Intervista di Patrizia Destro a Silvio La Corte su “Antropocenere”, Mimesis edizioni, 2022

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Le domande sono formulate da Patrizia Destro, in corsivo le risposte di Silvio La Corte

  • Parlaci della tua pubblicazione. Come hai avuto l’idea per un romanzo così particolare e impegnativo?

Io non ho mai avuto grossi problemi a scrivere. La politica è stata la mia seconda scuola. Scrivere volantini che potessero essere comprensibili per le persone meno istruite è stato per me un esercizio enorme, a cui ho sempre tenuto molto. Ma il romanzo è un’altra cosa. E i dialoghi non sapevo proprio come inventarmeli. Ancora una volta mi è venuta in aiuto la musica. Avevo letto tempo prima un romanzo vero, di Michele Mari, “Rosso Floyd” strutturato in un modo più o meno simile ad “Antropocenere”, con tutte le proporzioni del caso, ovviamente. Insomma ho copiato, sfacciatamente.

  • Come nasce la tua scrittura? Che importanza hanno la componente autobiografica e l’osservazione della realtà circostante? Quale rapporto hai con i luoghi in cui sei nato o in cui vivi e quanto “entrano” nell’opera?

Il libro, perlomeno questo, è uscito da dentro di me, cuore, cervello e pancia, poco alla volta. Mi ero ritrovato in mano “La bolla olimpica”, la mia prima opera, quasi senza saperlo. In quel libro facevo i conti con me stesso, con la mia passione, lo sport, che per lungo tempo è diventato anche il mio lavoro. Ho scritto per me. Anche questo l’ho scritto per me, ma facevo i conti con mio padre, lavoratore edile, o meglio, muratore, degli anni ’50 e ’60 qui, nella periferia di Milano. Quando ho iniziato a scrivere non avevo proprio idea di come sarebbe andato a finire. Ho scritto le prime pagine immedesimandomi per due o tre giorni nel protagonista. Andavo in giro pensando ad altro, talvolta insultandomi, umiliandomi, insorgendo, riflettendo, scherzando come fanno i miei personaggi, solo col pensiero, ovviamente. E ho scoperto che pensare al femminile non è impossibile. Mano a mano i personaggi facevano capolino nella mia testa. Onestamente ho cominciato anche a divertirmi, pur scrivendo di situazioni tragiche. E quando proprio ero in difficoltà, sniffavo la musica, mi facevo di musica, letteralmente. Brani che nulla avevano a che fare con quello che stavo scrivendo riuscivano spesso  a farmi superare la momentanea difficoltà. Non so perché, ma è così.

  • In che modo pensi che il tuo romanzo sia necessario o utile nel panorama letterario attuale e perché?

Non sono affatto sicuro che questo libro sia necessario e utile. Ho soltanto voluto scrivere le cose come stanno, scrivere la verità, per come la conosco io, senza minimamente calcare la mano, non ce n’è bisogno, purtroppo. Se dire la verità è utile, allora sì, questo libro è utile.

  • Come lo hai scritto? Con sistematicità a orari prestabiliti oppure quando potevi, magari anche di notte, quando c’è più silenzio e tranquillità? Come ti sei organizzato per raccogliere i numerosi dati necessari alla stesura?

Come scrivevo  prima, scelto il personaggio che irrompeva nel dibattito, mi  immedesimavo in lui, o lei, e per due o tre giorni. Andavo avanti così. Poi il pezzo ti viene fuori, alcune volte letteralmente l’ho vomitato, è stato quasi un processo fisiologico. A volte mi pareva che la penna, rigorosamente a inchiostro liquido, scrivesse da sola. Mi piace così, cerco di scrivere anche benino da un punto di vista grafico. Quasi sempre scrivevo la sera, dopo le 23. Spesso la notte nel sonno mi arrivavano, non so come, dei suggerimenti che al mattino inserivo nel testo, e poi riportavo il tutto sul computer. Non avevo fretta, non volevo scrivere sciocchezze e quindi ho letto attentamente, quasi studiato in certi casi, una ventina di libri, che stupidamente non ho riportato in fondo al libro. Pazienza.

  • Nel tuo romanzo si avvicendano molti personaggi, sia realmente esistiti  che immaginari. Il romanzo stesso è disseminato di indizi dai quali si possono dedurre le identità di alcuni di loro,   come pure di citazioni   e  brani  di  testi  musicali.  Una  lettrice  ci  ha  riferito  che  queste   particolarità   alleggeriscono l’impegno emotivo richiesto dalla lettura. Sei d’accordo con questa opinione? Questi elementi  sono stati utili anche a te per alleggerire anche solo di un poco la trattazione di temi e fatti così drammatici?

Sì, mi sono divertito a far dialogare tra loro personaggi che nella vita reale probabilmente non lo hanno mai fatto, forse non si sono neanche conosciuti. Alcuni addirittura erano già morti quando altri non erano ancora nati! Ma il romanzo, non il mio, il romanzo in sé, è meraviglioso da questo punto di vista, bisogna solo stare attenti a non esagerare a meno che non si voglia consapevolmente scivolare nel “fantasy”, e io no, proprio non volevo. E giocare con i brani mi diverte ancora di più. Quanta fantasia e quanta realtà? Lo scopriremo solo vivendo!

  • La copertina e il titolo: come hanno avuto origine?

Ero in Sardegna, nell’estate del 2021, quando sulla costa occidentale si sviluppò uno degli incendi più impressionanti, per quanto sia abituato, frequentando quella regione da quasi cinquant’anni: la cenere, spinta dal maestrale che aveva soffiato sull’incendio, arrivò anche da noi. Scrissi un post che era solo una foto. Andai a letto e prima di addormentarmi il titolo del post  venne fuori. Poi lo trasferii al libro. La copertina, un campo di calcio  intriso di petrolio, è opera della casa editrice. Azzeccatissima.

  • Come hai trovato un editore?

La casa editrice, Mimesis, è la stessa che ha pubblicato “La bolla olimpica”. Mi ha rinnovato la fiducia. Spero di non essermela giocata tutta.

