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LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

LIMINA MUNDI

Archivi tag: Loredana Semantica

“Le dita verdi” racconto breve di Loredana Semantica

18 mercoledì Giu 2025

Posted by Loredana Semantica in I nostri racconti, LETTERATURA, PROSA

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Le dita verdi, Loredana Semantica, racconto

ph. Loredana Semantica

La casa di nonna Santina sembrava quella dei presepi. Una porta sulla strada, la strada costeggiava una piazza e la piazza era fiancheggiata da una salita tutta di basole in pietra lavica. Nella piazza erano piantumate sei robinie, dentro aiuole circondate da un cordolo di pietra. La piazza era dominata da un convento raggiungibile da due rampe di scale che, in fondo alla piazza, s’inerpicavano divergendo l’una dall’altra, verso l’edificio religioso. C’era pure un campanile nella chiesa del convento che suonava i rintocchi ad ogni ora.

La casa di nonna Santina era la casa del presepe nel paese del presepe. Tante casette in pietra e muratura e tante strade a scendere e salire e scale, tante scale, per colmare i dislivelli di un paese collinare. Sopra la porta della casa di nonna Santina aggettava un balconcino con balaustra in ferro, in cima ai montanti della balaustra due pigne grandi in terracotta tenute strette col fil di ferro. Sul balconcino si apriva una portafinestra in legno verniciato che dava luce all’unica stanza della casa posta al primo piano. Una stanza stretta e lunga, ma sufficiente per accogliere i mobili di una camera matrimoniale. La stanza prendeva luce anche da una finestra diametralmente opposta alla portafinestra. La finestra dava sul tetto coperto da tegole, ma la zona più vicina alla finestra era un terrazzino senza tegole. Un posto magnifico per le avventure di Agata, si doveva solo scavalcare la finestra e stare per prudenza lontano dalla parte spiovente, lì sopra c’era un regno incantato da esplorare.

Agata scoprì quel tetto in cima al mondo ch’era bambina, sempre lì molti anni dopo scoprì la sua vocazione per il giardinaggio. Crescevano tra le tegole delle piantine che attirarono la sua attenzione. Erano dei rametti che svirgolavano verso l’alto con le foglie come tante piccolissime dita agganciate ai rametti. I rametti si partivano da un centro comune e poi si diramavano e dalle diramazioni oltre a nuove foglie nella parte inferiore spuntavano radichette pronte ad aggrapparsi al terreno in qualunque direzione lo avessero trovato. Sulla terrazza di terreno ce n’era poco e le piantine scoperte da Agata facevano una gran fatica a resistere, eppure le sembrarono l’emblema della voglia di vivere. Agata pensò portarle a casa in città e dare loro nuovo respiro trapiantandole in un vaso di terracotta rettangolare. Le piantine si svilupparono con entusiasmo, ben presto ricoprirono tutto il vaso e i rametti pendevano anche fuori da esso in una cascata verde tenero di migliaia di ditine verdi.

Sebbene la casa di nonna Santina fosse per Agata la casa della sua infanzia per antonomasia, sebbene avesse preso le piantine quasi in omaggio alla sua infanzia e al divertimento delle avventure alla casa del paese, l’infanzia di Agata era finita, la casa di nonna Santina stava per essere venduta, Agata era pronta per andare a studiare legge fuori sede.

Infatti si assentò per qualche tempo da casa, lasciando le piantine a vivere la loro vita nel vaso in terracotta in città. Al suo rientro il vaso ospitava nuove succulente, chiese notizie alla madre della sua pianta e seppe che l’aveva eliminata. All’accorata domanda di Agata del perché l’avesse fatto la madre rispose “Era una pianta stupida”.

Così finì la storia delle dita verdi di Agata. Agata rimase appassionata di giardinaggio, curò, trapiantò, riprodusse tante altre piante nella sua vita, ma le dita verdi restarono nel suo cuore con una nostalgia infinita, come la rabbia della distruzione, come il dolore della perdita, come il senso di colpa dell’abbandono, come l’ottusità del potere. Con un misto di sentimenti piantati nel cuore inspiegabili a parole.  

