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LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

LIMINA MUNDI

Archivi tag: Cipriano Gentilino

“Poesia e pudore” di Cipriano Gentilino

15 giovedì Set 2022

Posted by Loredana Semantica in I meandri della psiche, LETTERATURA E POESIA

≈ 3 commenti

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Cipriano Gentilino, poesia e pudore

Il rapporto tra pudore e poesia è complesso come lo è per tutte le produzioni artistiche ma necessita di una attenzione particolare alle tematiche e al linguaggio principalmente per quanto attiene al rapporto tra poeta e i suoi versi e tra poeta e lettore.
Per questo iniziare con una poesia di Antonia Pozzi (scritta nel 1933) può essere interessante perché ne inquadra sufficientemente la relazione facendone vedere gli specifici risvolti storici ed evolutivi.
Antonia nasce in una famiglia alto borghese di Milano, si dedica alla poesia e durante gli studi classici si innamora del suo professore di latino e greco.
Un amore osteggiato per pudore dai genitori.
Una impossibilità che le fà decidere di porre fine alla sua vita.

Se qualcuna delle mie povere parole
ti piace
e tu me lo dici
sia pur con gli occhi
io mi spalanco
in un riso beato
ma tremo
come una mamma piccola giovane
che perfino arrossisce
se un passante le dice
che il suo bambino è bello.

Nella poesia la similitudine con una giovane mamma nasconde profondi sentimenti d’amore e grazia sia per le parole che per il bambino, i quali divengono entrambi l’altro da sé presentato con tanto pudore da arrossire perfino se un passante benevolmente li apprezza.
Poeta e madre e passante e, per, estensione concettuale, poeta e lettore e pudore.
Relazioni intime, corporee, affettive e sociali che attengono tutte alla sfera di un pudore per il quale se non è cambiata la definizione sono cambiati nettamente i limiti e la percezione collettiva.
Sembra infatti, ad una visione generale e spesso però anche generica, che del pudore sia stato dimenticato il limite tra l’intimo e il condivisibile a favore della immagine, dell’apparire e dell’esserci con una corporeità e una affettività adattabile, pronta al cambiamento, talora mercificatile e, per dirla con Bauman, fluida.
Il continuo e rapido cambiamento dei paradigmi della società globalizzata, il frenetico progresso tecnologico con nuove modalità comunicative e il sempre più debole rispetto della privacy nonché la crisi delle dimensioni locali, della tradizione e di molti ideali generano insicurezza esistenziale e frequente rifugio in una immagine di sé magmatica, adattabile, narcisa e in una comunicazione rapida e sincopata senza un tempo-spazio dialogico e quindi senza un limite tra uso e abuso.
Uno spazio che più adeguatamente Manuel Castells ha definito “spazio dei flussi” dove la presenza individuale virtuale può fluire ovunque e contemporaneamente essere oggettivata nei social network oltre la sua dimensione reale.
Si può allora concordare, con Herbert Marcuse, sulla ipotesi che la dimensione sociale virtuale e mediatica sta assimilando tutta la nostra vita e creando un nuovo mostro, un “uomo unidimensionale”, senza un chiaro limite tra essere reale ed essere virtuale, con la conseguente paura o eccesso nell’ esprimere pensieri e opinioni non legittimate e quindi senza alcuna consapevolezza e limite del pudore.
L’arte e il linguaggio nascono dalla interazione con l’ambiente e com-prendono e inventano significati veicolati attraverso i linguaggi della scrittura, così come della musica o della pittura.
Una interazione che ha i tratti distintivi dell’esperienza dell’ascolto o, per dirla con R.M. Rilke, che è quel: “Lasciar compiere ogni impressione e ogni germe di un sentimento dentro di sé, nel buio, nell’indicibile, nell’inconscio irraggiungibile alla propria ragione, e attendere con profonda umiltà e pazienza l’ora del parto di una nuova chiarezza….”
Dall’ascolto al creare e al comprendere quindi in un attraversamento dell’io dall’ambiente all’inconscio.
Un rapporto inconscio-poesia ampiamente indagato dalla psicoanalisi che vede l’arte come la attualizzazione di una sublimazione di pulsioni libidiche arcaiche perverse e incestuose rimosse ( Freud ) o come riparazione e ulteriore creazione di oggetti d’amore danneggiati ( Klein ).
Attività dell’inconscio nell’atto creativo che può quindi diventare sia oggetto di lettura psicoanalitica sia trasmissione, non consapevole, di particelle dell’io al lettore.
Il poeta e l’artista, infatti, ci ricorda Lacan, precedono sempre l’analista e arrivano a cogliere prima di lui delle verità che concernono l’essere umano e il suo rapporto con il linguaggio e, più nello specifico, precisa che “..i poeti, che non sanno quel che dicono, è ben noto, dicono però sempre le cose prima degli altri…”
(JACQUES LACAN, Il Seminario. Libro I. Gli scritti tecnici di Freud).