  • A quale pubblico pensi sia rivolta la tua pubblicazione?

Francamente non lo so. Una sola volta l’ho presentato in una libreria e ne ho vendute sei copie, solo a donne. Non credo dipenda dal mio fascino: il fatto è che entrarono solo donne! Onestamente pensavo che durante i mondiali sarei stato invitato qualche volta a presentarlo, ma non è andata così, o meglio, una sera, in Statale l’ho presentato. Solo quella volta.

  • In che modi stai promuovendo il tuo libro? Vuoi raccontarci qualcosa anche delle tue opere precedenti?

Io non promuovo i miei libri. Forse sono orgoglioso, forse non so come fare, forse mi viene il dubbio di farne un’opera commerciale e questo è proprio quello che non voglio. Io sono un autore, non uno scrittore, non vivo delle mie opere, per fortuna.

  • C’è   un   passo   del   tuo   romanzo   che   ritieni   più   riuscito   o   a   cui   sei   più   legato   e   perché?

A pagina 57, un personaggio, Perla, si lascia andare, tant’è che inizia a raccontare con  una frase che è tutto un programma: ”Che notte, ragazze!”. E poi va avanti per quattro pagine svelando di come abbia trascorso le ore notturne insieme a John Lennon. Lì mi sono davvero lasciato andare io, e di conseguenza lei, Perla. Mi sono  divertito un sacco, lo ammetto. Spesso vado a rileggerlo mentre ascolto in sottofondo il brano che lo intreccia.

  • Che aspettative hai in riferimento a  quest’opera?

Mi aspetto che non passi di moda, che qualcuno continui a farne riferimento, che qualcuno lo riscopra.

  • C’è una domanda che faresti a te stesso su questo tuo lavoro e che a nessuno è venuto in mente di farti?

Sì, certo, una domanda ce l’ho, ed è la seguente: ma tu, quando è scoppiato lo scandalo della corruzione al Parlamento europeo relativamente al paese ospitante i mondiali di calcio del 2022, già le sapevi quelle cose? Perché a leggere alcuni passaggi, sembra proprio così!

  • Quali sono i tuoi progetti letterari futuri? Hai già in lavorazione una nuova opera e di che si tratta? Puoi anticiparci qualcosa?

Ora devo fare i conti, mettermi in pace del tutto con mia madre, con la quale ho sempre avuto un rapporto amorevole e senza grandi contrasti. Sto scrivendo qualcosa, per me e per lei. Mia madre ha avuto la fortuna di vivere a lungo, ma aveva sempre a cuore tutti quelli che sono morti in giovane età, tra quelli che lei ed io conoscevamo. Ecco, questo è il centro del progetto, qualcosa ho già scritto,  vedremo….

Silvio La Corte, nato a Taranto nel 1954, si è trasferito nei sobborghi milanesi alla fine degli anni cinquanta. Ha conseguito il diploma universitario presso L’Istituto Superiore di Educazione Fisica (ISEF), e ha insegnato Educazione Fisica nelle scuole secondarie di primo grado. Ha collaborato per dieci anni con una cooperativa di recupero di persone con disagio. Politicamente attivo, ha curato e contribuito personalmente alla stesura del libro La bolla olimpica (2020)

Rita Pacilio, “Come fosse luce”, Macabor, 2023

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In copertina: Rita Pacilio, fotografia di Lucia Pinto

 

da Luna stelle… e altri pezzi di cielo, 2003

 

Si dice che solo il dolore

conosce ciò che non dura

eppure sull’orlo del pozzo

alita la memoria del viaggio

e lentamente mi sorprendi

tra i libri, là dentro mi annusi

da cacciatore insonne

per abitare tempo e anima.

Torniamo spesso nelle cose passate

come si fa con i sogni taciuti

un planare basso sulla terra

per amare le immagini rimaste.

 

Chi è stato innamorato

sigilla

grandi tempeste e silenzi sapienti

passa piegato, sopporta, si inginocchia.

Chi è stato innamorato dà un senso a ogni cosa

sa tornare, sa rimanere.

*

Vengono e vanno di bocca in bocca

i baci sulla lapide, colpi di unghie

risvegliano inquietudini lente

il sonno e la verità di chi non canta più.

Allora bisogna aprire le braccia

spiegarsi a vela sull’onda dopo la morte.

Un uccello in fuga, sì, una capriola nell’aria

essere testimone assoluto di oblio

e nuvole lattose. Conquistare il coraggio

la forza di vivere oltre l’epigrafe.

 

da Ciliegio forestiero, 2006

 

Vedessi come affonda il coltello feroce,

nella carne trasfigurata. Penetra

dietro la pupilla ferisce i desideri

in ombra.

Vedessi come taglia lentamente

la bocca che ribolle gocce sapide e sangue.

 

Cosa hai udito nella conchiglia,

l’onda che ritorna, il suo odore?

Forse la profonda voce del dio del vento

con la lancia in mano?

*

Non domandarti le foglie che ho riempito i rami

o il succo di ciliegia sulla bocca.

Non importa il tempo

delle radici in terra feconda

non sarà lì che torneremo amanti.

Ha avuto un senso il tronco

e l’intaglio delle parole.

 

Fino a terra

confessione segreta dell’ultimo atto

nell’incavo delle spalle si è posato

lo sfioramento d’ala

due anime le nostre tra succose ciliegie forestiere.

 

da Tra sbarre di tulipani, 2008

 

Lei sta morendo

nel verde del suo sguardo

quanto di pioggia in mare.

 

Pioggia di fine estate

fuori dal seno pieno.

Tremolante tra le begonie

sul balcone.

 

Lei sta morendo

nei fili d’erba

quanto dita e fiori di cespugli.

 

Di lei resteranno le cose cancellate.

 

da Gli imperfetti sono gente bizzarra, 2012

 

Sputa i suoi drammi

coi colpi di tosse

per gioco, per amore

scorie sottili nelle mani esibite

 

è latente lo scontento sulle spalle

 

gli imperfetti sono gente bizzarra

lasciati nell’arena, non so dire esattamente,

come un silenzio, un ghigno.