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Prisma lirico 48: Angelo Maria Ripellino, Loredana Semantica

12 giovedì Giu 2025

Posted by Loredana Semantica in Prisma lirico

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Angelo Maria Ripellino, Loredana Semantica

ph. Loredana Semantica

Angelo Maria Ripellino nel “Prisma lirico” di oggi con Loredana Semantica

Questo oleandro già pronto a sfiorire mi svela
che il mondo si sbriciola a guardarlo troppo.
Meglio ignorare l’indifferente natura, la gelida,
che puntarvi addosso lo sguardo come il malocchio.
Ogni cosa è imbrattata di ciglia di estranei,
e le nostre pupille curiose ne affrettano
la muffa, lo sfarinìo di farfalla, il dissesto,
il mesto giallore da Presto Giovanni
insomma l’ingresso nel Buio Pesto.
Lo sguardo denuda lo sfarzo mendace del creato,
straccia gli involucri bagattellieri, e l’immagine
non resiste alla nostra inquisizione oculare,
ma il giuoco è reciproco, tu pure sei fragile
e polvere, se ti osserva un oleandro.

ph. Loredana Semantica

Poesia: di Angelo Maria Ripellino da “Sinfonietta”, 1972

fotografia di Loredana Semantica

ph. Loredana Semantica

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“Qualcuno dovrebbe ringraziarmi” di Loredana Semantica da “Barracuda”, Terra d’ulivi edizioni, 2024. Legge Antonella Pizzo

07 mercoledì Mag 2025

Posted by Antonella Pizzo in Podcast, POESIA

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Antonella Pizzo, Barracuda, Loredana Semantica, Podcast

La poesia “Qualcuno dovrebbe ringraziarmi” di Loredana Semantica, dalla raccolta illustrata “Barracuda”, Terra d’ulivi edizioni, 2024. Legge Antonella Pizzo

Qualcuno dovrebbe ringraziarmi
qualcuno che ho memoria mi aveva già scalzato
da altri luoghi similmente connessi allo stradario
era un presagio vago circolare come di notte
che si ripete è perciò che lo escludo
per essersi compiuto l’arcano inevitabile
non tanto ormai per splendere
che da tempo ho dismesso le grandi attese
stupida essendo ogni cosa intorno
gravoso il male anzi banale nel suo dolore provocato pervicace
squallidi tutti i cercatori di bava di baldoria.

Ho il senso di qualcosa che sprofonda
come le cattedrali edificate sul fango
dalle fondamenta vuote
il crollo avviene lentamente tale
che agli abitanti non sia dato di vedere
l’inutile ormai lo escludo dicevo
chi tesse trame chi nega l’evidenza
chi alle spalle lavora ai tatuaggi
chi finge chi intrallazza chi le guance cadenti
chi il cuore strafatto chi le fitte o i ricami
non tanto ormai per splendere dicevo
ma per essere quietamente.

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Tra ironia e disincanto: “Barracuda”

04 martedì Mar 2025

Posted by maria allo in Note critiche e note di lettura

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Loredana Semantica, Maria Allo

“Barracuda”

di Loredana Semantica

Terra d’ulivi edizioni, 2024

Nota critica di Maria Allo

“Ecco uno spaccato del mondo

 osceno fino al disgusto

 che nessuna poesia sensazionalista

 può oltrepassare in verità

questo il mare di melma

 che ci sommerge

 che ci affonderà.

(Pag.89)

