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Nell’ambito della rubrica “Canto presente” oggi presentiamo la poesia di

Giorgia Deidda

Ti sogno con le labbra rosso sangue,
ti sogno assorto nella pioggia.
Il volto livido, benefattore del cielo;
piango carnalmente il figlio perduto,
mi lascia spazio la voracità della luce;
sembra inghiottirmi in una cernita di gole.
Hai le mani bianco latte, screziate dalle gocce di sale.
Verrei a rompere la stasi che ti socchiude
ma non mi è concesso entrare nel mondo dei morti.
Abbiamo bocche terribili e un fagocito di cellule che respirano;
siamo vita mangiata dai cani e siamo affamati.
Deglutisco un cucchiaio di dolore –
lo combino con dell’acqua per mandarlo giù.
È la medicina, presa puntualmente, che regola i ritmi del cuore.
L’aculeo velenoso si conficca tra la mano e la piaga;
non sento niente.
E rimango sola dietro la finestra,
a guardare il tempo soccombere sulla lettiga di velluto,
lo guardo perire e cementare.
I cuscini si sono strappati,
non c’è più posto per riposare –
mi socchiudo il corpo in un ecometro compatto.
E non c’è ginocchio che tenga;
l’osso si distanzia e si deforma, crepa di venature violacee.
Come puntine nella notte accendo il lumicino
che rischiara la stanza;
è l’ombra che mi fa paura, mi terrorizza a tal punto
da farmi smettere di mordicchiare.
La testa del morto è grigia;
si muove a ritmi lenti e mi guarda dormire.
L’entrata della grotta è cavernosa –
tu mi dicesti: “guarda, sembra che il soffitto venga giù”.
Si squarciava il lembo per soverchiare il mare;
una traccia d’azzurro che pareva dire:
“io esisto”.

L’assenza si fa preghiera lontana.
Rannicchiata nel letto, a guardare le incrostazioni del soffitto,
io rivolgo gli occhi lontano,
li rivolgo alla tua mano,
caduca speranza che si fa rantolo di neonato.
Se per esempio tu dovessi esistere,
io annullerei la mia presenza in un turbinìo di vento,
ché non sarei più una cosa compatta,
ma un animale dilaniato dalle carni, senza occhi.
Le ossa bruciano e si spezzano,
ma le mani congiunte deviano la lontananza
in uno spergiuro di colpa.
Quando la notte dormo,
sento il tuo fiato sul collo, il caldo che mi alita vita,
e non sono più un essere dimenticato.
A volte si fa sangue il ricordo,
cola sui cuscini biancastri,
cola dal comodino dove posano gli orecchini.
E il rossetto copre il balbettìo stentato,
la smorfia che fa la mia bocca quando sorrido.
Non dimentico la tua voce;
una raucedine che si faceva poesia,
la mano attenta a sfogliare i libri danneggiati.
E crollo sotto terra,
dentro i vini dolciastri,
tremo il mio ventre in uno spasmo
che si fa colla
un’attaccatura per le cose che penzolano,
per l’afflitto e il ferito,
per il solo e la solitudine.
E urlo in un grido che il mare
Tossisce e trema.

Cammino con i sassi nella pancia;
l’osso sbuca dalle costole,
il cibo che non ho ingurgitato.
Si frappone la pioggia caduca tra la mia mano
E quella dell’altro –
È il verde rigolo che scende nei tombini fognari.
Si chiede qualche minuto in più per parlare,
ma la giornata è occupata come uno stendardo militare.
Le luminose fisse, dalla mia camera sono tutte cascate a terra –
È il segno che l’infanzia è stata recisa,
come coi tronchi degli alberi verdi.
Casa mia è lontana, si è fatta
Puntino di luce bucherellato da cui si intravede,
fioca, la luce delle candele.
Il cielo del terrazzo è diventato un piombo allargato,
pesante e plumbeo.
I tricicli arrugginiti sono sempre rimasti lì.
Ma casa mia non è più casa,
è un luogo sottile di morte,
di cavilli senza senso appiccicati con la ceralacca al frigorifero;
è l’ingordigia che viene bloccata
e al suo posto un passato di verdure,
per entrare nel vestito rosso.
È l’ansia che mozza il respiro,
il litigio nascosto tra le ragnatele ed i cunicoli,
è il cuscino che cola sulle notti d’ipersonnia,
è l’oggetto lanciato sulla fronte,
è ciò che si può dire male in tutte le sue forme.