Ho pensato che Dio ama l’insicurezza

e le sfumature dei dirupi.

 

Io mi trovo qui dove non si torna indietro.

*

La prigione di mio fratello

ha le finestre sorde

esala l’anima ancora sbalordita

dalla paura del lampo

suoni di saluti nella campana

a morte

e sul collo il respiro che non vuole finire.

 

L’ecatombe ogni notte si maschera

impaziente il mormorio nei reparti

è illecito l’omaggio agli dei

si arriva sempre presto sottovento

menzogne e sacrilegi nascosti.

 

La prigione di mio fratello

è oracolo timido

probabile occhio spia

una pietra desolata

nella recinzione gli uccelli dormono

di là

nessuna barca esiste più.

 

da Quel grido raggrumato, 2014

 

Lei è la maschia forza che risorge

dalla morte, sotto il porticato c’è

la festa alle viscere rancide

e la consolazione dalla tenebra.

È faticoso buttare i languori

quel primo seme raggrumato

largo, tornito, ricolmo nella gonna

colpita.

Quella sera erano una folla profanata

un tetto che soccombe molle, senza luce

tumefatto di collera.

 

Quella che hai amato

io l’ho uccisa

l’ho scucita lungo la schiena

le ho tirato via la carne

succhiato il sangue

l’ho stesa sul lenzuolo:

è lei stessa quel Cristo feroce.

 

da L’amore casomai, 2018

 

E ti rispondo dal fulmine nelle nuvole

dalla misura della mano cento metri più su

spingendo il parapetto nelle fughe a tre voci

è qui che gli aquiloni si riavvolgono

di fronte alla lampada sconsolata.

Ricordo l’odore dell’anima emorragica

quando lei e le altre mutarono in frammenti

inghiottite nel bruno solitario.

Ti accoppiasti alla tazza mentre inciampavo

nel rombo verde dell’anello

questo potrebbe essere tutto, invece le forme

delle lodi ebbero colori pallidi e furono dolci

i brandelli del luneggiare.

Così ci addormentiamo nella direzione della terra

a orecchie fredde a scaldare le mani.

 

da La venatura della viola, 2019

 

Qualcosa di troppo accresce

l’orgoglio e la colpa di essere nati qui

in questo garbuglio di allarmi profondi

dove porti in rovina e chiusi come porte

rendono l’acqua inutile e il tramonto povero

se esistesse l’origine di una parola

dovremmo baciare la sabbia e le conchiglie

farlo in segreto, silenziosamente

tracciare una virgola dopo l’apparenza

allargarci sul gambo come fa la viola.

 

da Quasi madre, 2022

 

Lasciata nel riflesso come un filo

legato a una vertigine

sfrangiata da piccole pieghe

lei

si adorna di sogni avvampati.

Mia madre riflette cicli di giorni

e notti rimestando dialoghi

platonici, i silenzi del destino.

Se la verità non avesse segreti

avrebbe la tua limpida voce,

giardini fioriti, la porta aperta.

La senti? Ha detto qualcosa?

La divinazione è nel lampo,

nel morso di un ultimo bacio.

 

Potessi ricordare una carezza

quel poco amore che era tutto

per raggiungerti.

Potessi smettere di sentire l’odio

che agiti nella testa vecchia,

mi chiami tre volte, mai con il mio nome.

 

Testi tratti da Rita Pacilio, “Come fosse luce”, Macabor, 2023. Poesie e antologia critica con un saggio introduttivo di Mara Venuto.

 

Poesia sabbatica: -27-

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-27-

 

è stato lungo il viaggio

per arrivare a te

(ho avuto contro il vento

ho avuto contro il tempo

e a maledirmi un dio

quando ho spiegato vele)

 

ho attraversato mari

e vuoti siderali,

bevuto fino in fondo

l’abisso nei bicchieri,

provato ad ogni morte

un po’ della mia morte

 

ho disserrato il cuore

per canto di sirene

(era appena gonna

tirata sul ginocchio,

un’ombra di rossetto

e fragole alla bocca)

 

ma ancora il ripartire,

il ritornare al largo

con la parola addio

incisa ad ogni passo

 

è stato lungo il viaggio

per arrivare a te

 

se tu l’àncora, la riva,

la sabbia fine del riposo,

 

non andare

 

resta

che io ti chiami casa.

 

FRANCESCO PALMIERI

in Studi lirici (solo parole d’amore), La Vita Felice, 2012

Monumento al mare: Alfred Tennyson

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Monumento al mare

Alfred Tennyson (1809-1892), inglese (foto web)

FRANGERE, FRANGERE, FRANGERE
(Traduzione di Emilio Capaccio)

Frangere, frangere, frangere,
Sulle tue fredde pietre bigie, O Mare!
E vorrei che la mia lingua potesse dire
I pensieri che sorgono in me.

Oh, bene per il figlio del pescatore,
Che grida alla sorella che gioca!
Oh, bene per il piccolo marinaio
Che canta dalla sua barca nella baia!

E le navi maestose proseguono
Verso il loro asilo sotto la collina;
Ma per il tocco d’una mano svanita,
E il suono d’una voce taciuta!

Frangere, frangere, frangere
Ai piedi delle tue rupi, O Mare!
Ma la tenera grazia d’un giorno che è morto
Non tornerà più da me.

*

BREAK, BREAK, BREAK

Break, break, break,
On thy cold gray stones, O Sea!
And I would that my tongue could utter
The thoughts that arise in me.

O, well for the fisherman’s boy,
That he shouts with his sister at play!
O, well for the sailor lad,
That he sings in his boat on the bay!

And the stately ships go on
To their haven under the hill;
But O for the touch of a vanish’d hand,
And the sound of a voice that is still!

Break, break, break
At the foot of thy crags, O Sea!
But the tender grace of a day that is dead
Will never come back to me.