d’altro canto il poeta stesso lo dice :

UNGARETTI – COMMIATO 2.10.1916

“Poesia
è il mondo l’umanità
la propria vita
fioriti dalla parola
la limpida meraviglia
di un delirante fermento
Quando trovo
in questo mio silenzio
una parola
scavata è nella mia vita
come un abisso”

È quindi il poeta a porsi pubblicamente in una relazione asimmetrica alla quale il lettore partecipa solo privatamente.
Il poeta si mette in gioco dopo aver giocato con sé stesso in una partita impari con l’inconscio, col far nascere e crescere la parola, con la ricerca del perfettibile, con il parto di una poesia, con il dolore del finito, la liberazione esausta, l’attesa di un sorriso.
Non si tratta solo del labor limae, si tratta più intensamente di ricerca di sè in sè stesso e nel mondo, negli altri da sè lungo percorsi personali dove il confine tra l’intimo e il condivisibile è mobile, cangiante, talora persecutorio.
La creatività, infatti, ha bisogno di nuove sapienze e nuove consapevolezze e per questo il bordo del limite è il suo spazio tra il trans-gradire, il comporsi e il comporre.
Un incontro con la coscienza della propria nudità, non quella fisica, ma quella culturale, relazionale, esistenziale che può condurre in uno spazio del dire e del dirsi che incontra sia la vergogna che il pudore, sia per l’eccesso della spudoratezza che per la riservatezza del ritegno.
Pudore che può anche essere resistenza alla spinta spasmodica di rendere pubblica la propria immagine o ponte tra socialità ed esigenza di ripiegamento in una zona di rispetto dove l’interiorità sta’ al di là
della dimensione esteriore.
In questo senso la rinnovata consapevolezza del pudore può diventare uno strumento di indagine della poesia sulla esistenza dell’uomo nella società contemporanea.
Una ricerca che possa riuscire a dirci sia “ciò che non siamo” (Montale – Non chiederci la parola) che, forse, ciò che saremo o rischiamo di essere in futuro.
Consapevolezza e ricerca attraverso quell’αἰδώς greco che oltre a pudore e intimo ritegno indica anche responsabile e dignitoso rispetto dovuto alle proprie e altrui dimensioni sociali ed esistenziali come sembrano suggerirci i versi di Valerio Magrelli che propongono, a mio modo di vedere, la possibilità di superare il pudore del sé corporeo e del suo sé-immagine con una serena consapevolezza e, ovviamente, con ammirevole creatività.

Io abito il mio cervello
Come un tranquillo possidente le sue terre
Per tutto il giorno il mio lavoro
È nel farle fruttare,
Il mio frutto nel farle lavorare.
E prima di dormire
Mi affaccio a guardarle
Con il pudore dell’uomo
Per la sua immagine.
Il mio cervello abita in me
Come un tranquillo possidente le sue terre.

da Ora serrata retinae, Feltrinelli, 1980

Cipriano Gentilino

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Uno schiaffo da Oscar

13 mercoledì Apr 2022

Posted by Loredana Semantica in Cinema, CULTURA E SOCIETA', I meandri della psiche, SPETTACOLO

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Chris Rock, Cipriano Gentilino, oscar, Schiaffo, Will Smith

L’immagine dello schiaffo di Batman a Robin del 1965, utilizzata oggi in meme popolari su internet.

