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Capo Horn - Tijuana. Cuentos Olvidados, Emilio Capaccio, Jacques Roumain, La giacca, Racconti, TRADUZIONI
LA GIACCA (1)
(1930)
Jacques Roumain (1907-1944)
Traduzione di Emilio Capaccio
Scrittore, poeta e politico. Suo nonno, Tancrède Auguste, fu Presidente della Repubblica di Haiti, dal 1912 al 1913. Nel 1934, fu fondatore del partito comunista del suo paese e a causa delle sue continue attività politiche di resistenza contro l’occupazione americana nell’ambito delle c.d. “guerre della banana”, fu molte volte arrestato ed esiliato dal presidente Sténio Vincent. Viaggiò in Francia, Spagna, Svizzera, Belgio, conoscendo molti intellettuali europei dell’epoca. Nelle sue opere, impregnate dei suoi studi di etnologia, esprime la frustrazione del popolo haitiano, sfruttato per secoli dai coloni e in generale tutti i temi peculiari dell’indigenismo. Il racconto scelto è tratto dalla raccolta di racconti: “La proie de l’ombre”.
Quando entrò nella locanda, Saivre si sentì come un viandante che approda alla terraferma. Alcuni manifesti attaccati alle pareti saltavano all’occhio attraverso il fumo delle sigarette. Si sedette in un angolo nell’ombra. Accanto a lui dormiva un ubriacone. Lo spinse rudemente per mettersi a suo agio. L’altro schiuse gli occhi vitrei e biascicò:
— Napoleone è morto nel suo letto.
E si appisolò di nuovo.
A Saivre non venne da ridere e guardò fuori dalla finestra. La pioggia scioglieva la luce del lampione. Cadevano sottili aculei dorati. Dietro, la grande notte, vaga, il grande silenzio nero.
Se qualcuno avesse lasciato la porta aperta, pensò Saivre, si sarebbe sentito il mondo tacere. Il silenzio sarebbe penetrato e li avrebbe afferrati per la gola.
Si sentiva bene, però il rumore gli faceva male. Ogni scoppio di voce lo colpiva alla fronte.
Una prostituta salì le scale sottobraccio a un marinaio. I suoi gesti sembravano stanchi.
Il pensiero di Saivre la seguì per un istante. Se la vide pallida, sacrificarsi su una coperta rossa, sudicia.
Perché “rossa”, pensò d’un tratto? Non lo sapeva. Ma era sicuro che fosse rossa.
Bevve un bicchiere, un secondo, un terzo. Aveva caldo, si tolse la giacca e l’appese a un chiodo nel muro davanti a sé.
Una discussione scoppiò in fondo alla sala. La voce di una donna si levò sopra le altre e si arrestò. Poi, tutto si risolse in un mormorio confuso. L’ubriaco si risvegliò. La sua faccia era smagrita e i suoi occhi erano come annegati. Una piccola cicatrice a forma di V gli tatuava curiosamente la fronte. All’improvviso, Saivre lo trovò terribilmente odioso. Soffriva quasi fisicamente, senza sapere perché, al sentirselo accanto e rabbrividì bruscamente quando udì:
— Amico, vuoi bere con me?
Saivre, tuttavia, accettò.
Bevvero dopo aver fatto cozzare i bicchieri.
L’ubriaco disse: — Mi chiamo Paul Milon, e tu?
— Che diavolo te ne importa? — ringhiò Saivre.
Seguì un silenzio, poi Milon riprese:
— E gli affari?
— Non ho affari, quasi gridò Saivre.
Un’istantanea furia gli salì al cervello, scostandosi dall’ubriaco come per prendere slancio.
— Va bene. Va bene. D’accordo, disse Milon.
In seguito, una calma pesante si stabilì in mezzo a loro come a separarli. Un grammofono singhiozzava con la voce rotta di un vecchio cantore. Le pareti della sala angusta si passavano la sciocca e triste romanza. Una donna piagnucolava dolcemente tra le braccia conserte. Gli uomini tacevano e dimenticavano i loro bicchieri.
Poi Milon disse: — Guarda, sembra un impiccato.
Saivre sussultò: — Che cosa vai blaterando, dove?
— Sto scherzando, disse timidamente l’altro. — La tua giacca…
Saivre guardò la sua giacca con un’attenzione così dolorosa che presero a fargli male gli occhi. La sua giacca, misera cosa vuota e rattoppata, pendeva come l’aveva lasciata.