La lunga percorrenza. Un racconto di Loredana Semantica (parte 2)

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ph. Loredana Semantica (sul traghetto tra Messina e Villa San Giovanni)

prosegue da qui

Il viaggio era un attraversamento nazionale, climatico, paesaggistico e urbano. Il treno fendeva la penisola come una lama. Certi tratti percorsi a rotta di collo non permettevano l’osservazione, gli occhi erano incapaci di registrare il susseguirsi di scenari, talmente veloce la corsa sui binari, tranne quando lo sguardo poteva spaziare nell’ampio respiro di paesaggi pianeggianti ed estesi, allora spostando il fuoco visuale più lontano, nel campo lungo dello scenario, c’era modo di guardare la distesa e il variare delle sfumature di verzura fin dove lo consentiva il profilo di altipiani e di colline, ch’erano argine allo sguardo. Altri tratti, specie quelli diurni, disseminati di fermate nelle stazioni, erano percorsi ad andature più moderate e consentivano la visione del paesaggio, delle opere dell’uomo, delle architetture delle case. Case dirute, case antiche, trascurate, signorili, villini graziosi coi gerani alle finestre, ville d’epoca e palazzi. Le abitazioni erano edificate per lo più in calcestruzzo, muratura o mattoni rossi, questi ultimi soprattutto nelle regioni settentrionali, nella zona di Catania invece prevaleva la pietra lavica nera nei muretti di confine, nelle costruzioni, nel contenimento dei terrapieni. Come flusso inarrestabile sotto gli occhi si susseguivano incroci di strade, scorci di paesi, la vegetazione nel suo mutare, boschi, campi coltivati o abbandonati, varietà di coltivazioni o flora spontanea, tralicci, ponti, strade, fabbriche, giardini, palme, ficodindia, nespoli, banani, robinie, platani, pioppi, querce, canali, corsi d’acqua, torrenti, fiumi e il mare, quest’ultimo una costante del paesaggio  della parte meridionale della penisola e, ancora più a sud, dell’isola, essendo la strada ferrata in quei percorsi quasi del tutto litoranea. I finestrini potevano essere abbassati fino a circa metà dell’apertura, il condizionamento dell’aria non esisteva o forse era sempre guasto. Specie d’estate per avere sollievo dal caldo si tenevano aperti i finestrini del vagone. Il risultato era che al termine del viaggio gli abiti e la persona erano intrisi di uno strano odore ferroso, misto a polvere e sudore. Il viaggio era così lungo che inevitabilmente includeva una notte trascorsa sul treno. Per riposare l’accomodamento economico prevedeva l’uso di cuccette, sei per scompartimento. I sedili erano rigidi e imbottiti di gommapiuma dura, i rivestimenti in similpelle a doppia tinta: beige e marrone. Sulla parete al di sopra del poggiatesta del posto centrale era applicato in un riquadro uno specchio, esattamente di fronte, sopra l’altro sedile, un quadretto con la cartina geografica dell’Italia, di colore seppia, coi cerchietti o i puntini a segnare città o paesi e i loro nomi. Con essa si poteva seguire il succedersi delle fermate alle stazioni, l’avanzare del treno. La notte i viaggiatori impilati come sardine sui ripiani costituiti dai pianali e dagli schienali dei sedili ribaltati e abbassati per consentire uno spazio sufficiente a distendersi, dormivano cullati dal rollio del treno o vegliavano tenuti desti dallo sferragliare delle carrozze.

Un momento particolare del viaggio era il traghettamento dello Stretto di Messina, tra la Calabria e la Sicilia. Le carrozze del treno a gruppi più o meno lunghi, a seconda della capienza dell’imbarcazione, con tutti i passeggeri dentro, venivano caricate sul traghetto che spalancava verso l’alto la sua grande bocca per consentire l’accesso alla stiva. Il traghetto attraccava all’invasatura, un incavo che aveva la forma a cuneo corrispondente alla sagoma della nave, questa veniva quindi fissata saldamente alla terraferma. Ilaria osservava con speciale attenzione il punto dove la terraferma cessava e aveva inizio la nave: sormontato da tralicci in ferro, alla base era costituito da una solida piattaforma, un ponte mobile attraversato da binari che veniva abbassato in modo che i binari della terraferma e quelli della nave si allineassero. L’insieme sembrava un miracolo di metallo che concorreva alla riuscita del trasbordo, insieme agli uomini dell’equipaggio intenti a sorvegliare, manovrare, attivare i segnali luminosi per l’arresto o il moto in entrata e in uscita alla locomotiva che svolgeva le operazioni di caricamento dei vagoni alternando movimenti di avanzamento o arretramento. Una volta che aveva introdotto nella pancia della nave un gruppo di carrozze, effettuato lo sganciamento del vagone terminale, essa arretrava per intercettare mediante lo scambio un altro binario sulla nave, procedeva quindi nuovamente ad avanzare e inserire a bordo un altro gruppo di carrozze su un binario della nave parallelo al precedente, e così di seguito in una teoria di avanzamenti e arretramenti fino a completamento del caricamento del treno. A quel punto si chiudeva il portellone del traghetto e la nave partiva per raggiungere da Villa San Giovanni Messina o viceversa. La breve traversata di poco più di tre chilometri era compiuta circa in venti minuti, quella era l’occasione per salire sul ponte della nave, farsi schiaffeggiare dal vento dello Stretto, ammirare la Madonnina, la grande statua dorata posta a proteggere Messina su una torretta sorgente dal mare, scrutare il profilo della terraferma, osservare attentamente la schiuma vorticante e le onde per scorgere nelle profondità Scilla o Cariddi, consumare una cipollina* o arancina al bar di bordo insieme a un caffè coi fiocchi. Terminata la traversata in mare di circa tre chilometri, dopo l’attracco, avveniva lo sbarco. Il treno, dopo essersi ricomposto con operazioni analoghe al caricamento sul traghetto, effettuava una lunga sosta alla stazione di destinazione, poi proseguiva il percorso.