Lei mi saltò addosso e mi tirò uno schiaffo tale che mi fischiava un orecchio. Io avevo sempre sentito dire che dopo lo schiaffo di una ragazza ci volesse un ruvido bacio, e così le afferrai le orecchie e la baciai a ripetizione. 

Johann Wolfgang Goethe, Poesia e verità, XIX sec.

Lo show della serata per i premi Oscar del 28 marzo scorso è stato caratterizzato da un discusso fuori programma. Uno schiaffo dato dall’attore Will Smith a Chris Rock, uno dei comici chiamati a condurre la premiazione. La vivace reazione è avvenuta in diretta, dopo una battuta sulla testa rasata della moglie di Will, Jada Pinkett-Smith, notoriamente affetta da alopecia. La vicenda ha avuto risonanza internazionale su giornali e internet.
Non si è trattato di una scena preparata per lo spettacolo, ma di una reazione ad una battuta da body shaming che sottolineava con ironia la condizione fisica di una persona in un contesto pubblico di rilevanza televisiva mondiale.
Pare che, dopo la spiacevole battuta, la moglie abbia rimproverato con lo sguardo Chris Rock, mentre il marito è salito con decisione sul palco a dare uno schiaffo al comico, continuando poi ad inveire contro di lui, urlando frasi aggressive per niente adatte al contesto.
Un comportamento da maschio alfa in una situazione di tensione per l’attesa di un giudizio e forse anche una pubblica punizione per precedenti incomprensioni, ma messo in atto in una condizione di superiorità di ruolo e di immagine da candidato all’Oscar.
Molti hanno definito impulsivo lo schiaffo ma, data la distanza e il tempo intercorso tra la battuta e l’atto, il gesto avrebbe potuto forse essere meglio controllato e quindi inibito
Un comportamento che, sebbene non abbia comportato l’esclusione o la revoca dell’Oscar a Will Smith, è stato giudicato inaccettabile dai governatori dell’Accademy che hanno sospeso l’attore dalla possibilità di concorrere al premio per dieci anni.
Sullo sfondo il silenzio del pubblico in sala, sicuramente sorpreso, che, in un primo momento, probabilmente avrà pensato a una gag preparata per lo spettacolo, ma non è da escludere che ormai gli spettatori siano desensibilizzati alla riprovazione da un abuso di battute sfacciate e condotte prepotenti.
Curiosare tra le note biografiche dei due protagonisti della vicenda può aprire spazi di maggiore comprensione dell’accaduto e suggerire ulteriori considerazioni sulle possibili ragioni di un ricorso alla violenza verbale e fisica.
Chris Rock, nato dal secondo matrimonio del padre Julius, è il più grande di sei fratelli. A sei anni si trasferisce con la famiglia a Brooklyn e frequenta una scuola nella quale la maggioranza degli studenti è bianca, spesso si deve difendere dalle aggressioni dei compagni, così sviluppa un sistema di difesa verbale, ricorrendo, quando provocato e arrabbiato, a fulminanti battute, tanto rapide e a raffica che i presenti scoppiano a ridere.
Una difesa verbale che diviene elemento centrale della sua comicità, ma che, usata con ironia spregiudicata, può facilmente superare i limiti del rispetto dell’altro e divenire pertanto violenza verbale.
Will Smith racconta di sé nella sua autobiografia Will pubblicata nel 2021, edita in Italia da Longanesi «Quando avevo nove anni vidi mio padre colpire mia madre alla testa con tanta forza da farla svenire e sputare sangue. (…) Insita in tutto quello che ho fatto da allora (…) c’è sempre stata una sottile sequela di scuse a mia madre per l’inerzia mostrata quel giorno. Per averla delusa in quell’istante. Per non aver tenuto testa a mio padre. (…) È tutta la vita che lotto per non essere un codardo (…)» e a Chris Rock, scusandosi, dice: «Ho sbagliato. Le mie azioni non sono indicative dell’uomo che vorrei essere».
Viene da chiedersi in che senso vorrebbe essere un uomo diverso: diverso dal padre? Capace di difendere la sua donna, la madre, sua moglie, la sua donna interna?
Si è trattato indubbiamente di un episodio percepito come un atto di violenza da entrambe le parti che, in altri ambienti, ad esempio quello scolastico, avrebbe portato facilmente a parlare di bullismo. Più oggettivamente, considerate le diverse circostanze, può essere visto come manifestazione di aggressività, che induce a qualche riflessione psico-pedagogica ulteriore.
