fanno dolci bruciature:
Poi a istanti, il mio cuore triste è come un alburno
Che insanguina l’oro giovane e scuro delle colature.

E quando ho ringoiato i miei sogni con cura,
Mi giro, avendo bevuto trenta o quaranta boccali,
E mi raccolgo per lasciare l’acre bisogno:

Dolce come il Signore del cedro e degli issopi
Piscio verso cieli bruni, molto alti e molto lontani,
Con il permesso dei grandi eliotropi.
 
ORAISON DU SOIR

Je vis assis, tel qu’un ange aux mains d’un barbier,
Empoignant une chope à fortes cannelures,
L’hypogastre et le col cambrés, une Gambier
Aux dents, sous l’air gonflé d’impalpables voilures.

Tels que les excréments chauds d’un vieux colombier,
Mille Rêves en moi font de douces brûlures:
Puis par instants mon coeur triste est comme un aubier
Qu’ensanglante l’or jeune et sombre des coulures.

Puis, quand j’ai ravalé mes rêves avec soin,
Je me tourne, ayant bu trente ou quarante chopes,
Et me recueille, pour lâcher l’âcre besoin:

Doux comme le Seigneur du cèdre et des hysopes,
Je pisse vers les cieux bruns, très haut et très loin,
Avec l’assentiment des grands héliotropes.

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Emilio Capaccio traduce Lya Luft

02 sabato Ott 2021

Posted by emiliocapaccio in Idiomatiche

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Emilio Capaccio, Lya Luft, poesia contemporanea, traduzione

C’è gente che invece di distruggere, costruisce;
invece di invidiare, regala;
invece d’avvelenare, abbellisce;
invece di strappare, riunisce a aggrega.

L. L.

 

Lya Luft (1938-vivente), traduzioni di Emilio Capaccio

CANZONE NELLA PIENEZZA

Non ho più occhi di bambina
né corpo d’adolescente, e la pelle
traslucida da tempo s’è macchiata.
Ci sono rughe dove avevo seta, sono una struttura
allargata dagli anni e dal peso dei fardelli
buoni o cattivi.
(Ne ho caricati molti con piacere e altri per ribellione.)
Quello che posso darti è più di tutto
quello che ho perduto; ti do le mie vittorie.
La maturità che riesce a ridere
quando in altri tempi avrebbe pianto,
provare a volerti bene
quando in passato avrei voluto
solamente essere amata.
Posso darti molto di più adesso
di bellezza e gioventù: questi dorati anni
mi hanno insegnato ad amare meglio, con più pazienza
e con non meno ardore, a capirti,
se ti serve, ad aspettarti, quando vai via,
a darti ventre d’amante e affetto di compagna,
e soprattutto forza — che viene dall’apprendistato.
Questo posso darti: un mare antico e fidato
le cui maree — anche se fuggono — ritornano,
le cui correnti nascoste non portano distruzioni
ma l’interminabile sogno delle sirene.

CANÇÃO NA PLENITUDE

Não tenho mais os olhos de menina
nem corpo adolescente, e a pele
translúcida há muito se manchou.
Há rugas onde havia sedas, sou uma estrutura
agrandada pelos anos e o peso dos fardos
bons ou ruins.
(Carreguei muitos com gosto e alguns com rebeldia.)
O que te posso dar é mais que tudo
o que perdi: dou-te os meus ganhos.
A maturidade que consegue rir
quando em outros tempos choraria,
busca te agradar
quando antigamente quereria
apenas ser amada.
Posso dar-te muito mais do que beleza
e juventude agora: esses dourados anos
me ensinaram a amar melhor, com mais paciência
e não menos ardor, a entender-te
se precisas, a aguardar-te quando vais,
a dar-te regaço de amante e colo de amiga,
e sobretudo força — que vem do aprendizado.
Isso posso te dar: um mar antigo e confiável
cujas marés — mesmo se fogem — retornam,
cujas correntes ocultas não levam destroços
mas o sonho interminável das sereias.

QUESTI SONO I MIEI OGGETTI

Questi sono i miei oggetti:
hanno una patina che non è del tempo,
è il mio dolore
che li sfiora con la sua mano afflitta.
Questo è il mio viso:
occhi che, dal cercar troppo, scrutano
solamente didentro. E se tutto sfocia nella morte
allora questo è il mio destino. È là che sto andando,
speranza e protesta,
reggendo il candeliere degli amori
che mi illuminarono nella vita.

(Resisteranno, uno per uno,
al mio ultimo respiro?)

ESTES SÃO OS MEUS OBJETOS

Estes são os meus objetos:
têm uma pátina que não é do tempo,
é minha dor
roçando neles sua mão aflita.
Este é o meu rosto:
uns olhos que, de procurar demais, olham
só para dentro. E se tudo desemboca na morte
esse é o meu destino. É para lá que vou,
esperança e protesto,
segurando o candelabro dos amores
que me iluminaram na vida.

(Resistirão, singularmente,
ao meu último sopro?)