Barracuda, la raccolta poetica di Loredana Semantica, recentemente edita da Terra d’Ulivi e corredata dalle sue illustrazioni, arricchisce l’esperienza di lettura con un mix di emozioni e suggestioni, anche dal punto di vista visivo. Il criterio che investe la produzione “civile” di Barracuda è il grado di autenticità della sua comprensione del reale, basata sull’identificazione della conoscenza poetica con l’esperienza personale nella stessa misura in cui l’autrice se ne distacca e lo distanzia in una dimensione prettamente artistica:” Io non scrivo per rompere il silenzio/ ma per proclamarlo. / Dicono che si scriva/ per non imbracciare un fucile/ e sparare. / Io sparerei a volte/ non a ladri assassini e stupratori/ folli balordi e disonesti/ ma alle persone normali/ tutte prese dalla loro normalità/ di esseri superiori. / Poi contemplandoli da questa rocca/ girerei il fucile/ e mi sparerei in bocca (pag. 40). Il testo, collocato nella terza sezione Un sillabario di passiflore, contiene un’esplicita dichiarazione di poetica, seguita da una riflessione sulla funzione della poesia di illuminare la realtà nella sua interezza, ponendosi come limpida chiarificazione del confuso caos dell’esistenza e delle sue contraddizioni. In Barracuda la fisicità della parola fa spazio al pulsare delle sensazioni, all’evidenza del corpo, ai tratteggi nitidi che incidono sul foglio un cromatismo intenso e diretto: “Essere infido informe infame/ ti osserva l’occhio enorme/che tutto vede” (pag. 80). Di fronte a questa negatività, che presenta molte affinità con la desolata Terra di Eliot, l’autrice si scaglia contro chi predica bene ma agisce male: “… Intanto il potere si arroga ogni diritto/ dilaga e gonfia tronfio il proprio petto/ riempie il portafoglio di sbruffoni” (pag. 37). Con lucidità e disincanto, si fa carico di proteggere un margine di libertà per l’umanità, affermando che “Solo un fiore placa il terrore” (pag.98), e che “Diremo poi all’altare dell’Unicità/ noi almeno abbiamo vissuto/ coi santi dei valori morali/ occidentali o musulmani/ fin dentro la terra/ liberi e umani” (pag. 98). Tuttavia, l’evento salvifico viene solo sfiorato e subito svanisce, rendendo la sconfitta ancora più amara. Così, l’occhio della poeta continua la sua indagine sulla condizione umana con la meticolosità di uno strumento scientifico, consapevole di saper distinguere tra il male subito e quello inflitto dall’uomo. Al contempo, avverte l’urgenza di opporsi a questa realtà, con l’idea implicita di un nuovo impegno intellettuale, finalizzato a creare una cultura in grado di avere un impatto concreto sulla società e di trasformare il mondo: “…c’è bisogno di un pensiero nuovo/ rigenerante universale”(pag.124) o “torniamo indietro/alla radice degli anni scorsi/ alla fonte dell’acqua/ che bagna la terra/ all’essenziale del tempo/ e ne facciamo vangelo/ dei prossimi anni/da vivere stretti alla luce/dei nostri occhi”(pag.125). Questo approccio mira a eliminare l’ingiustizia sociale, come sosteneva Vittorini, non limitandosi a offrire conforto di fronte alle sofferenze, ma cercando di proteggerci da esse, combattendole e sradicandole e a questo controllo vigile sembra richiamare anche la poesia della Semantica. Nelle sei sezioni infatti in cui è articolata Barracuda, l’autrice, per esprimere la sua poesia di impegno civile, affronta diversi temi, con un focus particolare sulla condizione femminile: “La vita sferra i suoi calci/con potenza inaudita travolge/ senza avvertenza l’essere e la grazia/l’archetipo di genere/ la minuzia dell’iperbole “(pag.31) e richiama alla mente le stragi dei bambini e le migrazioni, lasciando intravedere una rappresentazione terribile del mondo contemporaneo, responsabile della perdita della memoria storica e individuale, della capacità critica, dei valori più alti con una riflessione, che è anche un atto d’accusa: “Ci accendiamo per l’inutilità/ e intanto si consuma un olocausto/filtrato tra mezze verità/ consegnato vergognosamente/alla storia” (pag.68). L’autrice, dimostrando una notevole concretezza nell’affrontare la realtà, smaschera anche le illusioni intellettualistiche, che si rivelano essere semplici inganni privi di sostanza. E la poesia non è esente da questa analisi; ha infatti imparato a prendersi gioco di se stessa e della sua arte, in un contesto sociale segnato dalla indifferenza e dalla superficialità: “La vita è una musica/ triste che apre le braccia/ senza volare “(pag.45), o “che volete voi tutti/ siamo inesistenza reciproca/ un sillabario di passiflore” (pag.63). La vita non è un percorso sereno, ma una battaglia che ciascuno affronta quotidianamente, spesso in solitudine. L’autrice sembra indicare che la coerenza con cui si affronta questa sfida è legata alla consapevolezza che se ne ha. Allo stesso modo, il linguaggio prende vita dalla pagina bianca, come se emergesse da un silenzio profondo, attraverso immagini di intensa espressività: “Io so il silenzio fossile dei barracuda/ attestati sui balconi di cartapesta” .In questo scenario, il titolo della raccolta acquista un significato emblematico.

Maria Allo

Da Barracuda (Terra D’Ulivi Edizioni 2024):

Crederò per un attimo

 d’essere qualcosa

 di diverso da un nulla perfetto

 incastonato nello specchio

 tra il nessuno e il niente

 Guarderò l’altro negli occhi

senza un briciolo d’ossequio

 passerà sulla fronte irridente

 l’ombra del riscatto nel canto

 modulato acuto incontenibile

 sazio di vendetta sdegnato

 sdegnoso infastidito acre

 gonfio di rivolta.

(Pag.58)

*

Per i bambini annegati Signore

 per tutti i bambini annegati

 bruciati strappati spezzati

 per tutti i bambini sgozzati

 per tutti tutti i bambini

 coi loro teneri piedi e pancini

 ti prego Signore.