E’ probabile che il contesto possa aver favorito la tensione emotiva e con essa l’aggressività. Etimologicamente questa parola deriva dal composto latino ad-gradi, che significa “andare verso”. Questo andare verso l’altro può condurre a comportamenti positivi con finalità di cooperazione, di fare gruppo, di sentirsi parte attiva, in quanto l’altro non è ostacolo, ma co-attore, oppure all’opposto può manifestarsi in maniera negativa, connotata da violenza verbale, talvolta presupposto di quella fisica, con conseguente interruzione del flusso comunicativo positivo.
In una dimensione psicologica lo schiaffo può spezzare il giogo di una costrizione emotiva in una situazione di imbarazzo e conflittualità o avere finalità pseudo educative nei confronti dei figli e, in contesti più arcaici, delle mogli.
Senza entrare in problematiche di differenze storico-culturali è ovvio che una condizione di patriarcato favorisce, se non implica acriticamente, la punizione o/e la violenza, sia per presupposte posizioni dominanti, sia per modelli educativi.
Nello specifico ambito educativo lo schiaffo, o più in generale la violenza, può rappresentare una sconfitta del ruolo genitoriale e trasmettere un messaggio di violenza.
Non è tanto lo schiaffo che corregge ed educa quanto la sanzione non violenta e l’apprendimento dal comportamento genitoriale di valori quali il rispetto dei limiti e le regole di convivenza sociale.
Un rapporto familiare infantile o adolescenziale con aspetti di violenza c.d. tossica può rappresentare un nodo difficile da districare da adulti, mina un equilibrio che diviene più difficile da mantenere in condizioni stressanti.
Un po’ come è accaduto a Will Smith e a Chris Rock, per i quali “probabilmente” recitare permette di convivere con i fantasmi onnipresenti di recupero e di rivalsa e consente loro di metabolizzare le esperienze infantili violente o frustanti. Un equilibrio delicato e poco dinamico che per Rock si è destrutturato nell’occasione di grande visibilità di uno spettacolo preparato con estrema cura sotto ogni aspetto e, per Will, proprio nel momento più importante per una carriera di attore: ricevere un premio ambito.
Non sempre però lo schiaffo ha una connotazione negativa di aggressione fisica, ma, in situazioni completamente diverse, può avere un valore rituale e persino salvifico.
Un bell’esempio di intervento salvifico risolutore lo si trova nel racconto Aladino e la lampada meravigliosa, dove una grossa sberla da parte del mago fa superare ad Aladino la paura. Egli così si rende conto della possibilità di trovare la ricchezza alla quale aspira.
Finalità salvifiche hanno alcune diffuse pratiche a carattere impattante per provocare una reazione psico sensoriale, come lo schiaffo dato per tentare di contenere una crisi di panico o le c.d. crisi isteriche e quegli stati di incipiente agitazione con aggressività etero o auto diretta, così come lo schiaffo che si accompagna ad altre stimolazioni sensoriali per tenere cosciente un paziente prima dell’arrivo dei soccorsi medici.
In questo ambito non è da tralasciare il classico schiaffo per fare tornare la memoria dopo uno shock psichico traumatico o quello dell’infermiere che lo somministra ai bambini sulla pelle prima di inserire l’ago di una iniezione intramuscolo per distrarli, sedare la paura e come forma di anestesia locale.
Ma oltre che con valore salvifico lo schiaffo è presente anche in pratiche rituali antiche o più recenti.
In autori tardoantichi e cristiani viene citata la Alapa (etimologia presunta dall’aramaico allap) usata per indicare lo schiaffo col quale il padrone “addomesticava” lo schiavo oppure la Alapa Militaris ch’era lo schiaffo di iniziazione del militare romano.
Nel rito del sacramento della cresima cristiana è presente lo schiaffo col valore di saluto e accettazione. Il vescovo col un piccolo schiaffo conferma l’accoglienza del cresimando nella Chiesa ed esprime l’incoraggiamento e il monito simbolico di prepararsi anche a sopportare violenze o umiliazioni per essere un autentico soldato di Cristo, secondo l’ insegnamento evangelico: “A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra”, Luca 6,27-31