CONVITO

Non sono la sabbia
su cui si disegnano un paio d’ali
o grate davanti a una finestra.
Non sono solo la pietra che rotola
nelle maree del mondo,
rinascendo un’altra sopra ogni spiaggia.
Sono l’orecchio poggiato alla conchiglia
della vita, sono costruzione e disfacimento,
servo e padrone, e sono
mistero.

A quattro mani scriviamo questo copione
per il palcoscenico del mio tempo:
il mio destino ed io.
Non sempre siamo in sintonia,
non sempre ci prendiamo
sul serio.

CONVITE

Não sou a areia
onde se desenha um par de asas
ou grades diante de uma janela.
Não sou apenas a pedra que rola
nas marés do mundo,
em cada praia renascendo outra.
Sou a orelha encostada na concha
da vida, sou construção e desmoronamento,
servo e senhor, e sou
mistério.

A quatro mãos escrevemos este roteiro
para o palco de meu tempo:
o meu destino e eu.
Nem sempre estamos afinados,
nem sempre nos levamos
a sério.

TUTTI QUESTI ANGELI

Tutti questi
Angeli che la notte
agitano le tende e sussurrano frasi
che temi di capire:
se t’accolgono tra le braccia
se ti baciano sulla bocca,
se entrano nel tuo corpo,
non ti daranno la certezza che vivere, morire,
siano ugualmente soavi e difficili
folli e sensati, e più ancora urgenti?

Potrai alla fine amare, arrendendoti a quello
che ti sfiora con le sue ali,
ti chiama con le sue voci,
ti sferza costantemente con questa luce,
questo dolore.

TODOS ESSES ANJOS

Todos esses
Anjos que à noite
agitam cortinas e sussurram frases
que temes entender:
se te tomarem nos braços
se te beijarem na boca,
se te entrarem no corpo,
não te darão certeza de que morrer, viver,
são igualmente suaves e difíceis
loucos e sensatos , e urgentíssimos?

Poderás enfim amar, rendendo-te aquilo
que te aflora com suas asas,
te chama com suas vozes,
te vara constantemente com essa luz,
essa dor.

LA SPERANZA MI CHIAMA

La speranza mi chiama,
e io salgo a bordo
come se fosse il primo viaggio.
Se non conosco le mappe,
scelgo l’imprevisto:
qualunque segno è un buon auspicio.

Sia come sia, io vado,
Perché quasi sempre ci credo:
cammino con gli occhi chiusi
come un bimbo che gioca alla cieca.
Più d’una volta ne sono uscita ferita, o quasi affogata,
Ma non mi arrendo.

Il dolore accidentale è il prezzo della vita:
biglietto, assicurazione e pedaggio.
A ESPERANÇA ME CHAMA

A Esperança me chama,
e eu salto a bordo
como se fosse a primeira viagem.
Se não conheço os mapas,
escolho o imprevisto:
qualquer sinal é um bom presságio.

Seja como for, eu vou,
pois quase sempre acredito:
ando de olhos fechados
feito criança brincando de cega.
Mais de uma vez saio ferida, ou quase afogada,
mas não desisto.

A dor eventual é o preço da vida:
passagem, seguro e pedágio.

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Emilio Capaccio traduce Gioconda Belli

29 sabato Mag 2021

Posted by emiliocapaccio in Idiomatiche, LETTERATURA

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Emilio Capaccio, Gioconda Belli, POESIA, traduzione

Credo che il solo fatto di esistere
implichi una responsabilità verso il futuro,
verso ciò che esisterà dopo di noi.

G. B.


Gioconda Belli (1948-vivente), traduzioni di Emilio Capaccio

MAGGIO

Non appassiscono i baci
come i malinches*
né mi crescono baccelli nelle braccia;
fiorisco sempre
con questa pioggia interiore,
come i verdi patii di maggio
perché amo il fiume, il vento e le nuvole
e il passo degli uccelli canterini,
malgrado sia irretita nei ricordi,
coperta d’edera come le vecchie pareti,
continuo a credere ai sussurri trattenuti,
alla forza dei cavalli selvaggi,
al messaggio alato dei gabbiani.
Credo alle radici innumerevoli del mio canto.

MAYO

No se marchitan los besos
como los malinches,
ni me crecen vainas en los brazos;
siempre florezco
con esta lluvia interna,
como los patios verdes de mayo
y río porque amo el viento y las nubes
y el paso del los pájaros cantores,
aunque ande enredada en recuerdos,
cubierta de hiedra como las viejas paredes,
sigo creyendo en los susurros guardados,
la fuerza de los caballos salvajes,
el alado mensaje de las gaviotas.
Creo en las raíces innumerables de mi canto.

  • malinches sono arbusti di fiori rossi, simili ad orchidee che fioriscono in maggio, originari del Sudamerica.

ABBANDONATI

Tocchiamo la notte con le mani
sgocciolandone l’oscurità tra le dita,
maneggiandola come il vello di una pecora nera.

Ci siamo abbandonati al disamore,
alla svogliatezza di vivere collettando ore nel vuoto,
nei giorni che si lasciano passare e tornano a ripetersi
intrascendenti
senza orme, né sole, né raggianti esplosioni di chiarore.