Tutun tutun era il rumore del treno in corsa, il treno che riportava Ilaria a casa verso i ricordi e gli affetti. Tutun tutun faceva pensare al battito di un cuore, ugualmente sordo e profondo, forse per questo era un rumore che Ilaria percepiva come piacevole, familiare. Tutun tutun, quasi sempre era un battito doppio, come un botta e risposta a un discorso, un colpo e il suo ritorno d’eco. Esso s’inseriva sul rombo di sottofondo del treno in movimento, frenetico nei tratti percorsi a velocità elevata, attenuato dove rallentava. Talvolta il treno fischiava per avvisare del passaggio, altre, dopo una sosta, per allertare sulla ripresa del cammino. Senza che il motivo fosse chiaro ai passeggeri, a volte il treno frenava, qualche volta con vigore, altre più dolcemente, il ferro tra le traversine allora per l’attrito strideva acutamente, questo rumore si aggiungeva agli altri suoni prodotti dalla macchina sferragliante. Tutun tutun, attenta al ritmo Ilaria riusciva persino a dormire per qualche ora, cullata dal dondolio del treno in corsa. Lo stesso dondolio che impediva di camminare nei corridoi del treno con equilibrio sicuro. Tutun tutun Ilaria si svegliava ch’era l’alba. Il treno correva ancora dentro i budelli oscuri delle gallerie, lanciato al di sotto di montagne italiane forate come mele dai bruchi. Al termine delle gallerie il treno sbucava nella luce che, dopo la notte appena trascorsa, sembrava abbagliante. Tutun Tutun. Ilaria, ancora sospesa tra il sonno e la veglia, percepiva con gli occhi chiusi quel suono come il clangore del sole, la corsa verso l’azzurrità. Tutun tutun. Sembrava lunga la percorrenza della vita.

*un pezzo da forno di sfoglia di forma quadrata ripiena di prosciutto, salsa di pomodoro, formaggio filante, aromatizzata con cipolla

Nel video stazione di Milano Centrale, scorci di strada ferrata, strade di Catania, aeroporto Fontanarossa di Catania. Audio originale

“L’affittacamere” di Roald Dahl

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Immagine generata dall’Intelligenza artificiale

 

L’affittacamere (The Landlady) è un racconto breve di Roald Dahl, uno dei grandi maestri della short story, autore di opere di narrativa e di libri per ragazzi di grande successo internazionale. È tratto dalla raccolta “Kiss Kiss” e pubblicato nel 1960 da Alfred A.Knopf. La maggior parte delle storie erano già state pubblicate in precedenza in vari giornali e quindi raccolte nel libro. Il racconto, enigmatico e ricco di particolari significativi e colpi di scena, è ispirato da una situazione apparentemente normale poi attraversato da una vena di humour macabro. Parlando dei racconti di Dahl, Corrado Augias ha osservato che «sono perfette macchine narrative: la situazione di partenza sembra comune, addirittura banale, ma nel corso della vicenda subentra un piccolo incidente che rovescia in modo sinistro o grottesco i fatti… Dahl ha l’abilità di far diventare la cattiveria una qualità rivelatrice della natura umana.» Come accade nel genere giallo, il racconto inizia con la descrizione dell’ambientazione per assumere successivamente le caratteristiche dell’horror. La vicenda si svolge in un bed & breakfast in cui non ci sono altri ospiti all’infuori di Billy Weaver. L’esito è imprevedibile e inaspettato come spesso avviene in Dahl, il finale è lasciato volutamente in sospeso, ma lascia presagire quale sia la fine del giovane protagonista.

 

Billy Weaver era arrivato da Londra col lentissimo treno del pomeriggio, dopo aver cambiato a Swindon, e quando era sceso lì a Bath erano ormai già quasi le nove di sera, di una sera limpida, con un cielo stellato sopra le case di fronte alla stazione. Il freddo però era pressoché mortale e soffiava un vento che gli tagliava le guance come una lama di ghiaccio. «Mi scusi», disse. «Sa se c’è un albergo abbastanza modesto non lontano da qui?» «Provi al Bell and Dragon», rispose il facchino, indicando in fondo alla strada. «Avranno forse una camera. Sempre dritto, a un quarto di miglio, sull’altro lato della strada.» Billy ringraziò, raccolse la valigia e s’accinse a percorrere il quarto di miglio fino al Bell and Dragon. Non era mai stato a Bath prima; non vi conosceva nessuno, ma Mr Greenslade, della Direzione Centrale lì a Londra, gli aveva detto che era una magnifica città. «Si trovi un alloggio», aveva detto, «quindi si presenti al direttore della filiale. Questo non appena si sarà sistemato.» Billy aveva diciassette anni. Indossava un cappotto blu marina nuovo, al quale s’accompagnavano un cappello di feltro marrone, nuovo, e un completo altrettanto marrone e nuovo, e questo lo faceva sentire in gran forma. S’avviò a passo svelto. In quegli ultimi tempi cercava di essere svelto in tutto. La sveltezza, aveva deciso, era la caratteristica comune a tutti gli uomini di successo. I pezzi grossi della Direzione Centrale erano sempre assolutamente, fantasticamente svelti. Erano straordinari. In quella strada abbastanza ampia non c’erano negozi, solo una fila di case alte sui due lati, tutte identiche. Avevano, tutte, portico con colonne e quattro o cinque gradini che conducevano alla porta d’ingresso. Era chiaro che un tempo dovevano essere state dimore piuttosto pretenziose; ora invece, persino con quel buio, si vedeva la vernice scrostata degli infissi delle porte e delle finestre, e le crepe e le macchie dell’abbandono sulle belle facciate bianche. D’un tratto, a una finestra al pianterreno illuminata in pieno dal lampione, a neppure sei passi di distanza, Billy scorse un cartello appoggiato al vetro dall’interno, a uno dei pannelli superiori. Diceva: BED AND BREAKFAST. Continua a leggere

“Per lei” di Giorgio Caproni

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“Per lei”, disegno digitale di Loredana Semantica

Il poeta Giorgio Caproni vuole donare dei versi alla madre Anna Picchi, che siano chiari, spontanei, eleganti, anche se privi di ricercatezze, verdi, elementari e soprattutto destinati a durare nel tempo.

Per lei voglio rime chiare,
usuali: in -are.
Rime magari vietate,
ma aperte: ventilate.
Rime coi suoni fini
(di mare) dei suoi orecchini.
O che abbiano, coralline,
le tinte delle sue collanine.