Carl Bloch, Cristo deriso da un soldato, 1880

In ambito di riti religiosi a Trabia in provincia di Palermo, fino agli anni Settanta resisteva una singolare liturgia religiosa.
Durante il rito del venerdì santo, quando il celebrante leggeva dal Vangelo di Giovanni l’episodio dello schiaffo dato da una guardia a Cristo per avere osato rispondere al sommo sacerdote, le persone in chiesa cominciavano a darsi reciprocamente ceffoni o meglio timbulate, uno dei modi di dire schiaffo in dialetto siciliano. Un altro modo di chiamare lo schiaffo in siciliano è liffiuni (schiaffone da fare addormentare) dall’arabo afium (oppio), altrimenti può chiamarsi timbuluni, etimologicamente derivante dal greco tiupto (τύπτω) batto o, più evocativamente, da timpanìzo (dal greco τυμπανίζω), battere il timpano nel gioco del timpulu (battere la porta per la conta). Il popolare gioco del nascondino alla siciliana, giocato cioè con l’ausilio di un tamburo.
Oltre allo schiaffo di accoglienza c’è quello di congedo, per esempio, nell’antica Roma, quello ad vindictam dato al liberto in presenza del pretore, o più semplicemente quello che da carezza diventa piccolo schiaffo nel congedarci dal discente, dal paziente, dall’amico e scherzosamente dal lettore… sulla guancia. Un buffetto o poco più col quale si esprime simpatia, confidenza o affetto per l’interlocutore.

Cipriano Gentilino

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“Parabole” di Cipriano Gentilino. Una nota di lettura di Loredana Semantica.

03 mercoledì Nov 2021

Posted by Loredana Semantica in LETTERATURA E POESIA, Recensioni, SINE LIMINE

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Cipriano Gentilino, Loredana Semantica, Nulla die, Parabole, poesia contemporanea, recensione