Ci siamo abbandonati dolorosamente alla solitudine
sentendo il bisogno dell’amore sotto le unghia,
il vuoto di un’obliteratrice nel petto,
il ricordo e il rumore come in una conchiglia
che ha vissuto troppo tempo in un acquario di città
e si porta solo l’eco del mare nel labirinto del suo guscio.

Come tornare a riprendere il tempo?

Interporgli il corpo forte del desiderio e dell’angoscia,
farlo retrocedere intimidito
per nostra infrangibile decisione?

Chissà se potremmo riprendere il momento
che perdemmo.

Nessuno può predire il passato
quando forse non siamo più gli stessi,
quando forse abbiamo dimenticato
il nome della strada
dove
qualche volta
potremmo
incontrarci.

ABANDONADOS

Tocamos la noche con las manos
Escurriéndonos la oscuridad entre los dedos,
Sobándola como la piel de una oveja negra.

Nos hemos abandonado al desamor,
Al desgano de vivir colectando horas en el vacío,
En los días que se dejan pasar y se vuelven a repetir,
Intrascendentes,
Sin huellas, ni sol, ni explosiones radiantes de claridad.

Nos hemos abandonado dolorosamente a la soledad,
Sintiendo la necesidad del amor por debajo de las uñas,
El hueco de un sacabocados en el pecho,
El recuerdo y el ruido como dentro de un caracol
Que ha vivido ya demasiado en una pecera de ciudad
Y apenas si lleva el eco del mar en su laberinto de concha.

¿Cómo volver a recapturar el tiempo?

¿Interponerle el cuerpo fuerte del deseo y la angustia,
Hacerlo retroceder acobardado
Por nuestra inquebrantable decisión?

Pero… quién sabe si podremos recapturar el momento
Que perdimos.

Nadie puede predecir el pasado
Cuando ya quizás no somos los mismos,
Cuando ya quizás hemos olvidado
El nombre de la calle
Donde
Alguna vez
Pudimos
Encontrarnos.

SFIDA ALLA VECCHIAIA

Quando arriverò a esser vecchia
– se ci arriverò –
e mi guarderò nello specchio
e conterò le rughe
come delicata ortografia
di pelle distesa,
quando potrò contare i segni
che hanno lasciato lacrime
e preoccupazioni,
e il mio corpo risponderà
già lentamente ai miei desideri,
quando vedrò la mia vita
ravvolta in vene azzurre,
in profonde occhiaie,
e scioglierò i miei capelli bianchi
per andare a dormire presto
– come si conviene –
quando verranno i miei nipoti
a sedersi sulle mie ginocchia ammuffite
per il passo di molti inverni,
saprò tuttavia che il mio cuore
ticchetterà – ribelle –
e i dubbi e i larghi orizzonti
saluteranno ancora
le mie mattine.

DESAFIO A LA VEJEZ

Cuando yo llegue a vieja
– si es que llego –
y me mire al espejo
y me cuente las arrugas
como una delicada orografía
de distendida piel.
Cuando pueda contar las marcas
que han dejado las lágrimas
y las preocupaciones,
y ya mi cuerpo responda despacio
a mis deseos,
cuando vea mi vida envuelta
en venas azules,
en profundas ojeras,
y suelte blanca mi cabellera
para dormirme temprano
– como corresponde –
cuando vengan mis nietos
a sentarse sobre mis rodillas
enmohecidas por el paso de muchos inviernos,
sé que todavía mi corazón
estará – rebelde – tictaqueando
y las dudas y los anchos horizontes
también saludarán
mis mañanas.

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In “Δαιμόνιοι” (Creature demoniache) “di Anna Griva, la visione di Dante personaggio

16 domenica Mag 2021

Posted by maria allo in Idiomatiche, LETTERATURA

≈ 1 Commento

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Anna Griva, Dante Alighieri, Maria Allo

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In “Δαιμόνιοι” (Creature demoniache) “di Anna Griva, la visione di Dante personaggio