La voce di Milon continuò: — Non ti sembra? Non ti sembra?
Saivre chiamò l’oste e fu servito. Mise via la bottiglia e trincò sorso dopo sorso due grandi bicchieri, poi:
— Dimmi, perché l’hai detto?
— Io? Per niente. Un’idea…
— Perché l’hai detto? – disse Saivre a denti stretti.
— Non lo so, ti dico. Forse mi ricorda quello che si è impiccato in mia casa il mese scorso.
— Cosa? – disse Saivre.
— Sì. Un giovane che aveva vissuto parecchio tempo all’estero. Aveva lasciato la famiglia. Non andava d’accordo con il padre. Lo avevamo preso io e mia moglie come affittuario. Scriveva versi tutto il giorno, leggeva una montagna di libri e non ci pagava l’affitto. Un farabutto, non credi? Una mattina lo troviamo impiccato. Ci doveva otto dollari e cinquanta. Mai pagati. Ah, il porco!
— E questo che c’entra? – chiese Saivre.
Era orribilmente pallido e le sue mani si agitavano attorno al bicchiere senza poterlo afferrare.
— Ebbene! Ti dico che era uguale alla tua giacca. Pendeva come un cencio – disse Milon riprendendo fiducia. — Uguale, uguale – ripeteva.
— Non è vero, mormorò Saivre, fissando la giacca con occhi stralunati.
— Sì. Uguale. Uguale.
— No. No.
— Sì, ancora lo vedo davanti agli occhi. È proprio così.
— Zitto, demonio. – disse Saivre sottovoce.
— Ma ti dico che è così. Esa-tta-men-te come la tua giacca.
— Zitto, demonio. – ripeté Saivre così a bassa voce che Milon lo sentì appena.
I suoi occhi non si erano mai staccati dalla giacca. Una folle angoscia ballava nei suoi occhi. Milon era rimasto in silenzio. Mandò giù avidamente un bicchiere, schioccando la lingua. Si trascinarono alcuni minuti. Ora il grammofono era muto, tuttavia un marinaio, con il braccio intorno al collo di una donna, cantava: Somebody loves me…
Improvvisamente, Saivre domandò:
— Di’ un po’, dopo che uno è crepato, che cosa pensi? C’è un’altra vita, o cosa?
Milon rifletté per un momento:
— No, non credo.
— Nemmeno io – disse Saivre con un tale sforzo che tutto il suo viso s’attorse.
Si alzò a fatica e si diresse verso la porta.
— Ehi! Non dimenticare la giacca.
— No, no – gridò Saivre, e fuggì nella notte.
Correva nonostante la sbornia. Un cane gli corse dietro per un momento lungo la strada deserta. Non sentiva la pioggia. Non vedeva le case. Non vedeva la sua ombra. Fuggiva. Le parole danzavano nella sua testa e suscitavano una sofferenza atroce: la giacca, l’impiccato, la giacca, l’impiccato. Mormorava tra i denti:
— No. Non ne posso più. Deve finire tutto questo.
Finalmente, arrivò a casa. Una misera topaia di legno. La porta si aprì con una semplice spinta. Lei era nel letto. Sentendolo arrivare, si rifugiò contro il muro.
— Mio Dio – pensò — che non mi picchi duramente, oggi.
Attendeva le botte, ma non arrivarono. Lo sentì accendere una candela, spostare mobili. Le giunsero parole sconnesse: “La giacca. Esa-tta-men-te. Ah, demonio! Uguale alla giacca.”
Cadde una sedia. Dopo nient’altro, eccetto l’angoscia che la inchiodava al muro.
Si disse: — Si è addormentato.
Ma aspettò prudentemente. Un’ora? Due? La luce del giorno non era ancora filtrata attraverso gli assi traballanti. Finalmente, con infinite precauzioni, si voltò. Alla luce della fiamma della candela vide il corpo che penzolava.
Poi lanciò un grido enorme.
Accorsero i vicini.
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[1] Dalla traduzione spagnola di Michaelle Ascencio in: “Gobernadores del Rocío y Otros Textos”, 2004, Kiss Producciones, Caracas, Venezuela. Lingua originale francese. Titolo originale del racconto: “La Veste”.
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