Cipriano Gentilino è affezionato lettore di questo blog e scrittore di poesia. Ci ha inviato la sua ultima pubblicazione “Parabole” che ha appena visto la luce nella Collana “I Canti” della casa editrice “Nulla die”.
La raccolta è un’antologia di cinquanta poesie, aventi ciascuna il proprio titolo, dalla prima “Parabola” all’ultima “E infine”. Parabola non è solo la poesia che apre la silloge, ma anche quella a cui l’autore ha dato al singolare il titolo col quale, ricorrendo al plurale, nomina l’intera opera.
In genere con la parola “parabola” s’intende riferirsi al Vangelo e alla predicazione di Gesù il quale ricorreva appunto alle parabole, cioè alla narrazione di episodi facilmente comprensibili, per spiegare concetti ben più complessi ai quali ammaestrava le folle e gli apostoli che lo seguivano. La parabola è un procedere per similitudini o esemplificazioni. Analogamente potremmo ipotizzare che Cipriano Gentilino abbia fatto ricorso alla poesia come strumento più idoneo – sintetico, catartico, evocativo – per veicolare vicende che, narrate altrimenti, non avrebbero potuto trovare la giusta angolazione di lettura, banalizzate dall’oggettività di un racconto asettico, cronachistico o travisate nell’ipertrofia del romanzo. Non si tratta pertanto di una reale semplificazione, quanto piuttosto di una nobilitazione nella quale il rimando al Vangelo, al cristianesimo, alle parabole di Gesù, potrebbe anche far pensare all’atto caritatevole di raccogliere e metabolizzare. Accogliere e consolare. Ricevere e trasformare. In un abbraccio tanto poetico quanto pudico, ammantato dal velo discreto e scardinante del dire in versi.
La poesia iniziale adombra probabilmente la matrice dell’intera raccolta – la sofferenza – e nel commento in corsivo (Maria, sopravvissuta al manicomio criminale, angosciata mi chiese: “fai parlare queste parole”) – l’intento – che si trasfigura nelle successive poesie diventando una narrazione del travaglio umano, “a cercare parole/ come se ancora ne avessimo”
Far parlare le parole è il mestiere del poeta che trae dall’esperienza quegli incontri, approfondimenti, complessità, che mescolano pensiero, natura, memoria in un mix orchestrato nei suoni, elaborato nelle costruzioni e articolato nei versi in modo da restituire suggestioni, delineare arabeschi verbali e trasmettere un senso che l’autore spera trovi l’attenzione di un lettore, e poi nel lettore quell’ accoglimento che restituisca una risposta “a cercare parole/come se ancora ne avessimo”, giusto come tentano queste righe di commento.
L’intera raccolta è dedicata “Ai migranti”. Cioè alle figure che in questi ultimi decenni rappresentano agli occhi del mondo la deriva umana, la fuga, lo sradicamento, la tragedia, e di contro sono portatori di un desiderio di pace, benessere, felicità e riscatto così brucianti, da spingere intere famiglie, compresi bambini o donne incinte, a rischiosi viaggi per raggiungere mete improbabili, idealizzate come l’Eldorado. Accade, e non proprio di rado, che questi viaggi si trasformino in episodi di disgrazia e lutto, nella quasi totale indifferenza del resto del mondo. Quel mondo che più facilmente che affrontare e risolvere chiude gli occhi. Per alcuni questa indifferenza è più colpevole che per altri, coloro che si muovono e hanno ascolto sulla scena politica nazionale e internazionale certamente dovrebbero e potrebbero impegnarsi maggiormente. I più essendo impotenti e comunque tutti consapevoli che si agitano forze molto grandi e controverse sulle quali il singolo e anche i gruppi, lo stesso potere politico ben poco possono. Per essere più concreti non è semplice pacificare gli stati di guerra, intervenire sul processo decisionale dei leader estremisti, sulle ragioni dei conflitti che nemmeno la diplomazia è in grado di stemperare.
Per tornare al lavoro di Gentilino ben venga dunque questa dedica che mette in risalto, con una sola parola, una piaga del nostro tempo.
Essa illumina di luce drammatica ogni testo poetico contenuto nella raccolta. Diventa la chiave per aprire alla comprensione: l’insufficienza delle parole della prima poesia, l’incontro con l’archetipo della madre generatrice, con la figura femminile, con le lucciole e i clochard, con lo stupro e gli abusi che tanta parte hanno nell’esperienza di creature che fuggono da scenari di guerra, di sfruttamento, di povertà o degrado. Esse echeggiano in “Venere Ericina”, in “Concavi” e già nelle prime composizioni della raccolta: “Notre dame”, “Dictaturae”, “Aironi” “Non abbiamo saputo”.
Quest’ultima in particolare ci inchioda al rammarico per l’incapacità di riconoscere e dare sollievo alla sofferenza.

Non abbiamo saputo
sentire nel vento
il lamento dei cristi
sui golgota,
né le rose selvatiche
sfuggite al tagliaerba,
distratti anche ora
che piove già il rimpianto.

Un testo che flagella il lettore non meno di “Profughi”, che, nel concreto riferimento allo stato d’animo dei profughi, potrebbe d’altra parte anche esprimere la condizione accomunante ogni essere che ha perduto il proprio Eden.

Scrosciati dalla terra,
decimati,
consumati,
degradati,
siamo tornati a casa,
profughi.

L’occhio del poeta si posa ancora sul disagio degli ultimi, disadattati ed esuli sulla terra, in “Concavi”.

Siamo concavi
di silenzio rugoso
stridio di clochard
senza cielo e coperte,
crepe di rimpianti
nel fiato trattenuto
sui vetri all’occaso.

Ultimi e umili ai quali, talvolta, nemmeno coloro che sarebbero deputati a dare conforto, chiusi nei loro “confessionali ipocriti”, sono capaci di dare aiuto. Credo sia questo il senso di “Né padri né madri”.