A cura di Maria Allo

In Se questo è un uomo Primo Levi tra gli orrori e le violenze di ogni giorno ad Auschwitz, racconta di un momento di sollievo durante una breve pausa del lavoro forzato quando traduce per un compagno francese, di nome Jean, soprannominato Pikolo, il XXVI canto dell’Inferno, dedicato all’ultimo viaggio di Ulisse e, mentre si sforza di citargli a memoria i versi di Dante, per un attimo vede <<qualcosa di gigantesco […] forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui…>>. Il testo di Dante acquista una duplice funzione: da un lato, è un frammento di cultura e di poesia che Levi ostinatamente vuole salvare dall’oblio per riaffermare nell’inferno del lager le ragioni dell’umanità e contrastare l’abbrutimento in cui gli aguzzini vogliono relegare i prigionieri, dall’altro è, con il suo finale tragico, la proiezione della morte che incombe su Levi e tutti i suoi compagni di prigionia. Tutto il libro è pieno di riferimenti all’Inferno dantesco. Questo episodio può farci capire la profondità dei significati culturali e umani acquisiti nel corso dei secoli dall’opera di Dante. Leggere le sue opere significa esplorare un affascinante paradosso tipico dell’esperienza letteraria: com’è possibile che un uomo del passato, con una visione della morale, della religione e dell’amore lontana dalla nostra, possa dirci cose attuali e vive ancora oggi? Certamente l’evento cruciale della biografia dantesca è l’esilio. I riferimenti ad esso nelle sue opere e in quelle di altri autori anche stranieri sono continui, con sfumature sentimentali e morali che variano nel tempo. Grazie al grande poeta greco, Sotirios Pastakas, ho avuto occasione di leggere un testo di Anna Griva, dedicato a Dante. La giovane promettente poetessa greca, che ha già pubblicato quattro raccolte di poesia e si è dedicata anche alle traduzioni di opere rinascimentali, nel corso del Reeding Greece 2020, durante un’intervista, sottolinea che il filo conduttore della sua poetica è l’amore per i miti antichi che costituiscono una fonte inesauribile del suo pensiero. Quanto al linguaggio, spiega che la poesia ha lo stesso potere della musica, suscita emozioni primordiali non mediate. “La poesia greca moderna è stata influenzata all’ambiente artistico internazionale, sostiene Anna Griva, il che è inevitabile dato che i giovani parlano lingue straniere, viaggiano, migrano. Direi che i poeti stranieri hanno esercitato un’influenza più significativa rispetto alla tradizione poetica greca. La poesia greca dunque fa parte di una realtà multiculturale e lo dimostra il testo selezionato, omaggio di Anna Griva, al grande Fiorentino. Le biografie intellettuali dei grandi poeti possono talvolta guidare per mano anche il lettore accorto, fornire percorsi di orientamento, di ordine nella selva dei segni e dei sensi. Se ci lasciassimo guidare da Dante e dai suoi libri, piuttosto che comunicare il rapporto tra noi e il passato, non è improbabile che riusciremmo a presentare un’immagine più viva, più variegata e più medievale del poeta e del pensatore. Nonostante dunque Dante appartenga all’ epoca medievale, mondo ormai lontano, rimane vivo e vitale, riferimento indispensabile per generazioni e generazioni di scrittori e intellettuali. Naturalmente se il lettore del tempo di Dante era profondamente sensibile alla concezione religiosa della realtà, il lettore moderno dovrà invece confrontarla con la propria sensibilità e con la propria cultura. Rapportarsi con il diverso, nel tempo e nello spazio, è un’esperienza fondamentale, che educa alla tolleranza e consente di comprendere civiltà, culture, idee antiche e lontane. Il testo di Anna Griva che mi accingo a tradurre, è tratto da Creature demoniache, pubblicato da Melani edizioni, Atene 2020, incentrato su vari personaggi storici, nei quali l’autrice vede una natura demoniaca. Nonostante il titolo, La morte di Dante Alighieri in esilio, il testo prende avvio dalla storia personale, dall’esperienza di traversie esistenziali e dal desiderio di Dante, da un lato, di riconquistare un adeguato posto nella vita cittadina senza compromessi e dall’altro, di compiere un percorso di elevazione alla conoscenza della verità, animato da un’ansia di salvezza “presagiva solo muta ansia. In questo contesto assume valore centrale il tema del silenzio e nel fondo, fortemente sfumato, s’intravede la figura del poeta in un atteggiamento di meditazione e, in lontananza Firenze, teatro dell’amore del poeta per Beatrice. Il risultato è una profonda riflessione sul valore della vita, dell’amore e della morte, analoga a quella presente nell’ opera dantesca. Grazie al potere della poesia, il particolare si fa universale, la voce del singolo si unisce al coro dell’umanità tutta e il cammino personale di Dante diventa il percorso della collettività.

https://www.culturebook.gr/kritiki-parousiasi/daimonioi-tis-annas-griva-parousiasi-apo-tin-aggeliki-pechlivani.html

1321

Ο θάνατος του Dante Alighieri στην εξορία

Δεν άκουγε πια φωνές

ούτε και βήματα

η αγορά έξω απ΄την πόρτα του

σαν να βουβάθηκε

στ’ αυτιά του μόνο έφτανε

το μέγα κύμα

που απλωνόταν και τον κρήμνιζε

στον σκοτεινό βυθό

τότε ήταν που είδε

μια δίνη πολύχρωμη

τη Φλωρεντία με ανοιξιάτικα χρώματα

παπαρούνες και μέλισσες

να συλλέγουν γύρη

κι εκείνος παιδί

ξαπλωμένος στη χλόη

χωρίς υπόνοια της κόλασης

χωρίς οσμή της Βεατρίκης

μονάχα με μια άγραφη

βουβή ανησυχία

για όσα περνούν μέσα απ΄την ύλη

και μένουν πάντα άπιαστα.