Scavare l’osso per distogliere la carne;
lo scheletro muto regge il peso della gravità.
Si ascolta fuori come un fruscìo;
sono i monaci che stridono il campanello.
È notte –
Si condensa l’aria in un tono elegiaco,
fanno da coro gli uccelli notturni;
si intravedono solo occhi gialli.
E tira il vento, stira le foglie,
smuove i rami spezzati,
ulula alla luna bulbosa il suo tormento.
Il letto è nido d’api;
ogni notte mi vengono a pungere il cuore
per stillarne miele.
Le lenzuola non sono bianche,
ma di un leggero colore cremisi;
non le cambio da quando sei andato.
La bottiglia di vetro è sul tavolo;
dentro il liquido rosso sangue che cola
dalla saliva fino alla gola,
irretendo i sensi.
Il giorno mi ha sempre disgustata;
un pullulare a frotte di gente dai visi di sifilide,
stanchi e arrabbiati.
I fiori di campo crescono rigogliosi –
Una volta li strappai tutti e li feci cadere sulla tua tomba.
Miagola il gatto in cerca di cibo;
si acciambella sulle caviglie e guarda dicendo:
“sono qui”.

Aspro è il giorno per chi non ha dormito;
si contano le ore lentamente,
sgocciola il minuto sulla fronte,
una bomba ad orologeria –
un tessuto fine.
Si squarcia il cielo da cui sbucano i raggi timidi;
la morte è sorella e amante,
si fa astro nascente quando le cose smettono di respirare,
buca l’inchiostro la luce, i vescovadi cuciono e sfibrano le fila, si affannano i bambini verso il campo.
Nella luna io cerco la tua ombra;
mi è amaro il sapore che mi hai lasciato sulle labbra –
filano dritti i capelli come aghi d’ebano,
compatti.
La malattia sfebbra come neve al sole,
fioriscono i campi dimenticati,
si celebrano le feste pagane ballando
e bagnandosi la fronte benedetta.
L’amore è la culla dentro cui nasce la rosa,
la pietanza assaggiata con palato dolce,
il sorriso inasprito dai nervi contriti,
le mani che faticano il lavoro.
Coltivo piccole manie come neonati impudenti,
le vedo strillare e contorcersi come aborti,
una non essenza del tempo,
una noesi tra paradiso e inferno.
Fratello che non vedi,
ci sono albe misteriose dietro la tua tenda,
ci sono forbici tagliate sulla pelle,
ci sono occhi amari che contemplano l’assenza.
Sorella che piangi,
non vedi come le vesti silenziose ti calzano addosso,
non vedi come ti sei ridotta all’osso?
La tetra salma risponde dalla terra,
ci indica la via verso l’infinito.
E noi corriamo, ignari, sul prato ormeggiato,
calpestando le impronte di quelli che furono,
e che ci osservano dall’alto.
Mi senti forse? Sei sperduto nella notte,
ignaro del fantasma che regnava nella casa.
Io ti chiamo ogni giorno, sussurro il tuo nome al soffitto, in silenzio.
E giuro d’averti sentito in un sogno –
Parlavi al mio orecchio cose indicibili.
E mi sembra d’averti perso nuovamente,
nel grido onirico che resta muto.
Come curare i pensieri ossessivi

Sganciare ad una ad una
Le macchie di muschio
Abbarbicate sui fili nervosi.
Staccarli con cura come si fa con
Le pulci, un animale da compagnia.
Slegare la loro saliva smacchiata su tutti i cordoni e le cellule,
sventrare il nucleo che le tiene incollate
alla corteccia prefrontale.
Badate, non sarà semplice aprire un cranio;
le ossa si tritureranno e scalceranno come bambini capricciosi,
opponendo resistenza.
Ma voi bucherellate ciò che rimane e filtrate
Capienza e lama da taglio.
Tutte le macchie devono essere lavate via,
con un po’ di candeggina i tessuti non ne risentiranno.
L’importante è sgretolare le zampine che trasmettono le stesse immagini,
ore ed ore al giorno.
Disinnescare l’attimo in cui c’è pausa,
pinzare per bene il malfattore e tirare via.
Potrebbe essere necessario un batuffolo,
per tamponare lo zampillo.
Dopo aver rimosso tutte le macchie di muschio,
aver cura di accarezzare le parti lese
e chiedere scusa.
Dopodiché richiudere il cranio,
e godere di tutti i momenti,
la felicità.