 Per i bambini che muoiono

 Signore

 mentre non sanno di morire

 per tutti i bambini che muoiono

 ti prego Signore

 rimpastali di nuovo dal fango

 riportali integri al mondo

 con occhi nuovi e felici

 di angeli nel paradiso

 angeli siano nel paradiso

 di una storia migliore.

 Pag.77

*

C’è un qualcosa che scorna

 sbattendo sui muri d’amianto

 e nel sorriso insolente di chi

 ha centrato il bersaglio c’è

 la perdita dell’etica trame e tragedia

 il luogo altolocato dei complotti

 e ben prima di adesso

 molto prima di qui

 la perdita del sacro.

 Brandisce le armi una guerra

cola scempio dovunque

 conduce un assalto un affondo

 nell’aria mitraglia

c’è un coltello che taglia

la violenza che grida

un mare per tomba

 una bomba.

 Piangete la domanda ora

 e il messaggio piangete

le madri col velo sulla bocca

nere fosse negli occhi

formate un bavaglio e scalciate  

fiorite di buono

abbiate stelle tra le mani

non più per l’uomo o la donna

lavorate il profondo

salvate la pelle

ai bambini

(pag.78)

LOREDANA SEMANTICA

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“Nessuno mai ha chiesto” Buon Anno nuovo con Loredana Semantica

01 mercoledì Gen 2025

Posted by Loredana Semantica in ARTI, POESIA, RICORRENZE

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Auguri, Capodanno, disegno, Loredana Semantica, POESIA

Auguriamo a tutti i lettori di Limina mundi Buon Anno 2025, un anno che speriamo porti con sé nuovi inizi, opportunità e una rinnovata serenità. Che ogni giorno del nuovo anno possa essere un passo verso la realizzazione dei vostri sogni e delle vostre aspirazioni, accompagnato da salute, felicità e successo in ogni vostro progetto. Celebriamo insieme questo nuovo capitolo, lasciamo alle spalle incertezze, pessimismo, ogni negatività e abbracciamo con fiducia ciò che il futuro ha in serbo per noi.

immagine generata da AI

Nessuno mai ha chiesto niente
non una stella o un presente
un capodanno celeste
nessuna offerta strozzata
o principesca
e i sussurri assordanti di un tempo
sono ora ridotti a un bisbiglio
un miagolio di gatto cencioso
che pare si senta
talvolta nel vento.

Lo sguardo famelico o avverso
brilla ancora di luce perversa
sfrigola in pastoie di paranoia
dove tutto il beffardo s’accende
come una fiamma bluastra di gelo
a cui corrisponde l’inverno innevato
di un ghiacciaio perenne
o brillio incandescente
di cometa.

Intanto
tra le membrane dell’amnio
rotola il nuovo
sbuca come coniglio dal cilindro
il nascituro.

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“Dintorni natalizi” di Andrea Zanzotto

25 mercoledì Dic 2024

Posted by Loredana Semantica in ARTI, Poesie, RICORRENZE

≈ 2 commenti

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Andrea Zanzotto, disegno, Loredana Semantica, Natale, POESIA

disegno di Loredana Semantica

Natale, bambino   o ragnetto   o pennino
che fa radure limpide dovunque
e scompare e scomparendo appare
        come candore e blu
        delle pieghe montane
in soprassalti e lentezze
in fini turbamenti   e più
Bambino   e vuoto   e campanelle   e tivù
nel paesetto. Alle cinque della sera
la colonnina del meteo della farmacia
scende verso lo zero, in agonia.
Ma galleggia sul buio
con sue ciprie di specchi.
Natale mordicchia gli orecchi
glissa ad affilare altre altre radure.
Lascia le luminarie
a darsi arie
sulla piazza abbandonata
col suo presepio di agenzie bancarie.
        Natali così lontani
        da bloccarci occhi e mani
        come dentro fatate inesistenze
        dateci ancora di succhiare
        degli infantili geli le inobliate essenze

Andrea Zanzotto

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Poesie dell’avvento

10 martedì Dic 2024

Posted by Loredana Semantica in RICORRENZE, Rose di poesia e prosa

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calendario d'avvento, Loredana Semantica

Poetico e ricco d’immagini questo è un calendario dell’avvento. Il dono quotidiano di una bella poesia dal 10 dicembre – Festa della Madonna di Loreto – al giorno di Natale. I disegni del calendario sono numerati coi giorni del mese di dicembre, ogni casella si attiverà al compimento del giorno, solo allora cliccandovi sopra si potrà leggere la poesia scelta. Buon avvento in poesia.

disegni di Loredana Semantica

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LA POESIA PRENDE VOCE: LOREDANA SEMANTICA

08 martedì Ott 2024

Posted by maria allo in La poesia prende voce, LETTERATURA, Podcast, POESIA

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La poesia prende voce, Loredana Semantica, Maria Allo

LA POESIA PRENDE VOCE

Scrivo poesia e mi aspetto che la poesia

che scrivo dica qualcosa del reale

di cui faccio esperienza.