Traduzione di Maria Allo

1321

La morte di Dante Alighieri in esilio

Al mercato non si sentivano più voci

o passi

fuori dalla sua porta

come se bisbigliasse

nelle sue orecchie solo

la grande onda

che si espandeva e lo precipitava

nel fondale scuro

Fu allora che vide

un vortice multicolore

a Firenze con i colori della

primavera

Papaveri e api

che pungevano il polline

e quel bambino

sdraiato sull’erba

senza la visione dell’inferno

senza il profumo di Beatrice

presagiva solo muta ansia

non scritta per ciò che attraversa

la materia

ma rimane sempre sfuggente.

© Maria Allo

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“Lavoro” una poesia di Henry Van Dyke

01 sabato Mag 2021

Posted by emiliocapaccio in Idiomatiche, LETTERATURA, Segnalazioni ed eventi

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Emilio Capaccio, Henry Van Dyke, POESIA, traduzione

Henry Van Dyke (1852-1933)

LAVORO

Traduzione di Emilio Capaccio

Lasciatemi fare il mio lavoro giorno dopo giorno,
Nel campo o nella foresta, allo scrittoio o al telaio,
Nella chiassosa piazza o nella stanza tranquilla;
Lasciatemi scorgerlo nel mio cuore e dire,
Quando vaganti piaceri m’invitano dal devio sentiero:
«È il mio lavoro; la mia benedizione, non la mia condanna;
Di tutto ciò che vive, io sono colui dal quale
Questo lavoro può esser fatto nel modo migliore».

Non lo vedrò né troppo grande, né insignificante,
Per giovare al mio spirito e saggiare le mie capacità;
Accoglierò felice le ore del lavoro,
E felice tornerò a casa, quando lunghe ombre cadono
La sera, per divagarmi, amare e riposare,
Perché so che il mio lavoro è il più giusto per me.

*

WORK

Let me but do my work from day to day,
In field or forest, at the desk or loom,
In roaring market-place or tranquil room;
Let me but find it in my heart to say,
When vagrant wishes beckon me astray,
“This is my work; my blessing, not my doom;
“Of all who live, I am the one by whom
“This work can best be done in the right way.”

Then shall I see it not too great, nor small,
To suit my spirit and to prove my powers;
Then shall I cheerful greet the labouring hours,
And cheerful turn, when the long shadows fall
At eventide, to play and love and rest,
Because I know for me my work is best.

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Emilio Capaccio traduce Robert Frost

21 domenica Mar 2021

Posted by emiliocapaccio in Idiomatiche, LETTERATURA

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Emilio Capaccio, Georg Heym, POESIA, traduzione

La poesia è quando un’emozione ha trovato il suo pensiero

e il pensiero ha trovato le parole.

R. F.


Robert Frost, traduzioni di Emilio Capaccio

LA STRADA NON PRESA


Due strade divergevano in un bosco giallo
Pena non poterle percorrere entrambe
Essendo io un solo viaggiatore, a lungo esitai
Scrutandone una più lontano che potevo,
Fin dove si piegava tra i cespugli;

Poi presi l’altra, buona allo stesso modo
Ma aveva forse la pretesa migliore
Perché era erbosa e meno cercata
Anche se come per l’altra, il passaggio
L’avesse ugualmente segnata.

E tutte e due quella mattina erano coperte
Di foglie che nessun passo aveva annerito.
O, prenderò la prima un’altra volta!
Ma sapendo già che le strade vanno ad altre strade,
Dubitavo che sarei mai tornato indietro.

Dirò questo con un sospiro
In qualche luogo fra anni e anni a venire:
Due strade divergevano in un bosco, ed io —
Io presi quella meno battuta
E questo ha fatto tutta la differenza.
 
THE RAOD NOT TAKEN 

Two roads diverged in a yellow wood,
And sorry I could not travel both
And be one traveler, long I stood
And looked down one as far as I could
To where it bent in the undergrowth;

Then took the other, as just as fair
And having perhaps the better claim,
Because it was grassy and wanted wear;
Though as for that, the passing there
Had worn them really about the same,

And both that morning equally lay
In leaves no step had trodden black
Oh, I kept the first for another day!
Yet knowing how way leads on to way,
I doubted if I should ever come back.

I shall be telling this with a sigh
Somewhere ages and ages hence:
Two roads diverged in a wood, and I —
I took the one less traveled by,
And that has made all the difference.
 
FUOCO E GHIACCIO

C’è chi dice che il mondo finirà nel fuoco.
C’è chi dice nel ghiaccio.
Per quello che ho assaporato del desiderio
Propendo per chi va in favore del fuoco.
Ma se conosco abbastanza l’odio
Dico che la devastazione del ghiaccio
Sarebbe tanto grande
E potrebbe bastare.
 
FIRE AND ICE

Some say the world will end in fire.
Some say in ice.
From what I’ve tasted of desire
I hold with those who favor fire.
But if I know enough of hate
To say that for destruction ice
Is also great
And would suffice.
 
FERMANDOSI AI BOSCHI IN UNA SERA DI NEVE

Di chi siano questi boschi penso di sapere.
Ma la sua casa è nel villaggio;
Non mi vedrà fermare qui
A guardare il suo bosco riempirsi di neve.

Il mio puledro penserà che sia strano
Fermarsi senza una fattoria nei paraggi
Tra i boschi e il lago ghiacciato
Nella più buia sera dell’anno.