Rime che a distanza
(Annina era così schietta)
conservino l’eleganza
povera, ma altrettanto netta.
Rime che non siano labili,
anche se orecchiabili.
Rime non crepuscolari,
ma verdi, elementari.

Giorgio Caproni, “Il seme del piangere”, Garzanti, 1957.

Poesia sabbatica: “Seconda lettera a mia figlia”

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Seconda lettera a mia figlia

 

ti chiedo perdono, figlia mia,

per il salto mortale

da un altrove a qui

dove non c’è rete

a frenare la caduta

ma ancora non sapevo

che qui spasimo è la sosta,

 

e se pure t’amo

non mi dico fiero

per quel poco di mare

versato nel secchiello,

per il castello

che avrei voluto roccia

a cingere il tuo passo

e non era sasso

ma solo pastafrolla,

 

ti chiedo perdono, figlia mia,

allora non sapevo

che a te non padre e madre

sarebbe stato il mondo

ma strada insidia e bosco

battuto dai predoni,

girone di più inferni

per essere nata un giorno,

 

se fossi stato dio

avresti avuto sfoglio                                    

di un tempo sterminato

e non il brivido di adesso

ad ogni compleanno,

e non ci sarebbe stata serpe

non ci sarebbe stato frutto

a farmi vacillare

per un perdono in più,

 

in ultimo ti prego

di non guardarmi troppo,                                                        

ignora i miei capelli

e il bianco che mi assale,

la pelle che si appanna

nel conto alla rovescia

e vedimi sulle scale

dove anche oggi io

ho vinto la partita

che gioco con la morte,

 

 

perdonami per sempre, figlia mia,

per il salto mortale

da un altrove a qui

dove non c’è rete

a frenare la caduta,

perdonami per sempre

perché un tempo io

ancora non sapevo

che non appena nasci

è già entrare nel morire.

 

FRANCESCO PALMIERI 

(dalla raccolta “Fra improbabile cielo e terra certa“,Terra d’ulivi edizioni)

La lunga percorrenza. Un racconto di Loredana Semantica (parte 1)

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ph. Loredana Semantica (vista dal treno sulla ferrovia litoranea nei pressi di Augusta)

Ilaria era la seconda delle tre sorelle Pastrone. Marta, la prima, s’era sposata appena ventenne, era andata in moglie a un giovane di belle speranze e molta ambizione, un propellente che lo rendeva arroccato a un rigido orgoglio di sé. Pessima dote da portare ai Pastrone, buona per un rigetto come un trapianto malriuscito, e per quanto Marta s’impegnasse a irrorare i rapporti di ciclosporina, cortisone e interferone, i rimedi avevano scarso successo. Agnese, la minore, era predestinata a raccogliere l’eredità dell’impresa familiare. Un negozio di abbigliamento messo su e ben avviato dai genitori, al punto d’essere la boutique più rinomata di Sanfilocco, in provincia di Gìtania. Agnese, dopo tanti anni di lavoro come dipendente, rilevò l’attività commerciale dalla madre, il padre era morto qualche anno prima. Lo fece obtorto collo, perché così era stato deciso, un destino già scritto verso il quale non ebbe volontà e ribellione sufficienti a opporsi, per quanto in cuor suo avrebbe preferito un’altra strada. Aveva frequentato la scuola d’arte e un lavoro creativo forse l’avrebbe attratta maggiormente, ma in certe faccende non pesano tanto i soldi e nemmeno il desiderio o l’entusiasmo, pressa il non vedere sbocchi o alternative migliori, l’essere consapevoli del rischio e dello spreco di demolire quanto già costruito in tanti anni di lavoro familiare: avviamento, credibilità, azienda, clienti, contatti, fornitori e benessere. Tutto ciò che significa impresa. Agnese diventò perciò imprenditrice per investitura familiare, senza particolare vocazione. Ilaria Pastrone, la seconda figlia, stava nel mezzo in ogni senso, non aveva talenti manifesti, piuttosto difetti, sapeva scrivere, ma non guidare, le piaceva mangiare bene, ma non cucinare, aveva un altro concetto di sé, ma difettava di determinazione. Aveva preferito studiare invece di lavorare nel negozio. Avere a che fare con una pluralità mutevole di clienti, percepiti come estranei, non l’attirava. Proprio   per la sua scarsa inclinazione al commercio i genitori l’avevano esclusa dalla gestione dell’attività. Alla fine degli anni settanta l’unico desiderio che Ilaria riuscì a focalizzare con una qualche convinzione, era di allontanarsi da casa, dai genitori che percepiva come opprimenti e da una storia d’amore naufragata. Davide, il suo ragazzo fin dai tempi del liceo, dopo sei anni di fidanzamento, l’aveva tradita e lasciata per la sua migliore amica. Una vicenda talmente banale da essere penosa. Ilaria infatti non ne parlava mai, sentendosi nel raccontarla allo stesso tempo stupida e patetica. La delusione subita la segnò a tal punto che Ilaria non si innamorò più, non si sposò e non ebbe figli. Fu come se l’aspetto sentimentale dell’esistenza fosse definitivamente morto, sepolto da quell’episodio devastante. Del resto innamorarsi veramente è un’alchimia che ha del magico, accade poche volte nella vita per circostanze che si combinano tra loro in modo speciale. L’incontro, il bisogno, l’attenzione concorrono e si intrecciano con le stimmate della fatalità e spesso la sensazione che si avverte è che non poteva essere altrimenti, quasi operasse una forza cosmica potente e misteriosa, non tanto munita di frecce e calzari alati, ma piuttosto serpeggiante di vibrazioni. Può succedere all’opposto che il tempo trascorra e nulla accada, nessun fremito o segnale. Tutto dorme o tace. C’è altro a cui pensare.

