Resta lei
Non dissi una parola.
Non disse una parola.
Non sapevo.
Non sapeva capire.
Il tempo a grandi passi;
È oggi, o poco fa.
Adesso cosa resta?
La strada, resta. Resta lei.
E noi, che non possiamo sapere.
Luoghi lontani e calmi. Vicini.
Proprio qui.
Stanze da esplorare senza luce.
Pareti di roccia rossa. Oscure.
Pulsano.
Le parole non sempre parlano
e i fatti non sempre gridano.
A volte sì.
Tentano.
Alla finestra
Appendo le dita alla finestra
L’aria fresca sfonda lo spazio
e arriva placida fin qui
Gli occhi alti, integri
alla notte
di piombo e d’argento
Do le spalle a una camera anonima, alle cose
La luna è velata
Nuvole nere ne corrono i confini
Non più sfera, non più luna
Mi sporgo audace e attratta
La tocco e lei si sposta
La bramo e lei si mostra
Protendo anche i pensieri, anche quelli
I più celesti
E mi lascio trovare
Ma si fa tardi e chiudo la finestra sul mondo
Il freddo ha scaldato il mio fiato
Gli occhi meno alti ma più distanti
Un’altra nuvola nera sulla luna.
La danza
Le stelle filanti danzano,
nuotano libere di vanità.
Sono pesci in una boccia,
un palco antico di verità.
Il vetro si è scheggiato
ma ne riflette ancora l’ego.
Impronte di marmellata;
calco quella terra, incantata.
E lì annego.
Senza sosta e senza veleno
sbattono i piedi le stelle filanti.
La testa si stacca:
voglio danzare con loro
il tempo di un attimo.
CLIC
Ho una madre. Un padre. Un fratello. Un nipote. Un tetto, un libro in testa, un libro in mano;
ho due mani.
Un gatto, grande e robusto, nero, un letto, tre sogni a dir poco.
Quattro o cinque a dir il vero.
Ho un Dio che mi ha creata a Sua immagine e di cui non ho sembianze.
Ho un tamburo che danza rituale e sbraita meschino di notte.
Ho un mondo. Il più delle volte, le volte buone.
E ricordo a me stessa quel mondo. Dovrei amarlo. Dovrei sentirlo. Dovrei staccarmi da terra,
messaggera alata
e trovarlo.
Il panorama autentico, scevro d’egoismo. Mio. Mitologico.
Volare sopra di me, senza di me, concentrare la vista sul fuoco.
La scintilla: palesemente necessaria.
Ma proprio non può, no, prendersene merito. Della luce.
Che da quella partenza cresce e muta e si
ribella. E va, evaporando.
Io, io non lo posso fare. Non più. Comincio a capire.
E a fuggire dalla luce, lei, mia, che rendo buia perché buia
sono. Ancora senz’ali.
Non sento niente e non so perché.
Umana compassione cercasi.
E le tragedie, anch’esse, non turbano. Non urtano. Le viscere non mi pungono.
Ma neppure son pazza, oggi, non son io quella pazza.
Un clic. Qualcosa in me ha fatto clic e non ritorna. Indietro.
Sciolgo i capelli, fili spezzati di un nastro nero alla luce di luna.
Dicembre comincia e prosegue la nenia.
Anemica di cuore, anemica d’amore.
La rima non è originale. La rima non era prevista.
Frugo e scavo e graffio ma non trovo. Quel geniale modo,
il migliore, di confessare. Confessare.
Confessare che non sento niente e so perché.
Clic
Tregua
Il vento sa di mare, oggi. Sento la salsedine del mare nel vento.
Sto bene, sì.
Mio padre parla e poi pensa.
Faccio così anch’io.
Dice: magari è qualcuno che sala la carne. Nessuna salsedine, bambina.
Sorrido amara della sua dolce semplicità.
Me ne rendo conto negli anni, che ci vive.
E forse lo invidio, forse lo sfido.
Mi lavo la faccia.
Usciamo?, pensa e poi chiede.
Prendono il ritmo del volere, i movimenti;
è sabato e sono le 10 circa.
S’intrecciano poi le nostre mani,
quelle di mia madre vivace,
quelle della bambina che cerca il rossetto, che possa colpirla.
Quelle dell’uomo che guarda.
Tra poco usciremo.
Il vento sa di mare oggi. E di pepe.
Va bene, penso e non dico: somiglia a una tregua.
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.