Dà una scrollata al suo campanello
A domandare se c’è un errore.
L’unico altro suono è la spazzata
Gentile del vento e il fiocco lanuginoso.

I boschi sono amorevoli, profondi e oscuri,
Ma io ho una promessa da mantenere,
E miglia da fare prima d’addormentarmi
E miglia da fare prima d’addormentarmi
.
 
STOPPING BY WOODS ON A SNOWY EVENING

Whose woods these are I think I know.
His house is in the village, though;
He will not see me stopping here
To watch his woods fill up with snow.

My little horse must think it queer
To stop without a farmhouse near
Between the woods and frozen lake
The darkest evening of the year.

He gives his harness bells a shake
To ask if there is some mistake.
The only other sound’s the sweep
Of easy wind and downy flake.

The woods are lovely, dark and deep,
But I have promises to keep,
And miles to go before I sleep,
And miles to go before I sleep.
 
LA LIBERTA’ DELLA LUNA

Ho saggiato la luna nuova curva nell’aria
Su un albero nebbioso e grappolo di fattoria
Come a provare un gioiello tra i capelli.
L’ho saggiata con la piccola ampiezza del lustro,
Sola o in combinazione d’ornamento
Con una stella di prim’acqua quasi brillante.

L’ho posta a splendere ovunque ho voluto.
Scorrendo lenta su una sera inoltrata
L’ho strappata da una grata d’alberi torti,
L’ho portata a un’acqua lucente, più grande,
E calandola dentro ho visto guazzare la forma,
Correre il colore, ogni genere di meraviglia.
 
THE FREEDOM OF THE MOON

I’ve tried the new moon tilted in the air
Above a hazy tree-and-farmhouse cluster
As you might try a jewel in your hair.
I’ve tried it fine with little breadth of luster,
Alone, or in one ornament combining
With one first-water star almost as shining.

I put it shining anywhere I please.
By walking slowly on some evening later
I’ve pulled it from a crate of crooked trees,
And brought it over glossy water, greater,
And dropped it in, and seen the image wallow,
The color run, all sorts of wonder follow.
 
UN PICCOLO UCCELLO

Ho sperato che un uccello volasse via,
E non cantasse davanti casa mia;

Gli ho battuto sulla porta le mani
Quando non ho retto i suoi baccani.

In parte mio il torto è stato.
L’uccello non era di timbro stonato.

C’è qualcosa di sbagliato con convinzione
Nel voler far tacere una canzone.
 
A MINOR BIRD

I have wished a bird would fly away,
And not sing by my house all day;

Have clapped my hands at him from the door
When it seemed as if I could bear no more.

The fault must partly have been in me.
The bird was not to blame for his key.

And of course there must be something wrong
In wanting to silence any song.

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Emilio Capaccio traduce Georg Heym

14 domenica Mar 2021

Posted by emiliocapaccio in Idiomatiche, LETTERATURA

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Emilio Capaccio, Georg Heym, POESIA, traduzione

Il sole pende enorme all’orizzonte
fiamme saetta l’arco della sera.
E il sogno della luce, alto, su tutto.

G. H.

,

traduzioni di Emilio Capaccio

 
LA QUIETE


La vecchia barca che nel porto tranquillo
il meriggio culla alla sua cima.
Gli amanti assopiti dopo il bacio.
Una pietra in fondo alla verde fontana.

Il riposo di Pizia, uguale al sonno
che a superni dèi cala dopo il banchetto.
Il pallido cero che sbianca il morto.
Criniere di nubi sopra una valle.

La pietra fattasi riso d’un tonto.
Coppi polverosi in cui resta ancora l’aroma.
Violini sfasciati nel ciarpame dei solai.
L’aria ferma prima della burrasca.

Una vela che luccica all’orizzonte.
L’essenza dei campi che attrae le api.
L’oro d’autunno, le foglie e il tronco adorni.
Il poeta che dello sciocco sente invidia.
 
DIE RUHIGEN


Ein altes Boot, das in dem stillen Hafen
am Nachmittag an seiner Kette wiegt.
Die Liebenden, die nach den Küssen schlafen.
Ein Stein, der tief im grünen Brunnen liegt.

Der Pythia Ruhen, das dem Schlummer gleicht
der hohen Götter nach dem langen Mahl.
Die weisse Kerze, die den Toten bleicht.
Der Wolken Löwenhäupter um ein Tal.

Das Stein gewordene Lächeln eines Blöden.
Verstaubte Krüge, drin noch wohnt der Duft.
Zerbrochne Geigen in dem Kram der Böden.
Vor dem Gewittersturm die träge Luft.

Ein Segel, das vom Horizonte glänzt.
Der Duft der Heiden, der die Bienen führt.
Des Herbstes Gold, das Laub und Stamm bekränzt.
Der Dichter, der des Toren Bosheit spürt.
 
DORMIVEGLIA


Frusciano le tenebre come un vestito,
gli alberi vacillano all’orizzonte.

Rifùgiati al cuor della notte,
scava dentro l’oscurità un nascondiglio
come l’ape nel favo. Fatti piccolo
nel tuo giaciglio.