Era il 1978 quando Ilaria decise di partire per Milano. C’erano già lì due cari cugini Carlo e Luigi con le loro famiglie impiantati nel hinterland, uno a Cusano Milanino, l’altro a San Donato Milanese. Essi costituirono una buona base d’appoggio per cercare alloggio e per trovare un lavoro. Ilaria trovò entrambi, il primo in via Torre di Guardia, 14 al centro di Milano, in una casa di ringhiera e l’altro presso un’importante azienda di telecomunicazioni. Quest’ultimo divenne il lavoro di tutta una vita fino al suo pensionamento. Di case invece Ilaria ne cambiò diverse, fino a sistemarsi in ultimo in una bella casa nuova e propria appena fuori Milano. Ilaria tornava spesso al Sud, alla casa d’origine specie al principio della sua permanenza in Lombardia. Le mancavano la famiglia, il cielo, il sole, il mare. La famiglia perché a distanza i rapporti conflittuali coi genitori s’erano dissolti, mentre le sorelle, essendosi sposate, l’avevano resa zia e lei adorava i suoi nipoti. Ilaria attraversava tutta la penisola almeno una volta all’anno, in estate, per andarli a trovare e con loro ritrovare quel clima solare e limpido che caratterizzava la Sicilia, la sua isola, del tutto diverso dall’aria nebbiosa e carica di smog della città metropolitana. Quando partiva aveva la valigia piena di regali per i nipoti. Una valigia ben diversa da quella di cartone verde legata con la corda del suo primo viaggio da emigrante. Questa appena comprata era morbida e leggera in similpelle color tabacco di ottima qualità, colma di doni: abiti, giochi, immancabili pigiami e un bel costume arancione comprato per sé alla Rinascente da sfoggiare sulle spiagge della Sicilia orientale. Ilaria affrontava un viaggio lunghissimo che la portava dalla città lombarda a Sanfilocco e al ritorno viceversa. Era un viaggio estenuante, ma interessante che la rapportava alla molta e varia umanità dei compagni di viaggio, anche se la sua natura schiva non ne traeva particolare piacere. Per molti anni Ilaria affrontò il lungo viaggio in treno, ciò fino a quando l’aereo non diventò il mezzo consueto per tratte così lunghe. Il cambiamento avvenne col ribaltamento del rapporto di convenienza tra aereo e treno, ma questo non accadde subito, solo molti anni più tardi, dopo l’ingresso nel nuovo secolo. A quel punto però la spinta a viaggiare di Ilaria s’era attenuata, giunse poi a scomparire del tutto col passare del tempo e l’avanzare dell’età. Ormai a Sanfilocco, sorelle e nipoti avevano dimensionato la propria vita al progetto scelto, ai propri desideri, i genitori erano morti, si formavano nuove famiglie, nascevano i pronipoti. Restavano solo nei ricordi i lunghi viaggi compiuti col treno che negli anni settanta e dintorni erano una specie di atto eroico. I treni erano stipati di emigranti che tornavano alle loro case in vacanza. Chi in Sicilia, chi in Calabria o Campania e alle altre regioni meridionali. La misura dell’affollamento del treno era testimoniata dai viaggiatori che, ultimi arrivati, non avendo trovato posto, sostenevano il viaggio seduti su sedili retrattili a molla distribuiti lungo i corridoi, retrattili perché i sedili scattavano verso l’incavo della parete dove erano alloggiati non appena cessava il peso che li teneva aperti. Chi compiva il viaggio in questa modalità doveva alzarsi in piedi ogni volta che qualcuno intendeva passare nei corridoi per recarsi ai servizi o scendere alla stazione successiva. Il passeggero ciondolava scomodo e sonnacchioso per tutto il resto del tempo. Erano necessarie ventiquattr’ore per percorrere oltre millecinquecento chilometri di ferrovia. Alla fine del viaggio i wc erano impraticabili. I cestini traboccanti di carta igienica sporca e cartacce, bucce di banana e arance. Il pavimento era sudicio e infangato, nauseante l’olezzo dell’urina. (segue)

ph. Loredana Semantica (scorci di ferrovia nella tratta Catania Siracusa)

Videopoesia “Benvenuti nel primo mondo”

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Benvenuti nel primo mondo

Videopoesia

Testo: Gabriele Peritore

Musica: Rough Max Pieri

Video: Luigi Filippo Peritore (che attualmente frequenta la terza elementare) e Gabriele Peritore

Durata: 9 minuti

Testo: Un’analisi critica sul primo mondo, il mondo occidentale che siamo abituati a conoscere, strutturata sui toni del provocatorio, dell’assurdo, dell’ironia amara. Un racconto per immagini, scandite dalla voce, sul rapporto tra l’essenza umana e la realtà moderna in una metropoli, con tutti i suoi aspetti contraddittori, esposti in prima persona, vissuti sulla pelle. Con la potente sensazione di impossibilità nel cambiare le cose che non vanno, ma, al contempo, con la necessità impellente di invertire la rotta imposta. L’invito accorato e disperato a trovare una terza via.

Musica: Un vertiginoso giro di blues che sa perfettamente inserirsi tra le righe ed esaltare il testo, realizzato dal grande musicista Rough Max Pieri.

Video: Per quanto riguarda il filmato, si tratta di un vero e proprio video sperimentale, perché l’intenzione principale era coinvolgere dei bambini ma non volevo fare un video sui bambini, così ho pensato di realizzare il video di un bambino. Ho prestato il braccio adulto alla mente pensante di un bambino di sei anni. Mi sono fatto operatore di camera per veicolare la visione e la visuale, di mio figlio Luigi F., del suo modo di percepire e vivere la metropoli senza filtri e giudizi morali. In linea con la poesia, la protagonista è rimasta la città, vista, però, dall’altezza e con gli occhi di un bambino. Mi sono fatto guidare sui particolari che lo colpivano di più e poi ho cercato di dare un senso logico in sede di montaggio.

Gabriele Peritore

 

NOTA BIOBIBLIOGRAFICA 

Farmacista, blogger, scrittore e poeta, Gabriele Peritore è nato ad Agrigento. Dopo anni importanti passati a Palermo, Foligno e Montefiascone, attualmente vive a Roma e collabora con la testata giornalistica online Magazzini Inesistenti, di cui è stato Caporedattore centrale dal 2016 al 2019.