I titoli delle poesie spesso sono ripetuti nel corpo delle stesse, ma non sempre lo rendono più chiaro, anzi lo arricchiscono di mistero, essendo dettati da reminiscenze che si agganciano al “caso poetico” per vissuto personale o culturale dell’autore. Il lettore quindi è sollecitato alla ricerca dei possibili significati del lemma o della locuzione che costituisce  il titolo in rapporto al testo.
Nel caso specifico ad esempio dire “concavi” i clochard, quando notoriamente concavo si oppone a convesso ben potrebbe esprimere l’opposto dell’impermeabilità in un continuo riempirsi di rifiuti, insaccare umiliazioni, inzaccherarsi d’acqua che piove dal cielo. Il cielo a volte non copre e le coperte non bastano mai.
Le poesie della raccolta posseggono tutte i pregi della brevità e della ricchezza lessicale alle quali si contrappone una certa asciuttezza del testo che non indugia in descrizioni e particolari ma delinea con precisione netta l’argomento, il sentimento; rapidamente giunge al suo cuore e l’inchioda.

La precisione rispecchia probabilmente l’attitudine dell’autore, che è medico psichiatra, e come tale deve esaminare il caso clinico, sfrondandolo di tutto il superfluo per focalizzare l’essenziale e pronunciare una diagnosi, fornire un parere. Centrare l’attenzione al nucleo problematico è la necessaria premessa dell’individuazione del rimedio, cioè della cura, consapevoli – medico e paziente –  che “In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione…”, così Franco Basaglia, riportato da Gentilino nella raccolta.

Mi  sovviene, a proposito del peso che ha la professione nell’espressione poetica, Gottfried Benn, poeta tedesco, medico anatomo patologo, che nelle sue poesie offriva al lettore inquietanti e precise visioni del suo tavolo operatorio e della sala circostante, a conferma che la professione non è indifferente nel lessico e nel portato testuale del poeta, anche nella scrittura di Pessoa, che faceva traduttore, ci sono chiari riferimenti al mondo lavorativo, altrettanto per Pavese e ciò per dire solo i primi nomi che mi tornano in mente.

Alla caratteristica di esprimersi con sintesi di Gentilino che, ritengo, come ho detto sopra, scaturisca dall’esperienza professionale, s’affianca un’altra inclinazione, più sotterranea, data dalla sensibilità poetica per la quale l’individuazione dell’indicibile corre parallelo all’evidente e non può essere detto se non poeticamente, cioè solo con la trasfigurazione dell’elemento parola in composizione significante-evocatrice.

Talvolta il filo conduttore della raccolta – che è di attenzione ai disagiati – sembra interrompersi per qualche ben riuscito inserto di composizione che sonda l’intimo e si distende in un gesto di tenerezza verso l’altro.

Vieni,
siediti accanto a me,
verrà presto il buio.

Dormi il filo
del tuo sogno.

Troveremo l’uscita.
Siamo già noi
labirinti.

oppure quando, giocando sul filo dell’ironia o strizzando l’occhio dell’allegria, prospetta una serata in compagnia di illustri scrittori e studiosi della psiche.

A est di Freud,
dietro il vetro
rifratto,
aspetta anche
Jung
ma resto a casa
questa sera,
bevo birra
a Dublino
con Joyce,
domani
scaffale a sud
con Luigi e altri sei
e poi tutto Lacan
a luci spente!