Qualcosa vuol andare per i ponti,
scalpita sollevando gli zoccoli,
pallide, sussultano le stelle.

Come un’anziana si trascina la luna
da una parte all’altra
col dorso ricurvo.
 
HALBSCHLAF


Die Finsternis raschelt wie ein Gewand,
Die Bäume torkeln am Himmelsrand.

Rette dich in das Herz der Nacht,
Grabe dich schnell in das Dunkele ein,
Wie in Waben. Mache dich klein,
Steige aus deinem Bette.

Etwas will über die Brücken,
Er scharret mit Hufen krumm,
Die Sterne erschraken so weiß.

Und der Mond wie ein Greis
Watschelt oben herum
Mit dem höckrigen Rücken.
 
O, LE TUE LUNGHE CIGLIA


O, le tue lunghe ciglia,
l’acqua oscura dei tuoi occhi.
Lasciami dentro sprofondare,
discendere fin al fondo.

Come si cala il minatore alla profondità
e oscilla un lume molto tenue
sull’uscio della miniera,
per l’ombrosa parete,

così continuo a calarmi
per dimenticare sul tuo seno
ciò che in superficie riecheggia,
giorno, tormento, splendore.

Cresce fitto nei campi,
ove il vento dimora, con ebbrezza di messe,
l’alto spino delicato
Contro il cielo azzurro.

Dammi la tua mano,
e lascia che al crescer ci uniamo,
preda d’ogni vento,
volo d’uccelli solitari,

che d’estate ascoltiamo
l’organo sfiatato dei temporali,
che d’autunno ci bagniamo alla sua luce
sulla riva di chiare giornate.

Qualche volta andremo a sporgerci
sull’orlo d’un oscuro pozzo,
fisseremo il fondo silenzioso
e là cercheremo il nostro amore.

Oppure usciremo dall’ombra
di boschi dorati
per entrare, grandi, in qualche crepuscolo
che sfiori soavemente la tua fronte.

Divina tristezza,
ala d’eterno amore,
soleva il tuo boccale
e bevi da questo sogno.

Una volta approderemo alla fine
ove il mare macchiato di giallo
mutamente invade la baia
di settembre,

riposeremo a quella dimora
di fiori appassti,
mentre tra le rocce
trema un vento cantando.

E dal bianco pioppo
che s’innalza contro il cielo
cadrà una foglia annerita
a riposar sulla tua nuca.
 
DEINE WIMPERN, DIE LANGEN


Deine Wimpern, die langen,
Deiner Augen dunkele Wasser,
Laß mich tauchen darein,
Laß mich zur Tiefe gehn.

Steigt der Bergmann zum Schacht
Und schwankt seine trübe Lampe
Über der Erze Tor,
Hoch an der Schattenwand,

Sieh, ich steige hinab,
In deinem Schoß zu vergessen,
Fern, was von oben dröhnt,
Helle und Qual und Tag.

An den Feldern verwächst,
Wo der Wind steht, trunken vom Korn,
Hoher Dorn, hoch und krank
Gegen das Himmelsblau.

Gib mir die Hand,
Wir wollen einander verwachsen,
Einem Wind Beute,
Einsamer Vögel Flug.

Hören im Sommer
Die Orgel der matten Gewitter,
Baden in Herbsteslicht,
Am Ufer des blauen Tags.

Manchmal wollen wir stehn
Am Rand des dunkelen Brunnens,
Tief in die Stille zu sehn,
Unsere Liebe zu suchen.

Oder wir treten hinaus
Vom Schatten der goldenen Wälder,
Groß in ein Abendrot,
Das dir berührt sanft die Stirn.

Göttliche Trauer,
Schwinge der ewigen Liebe.
Hebe den Krug herauf,
Trinke den Schlaf.

Einmal am Ende zu stehen,
Wo Meer in gelblichen Flecken
Leise schwimmt schon herein
Zu der September Bucht.

Oben zu ruhn
Im Hause der dürftigen Blumen,
Über die Felsen hinab
Singt und zittert der Wind.

Doch von der Pappel,
Die ragt im Ewigen Blauen,
Fällt schon ein braunes Blatt,
Ruht auf dem Nacken dir aus.

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Emilio Capaccio traduce Alfred Tennyson

30 sabato Gen 2021

Posted by emiliocapaccio in Idiomatiche, LETTERATURA

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Tag

Alfred Tennyson, Emilio Capaccio, POESIA, traduzione

Spingetevi al largo, sedendo un dietro l’altro, colpite
i sonori solchi; perché il mio scopo consiste
nel navigar oltre il tramonto.

A. T.

Stammi vicino quando la mia luce è fioca,
Quando il sangue scorre lento, e pungono
E formicolano i nervi; e il cuore è rivoltato,
E tutte le ruote dell’Essere sono lente.

Stammi vicino quando l’umore dei sensi
È soffocato da angosce che conquidono la fiducia,
E il tempo, un maniaco che sparpaglia la polvere,
E la vita, una furia che catapulta le fiamme.