È uno dei poeti protagonisti del documentario “Poeti” del regista Toni D’Angelo in concorso alla 66ima edizione del Festival del Cinema di Venezia 2009.

Nel 2010 una poesia tratta dalla silloge “A respiro trafitto” diretta dal video artista Quinto Ficari ha partecipato allo ZebraPoetry FilmFestival di Berlino, il più importante festival di videopoesia in Europa.

Ha curato, inoltre, la pubblicazione delle opere inedite di Luigi Filippo Peritore “Il fascino di un’isola e delle sue contraddizioni”, vincitore del premio “Libro dell’anno 2008, opera antologica” (Ca. Gi. Editore) e la monografia del pittore Giorgio Pirrotta (2009).

Nel 2010, insieme ai poeti amici Cony Ray e Marco Orlandi, ha dato vita al progetto “La Poesia È Reale” in collaborazione con il circuito delle biblioteche di Roma e a sostegno di Emergency.

Presente alla Sala del Refettorio della Biblioteca della Camera dei Deputati in qualità di poeta per un progetto a favore dell’Aquila: L’orizzonte perduto e il dolore trattenuto.

Partecipa a Festival e Rassegne Letterarie, tra cui Più libri più liberi – Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria – Roma, 2012; Caffeina Festival, Viterbo, 2012 e 2013.

Presente in diverse antologie, ha pubblicato:

“L’isola confine” (romanzo, 2014, Edizione Libreria Croce)

“Vino e Venere” (romanzo, 2012, Edizioni Libreria Croce).

“Luigi Filippo Peritore, intellettuale agrigentino” (saggio monografico, 2008, Ca. Gi.

Editore).

“Io sono la vera vite”, simbologia e fitoterapia delle piante dei Vangeli (saggio, 2007,

Edizioni Libreria Croce).

Poesia sabbatica: -127-

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-127-

ho imparato a fare a meno di te
ho imparato a svegliarmi
a vestirmi e pettinarmi
senza pensare a niente
senza pensare a niente

ho imparato a mangiare zitto
ad arrivare al frutto
a sparecchiare in fretta

ho imparato a camminare
senza guardarmi indietro
a dare un occhio al cielo
e dire pioverà
o magari farà bello

ho imparato a far passare giorni
tutti i mesi e gli anni
le ore ad una ad una

e dentro ogni secondo
il ticchettio del nulla.

FRANCESCO PALMIERI

Monumento al mare: William Ernest Henley

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Monumento al mare

William Ernest Henley (1849-1903), inglese (foto web)

UN AMORE DAL MARE
(Traduzione di Emilio Capaccio)

Sotto la notte che mi copre scevra di stelle,
(O tribolazione del vento che rotola!)
Nera come la nube di qualche tremendo incantesimo,
Il sussurro del sospirante mare
Pare il bisbiglio singhiozzante di due anime
Che tremano in una passione d’addio.

Ai desideri che triplicarono in me la vita,
(O malinconia del vento che rotola!)
Ai sogni che sembrarono predire il futuro,
Alle speranze che montarono in me come il mare,
A tutte le dolci cose inviate sulle anime felici,
Non posso che sciogliere un silente addio.

E alla fanciulla che fu sì tanto per me
(O lamento di questo vento che rotola!)
Poiché non posso costringela a vivere,
Sotto la notte, accanto al mar che risuona,
colmo dell’amor che avrebbe potuto unirci le anime,
Un triste, ultimo, lungo, supremo addio.

*

A LOVE BY THE SEA

Out of the starless night that covers me,
(O tribulation of the wind that rolls!)
Black as the cloud of some tremendous spell,
The susurration of the sighing sea
Sounds like the sobbing whisper of two souls
That tremble in a passion of farewell.

To the desires that trebled life in me,
(O melancholy of the wind that rolls!)
The dreams that seemed the future to foretell,
The hopes that mounted herward like the sea,
To all the sweet things sent on happy souls,
I cannot choose but bid a mute farewell.

And to the girl who was so much to me
(O lamentation of this wind that rolls!)
Since I may not the life of her compel,
Out of the night, beside the sounding sea,
Full of the love that might have blent our souls,
A sad, a last, a long, supreme farewell.

“Les fleurs maladives de Baudelaire”

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Per comprendere Baudelaire (1821-1867) occorre rendersi conto del posto che occupa nella storia della poesia non soltanto francese. Autore decadente dalla genialità sregolata, poeta maledetto, critico, traduttore, è considerato uno dei padri del Simbolismo e del Decadentismo. Continua a leggere

Poesia sabbatica: “Preghiera”

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PREGHIERA

 

chiedo al cosmo

di darmi parole infinite

parole galassie

parole stella

 

chiedo all’aria

il verbo degli angeli

il coro dei santi e dei beati

dei giusti e degli arcangeli

 

chiedo al cielo

il canto delle nubi e del vento

del fulmine e del tuono

dell’acqua e della pioggia

 

chiedo al mare

il grido degli oceani

e l’impeto dell’onda

la schiuma immacolata

la furia dei marosi

 

chiedo alla terra

lo stormire delle foglie

il profondo di radici

scavate negli abissi

il duro della pietra

e le vene del granito

l’oro che brilla al sole

e il puro dell’acquamarina

 

e non più le parole d’uomo

recluso in una cella,

non l’urlo a sprofondare

di un angelo caduto,

non l’afonia di lingua

di chi parlava alto

quando in ogni dove

c’era ancora Dio.

 

FRANCESCO PALMIERI

Bella Ciao

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«Una mattina mi son svegliato
o bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao
una mattina mi son svegliato
e ho trovato l’invasor.

O partigiano, portami via
o bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao
o partigiano portami via
che mi sento di morir.

E se io muoio da partigiano
o bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao
e se io muoio da partigiano
tu mi devi seppellir.

E seppellire lassù in montagna
o bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao
e seppellire lassù in montagna
sotto l’ombra di un bel fior.

E le genti che passeranno
o bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao
e le genti che passeranno
mi diranno “Che bel fior!”

E questo è il fiore del partigiano
o bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao
e questo è il fiore del partigiano
morto per la libertà.»