Singolare che spesso si ritrovi nei testi la descrizione di paesaggi tipicamente mediterranei con gli effluvi dei gelsomini, la rugosità argentea degli ulivi, la fragranza dei capperi, quando l’autore vive a Mondovì in Piemonte. Egli però è originario di Erice, l’incantevole borgo in provincia di Trapani, il che tuttavia non ci dice se questi siano lacerti delle memorie proprie o, com’è più probabile, almeno in alcuni casi, il frutto dei racconti d’altri. Convince tuttavia questa natura disseminata nei testi perché concorre con potenza a fare da contraltare alla durezza dei temi trattati, allo sconforto che scaturisce dall’osservazione delle piaghe della condizione umana.
L’ultima poesia “E infine” racconta un posarsi sulla terra, con gli alberi, le rose, un melo rosso in un ritorno a far parte della natura che è la conclusione di un percorso, non solo poetico, non solo proprio.
Devo dire, approssimandomi alla conclusione di questa breve nota di lettura, che mi ha sorpreso che la raccolta “Parabole” mancasse di una prefazione o di una nota di commento. L’introduzione ai testi di un autore costituisce per chi si accinge a leggerli, specialmente se profano, ma anche per chi frequenta la poesia e la critica poetica, un veicolare significato, un ausilio alla comprensione, un sottolineare la specificità dell’autore, le caratteristiche della scrittura, la storia personale, la tematica trattata, il backround dal quale scaturisce la parola. E’ un approfondimento utile in molte direzioni anche, non ultima, quella di esaltare nella giusta luce la poesia, cioè la forma letteraria più profonda e autentica. Ora vero è che si potrebbe obiettare che la poesia parla da sé, che essa sussume tutto quanto l’autore ha da dire nella migliore e più sintetica forma possibile, ma appunto per questo lo sforzo di chi la legge, senza i riferimenti costituiti da una prima lettura compiuta e filtrata da un lettore qualificato, credo sia maggiore e la comprensione rischia d’essere superficiale.
Aggiungo che non solo mi ha sorpreso che per Cipriano Gentilino e per “Parabole” non ci fossero note introduttive e/o postfazioni, ma mi ha sorpreso ancora di più perché la sua scrittura merita attenzione. Sarebbe certo improprio parlare di attesa di una maggiore maturità per Cipriano, non solo per l’età dell’autore, ma anche perché è evidente che egli ha una notevole esperienza dell’esistenza e dell’esistente, una certa padronanza dello strumento poetico e rivolgersi alla poesia risponde a una sentita esigenza che, a mio avviso, dà buoni frutti.
Forse sarebbe stata opportuna una sistemazione delle cinquanta poesie in partizioni ragionate dell’opera, come i paragrafi, titolati opportunamente, in modo da favorire una lettura più organica e articolata delle poesie; un’organizzazione del genere potrebbe comportare un ordine diverso rispetto alla sequenza attualmente proposta.
Concludo con un accenno al dialetto isolano siculo, l’unico palese nella raccolta, e, precisamente, nella poesia “Dumani si viri”, nella quale il primo verso suona: “Dumani si viri soccu agghiorna”, traducibile in “domani all’alba si vedrà cosa succede”. La poesia è preceduta dalla citazione di Leonardo Sciascia “Come volete non essere pessimista in un paese dove il verbo futuro non esiste?”. Ecco probabilmente Cipriano Gentilino, pur essendo vissuto per tanto tempo in provincia di Cuneo, non ha mai perso le stimmate della sicilianità: la riservatezza, l’essenzialità, il pessimismo, la sfiducia, il senso di fratellanza, l’accoglienza, e solo ultima – appena un barlume – la speranza . E quel che è più triste è che ha ragione. Ancora adesso, è così, come dice Sciascia e purtoppo, ormai,  non solo in Sicilia.
E lo vede bene la sua poesia col respiro internazionale degli occhi multietnici. lo vede e lo dice con la consapevolezza di “Ave madre”

Ave madre di ebrei,
tutsi, hutu e twa,
madre delle madri
di curdi, armeni
e schiavi neri
madre che ci hai partorito
senza memoria
solo pelle nuda unta di te.

Biografia

Cipriano Gentilino ( Erice, 1953 ) vive a Mondovì . Dopo il liceo Classico e la laurea in Medicina si è specializzato in Psichiatria.
Operativamente partecipe alla riforma basagliana si è occupato di deistituzionalizzazione, cura e riabilitazione di persone sofferenti per gravi disturbi psichici.
Formatosi in Psicoanalisi di gruppo è stato docente incaricato di Psichiatria – Università Torino e Responsabile di un Centro di Salute Mentale.
Attualmente si occupa di psicoterapia di gruppo.
Interessato sia ai linguaggi del mondo interiore che alle tematiche sociali amministra un blog di poesia.
In tale ambito ha partecipato all’e-book -Soffi di Poesia- curato e pubblicato dalla poetessa Silvia de Angelis e all’e-book -Facciamo due passi incauti -su Libri amArgine curato dal poeta Flavio Almerighi .
Ha pubblicato poesie sulla rivista Ispirazioni e su riviste letterarie on-line.
Ha auto pubblicato l’e-book Pareidolie su Amazon.
Con Oèdipus ha pubblicato -Versi nel retrobottega – ed ha in corso di pubblicazione – In attesa di risacca-
Con Nulla Die nel settembre 2021 ha pubblicato – Parabole.

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