Stammi vicino quando la fede è prosciugata
E gli uomini, mosche di una tarda primavera,
Che depongono le loro uova, e pungono e cantano
E si strofinano le loro piccole celle e muoiono.

Stammi vicino quando mi starò spegnendo
Per marcare il termine della sofferenza umana,
E sul limite basso e oscuro dell’esistenza
Il senso arcano di un giorno che sarà eterno.
 
BE NEAR ME WHEN MY LIGHT IS LOW

Be near me when my light is low,
When the blood creeps, and the nerves prick
And tingle; and the heart is sick,
And all the wheels of Being slow.

Be near me when the sensuous frame
Is rack’d with pangs that conquer trust;
And Time, a maniac scattering dust,
And Life, a Fury slinging flame.

Be near me when my faith is dry,
And men the flies of latter spring,
That lay their eggs, and sting and sing
And weave their petty cells and die.

Be near me when I fade away,
To point the term of human strife,
And on the low dark verge of life
The twilight of eternal day.
 
CADE LO SPLENDORE

Cade lo splendore sulle mura del castello
E su vette innevate vecchie di storia;
Trema la luce, lunga lunga, sopra i laghi
E la selvaggia cateratta balza nella gloria.
Soffia corno soffia, fa’ volare echi selvaggi,
Soffia corno; rispondete echi, morenti, morenti, morenti.

O, origlia, O, ascolta! come sottili e chiari
E più sottili e più chiari e più lontano stanno andando!
O, dolci e remoti, da rupi e strapiombi
I corni della terra degli Elfi stanno suonando!
Soffia, lasciaci sentire la risposta delle valli di porpora,
Soffia corno; rispondete echi, morenti, morenti, morenti.

O amore, essi muoiono lassù in floridi cieli,
Tramortiscono su collina o campo o fiume;
I nostri echi rotolano da anima ad anima,
E crescono sempre, per sempre.
Soffia corno soffia, fa’ volare echi selvaggi,
Soffia corno; rispondete echi, morenti, morenti, morenti.
 
THE SPLENDOR FALLS

The splendor falls on castle walls
And snowy summits old in story;
The long light shakes across the lakes,
And the wild cataract leaps in glory.
Blow, bugle, blow, set the wild echoes flying,
Blow, bugle; answer, echoes, dying, dying, dying.

O, hark, O, hear! how thin and clear,
And thinner, clearer, farther going!
O, sweet and far from cliff and scar
The horns of Elfland faintly blowing!
Blow, let us hear the purple glens replying,
Blow, bugles; answer, echoes, dying, dying, dying.

O love, they die in yon rich sky,
They faint on hill or field or river;
Our echoes roll from soul to soul,
And grow forever and forever.
Blow, bugle, blow, set the wild echoes flying,
And answer, echoes, answer, dying, dying, dying.
 
LACRIME INUTILI LACRIME

Lacrime, inutili lacrime, non so cosa vogliano dire,
Lacrime dal fondo d’una divina disperazione
Vengono al cuore e s’adunano negli occhi,
Nel guardare gli allegri campi autunnali
E pensando ai giorni che non ci sono più.

Radiosi come la prima luce che riverbera su una vela
E che riporta dagli inferi i nostri compagni,
Tristi come l’ultima luce che s’arrossa su chi
È calato con tutto ciò che amiamo oltre il bordo;
Così tristi, così radiosi, i giorni che non ci sono più.

Tristi ed estranei come in albe d’una oscura estate
Il primo cinguettio d’uccelli mezzo risvegliati
Per orecchi morenti, come per occhi morenti
Il varco che pian piano s’allarga in un fievole quadrato;
Così tristi, così radiosi, i giorni che non ci sono più.

Cari come i baci che si ricordano dopo la morte
E dolci come quelli che invano abbiamo sognato
Su labbra che sono per altri; profondi come l’amore,
Profondi come il primo amore e folli d’ogni rimpianto;
O Morte in Vita, i giorni che non ci sono più.
 
TEARS IDLE TEARS

Tears, idle tears, I know not what they mean,
Tears from the depth of some divine despair
Rise in the heart, and gather in the eyes,
In looking on the happy autumn-fields,
And thinking of the days that are no more.

Fresh as the first beam glittering on a sail,
That brings our friends up from the underworld,
Sad as the last which reddens over one
That sinks with all we love below the verge;
So sad, so fresh, the days that are no more.

Ah, sad and strange as in dark summer dawns
The earliest pipe of half-awakened birds
To dying ears, when unto dying eyes
The casement slowly grows a glimmering square;
So sad, so strange, the days that are no more.

Dear as remembered kisses after death,
And sweet as those by hopeless fancy feigned
On lips that are for others; deep as love,
Deep as first love, and wild with all regret;
O Death in Life, the days that are no more!

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Il blog LIMINA MUNDI è stato fondato da Loredana Semantica e Deborah Mega il 21 marzo 2016. Limina mundi svolge un’opera di promozione e diffusione culturale, letteraria e artistica con spirito di liberalità. Con spirito altrettanto liberale è possibile contribuire alle spese di gestione con donazioni:
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