Christian Prigent

Testo tratto da ” Barracuda ” Terra d’ulivi Edizioni, 2024. (Immagini e lettura della stessa autrice)

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Una poesia di Miriam Bruni, illustrata da Loredana Semantica

26 giovedì Set 2024

Posted by Loredana Semantica in ARTI, Il colore e le forme, Ispirazioni e divagazioni, LETTERATURA, POESIA, Poesie

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aquiloni, illustrazione, Loredana Semantica, Mare, Miriam Bruni, POESIA

“Mare e aquiloni” illustrazione di Loredana Semantica

Ma non chiedete al mare

sentieri,

direzioni; non aspettatevi

esaustive spiegazioni.

Lui è conferenziere

di lotte e contusioni;

ma non come tra fiere:

tra morbidi aquiloni!

Miriam Bruni

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Buone vacanze, cari

30 domenica Giu 2024

Posted by Loredana Semantica in Prisma lirico, SINE LIMINE

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Herman Hesse, Loredana Semantica, POESIA

Con la poesia “Estate” di Herman Hesse e il dipinto di Emil Nolde “Papaveri”, il sito Limina mundi augura ai lettori “Buone vacanze” e chiude l’attività per i prossimi mesi di luglio e agosto.

Arrivederci al primo settembre.

Emil Nolde “Papaveri” 

Estate di Hermann Hesse

Improvvisamente fu piena estate.
I campi verdi di grano, cresciuti e
riempiti nelle lunghe settimane di piogge,
cominciavano a imbiancarsi,
in ogni campo il papavero lampeggiava
col suo rosso smagliante.

La bianca e polverosa strada maestra era arroventata,
dai boschi diventati più scuri risuonava più spossato,
più greve e penetrante il richiamo del cuculo,
nei prati delle alture, sui loro flessibili steli,
si cullavano le margherite e le lupinelle,
la sabbia e le scabbiose, già tutte in pieno rigoglio
e nel febbrile, folle anelito della dissipazione
dell’approssimarsi della morte
perché a sera si sentiva qua e là nei villaggi il chiaro,
inesorabile avvertimento delle falci in azione.

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La lunga percorrenza. Un racconto di Loredana Semantica (parte 2)

14 martedì Mag 2024

Posted by Loredana Semantica in I nostri racconti, PROSA

≈ 1 Commento

Tag

Loredana Semantica, racconto

Qui la prima parte

ph. Loredana Semantica (sul traghetto tra Messina e Villa San Giovanni)

prosegue da qui

Il viaggio era un attraversamento nazionale, climatico, paesaggistico e urbano. Il treno fendeva la penisola come una lama. Certi tratti percorsi a rotta di collo non permettevano l’osservazione, gli occhi erano incapaci di registrare il susseguirsi di scenari, talmente veloce la corsa sui binari, tranne quando lo sguardo poteva spaziare nell’ampio respiro di paesaggi pianeggianti ed estesi, allora spostando il fuoco visuale più lontano, nel campo lungo dello scenario, c’era modo di guardare la distesa e il variare delle sfumature di verzura fin dove lo consentiva il profilo di altipiani e di colline, ch’erano argine allo sguardo. Altri tratti, specie quelli diurni, disseminati di fermate nelle stazioni, erano percorsi ad andature più moderate e consentivano la visione del paesaggio, delle opere dell’uomo, delle architetture delle case. Case dirute, case antiche, trascurate, signorili, villini graziosi coi gerani alle finestre, ville d’epoca e palazzi. Le abitazioni erano edificate per lo più in calcestruzzo, muratura o mattoni rossi, questi ultimi soprattutto nelle regioni settentrionali, nella zona di Catania invece prevaleva la pietra lavica nera nei muretti di confine, nelle costruzioni, nel contenimento dei terrapieni. Come flusso inarrestabile sotto gli occhi si susseguivano incroci di strade, scorci di paesi, la vegetazione nel suo mutare, boschi, campi coltivati o abbandonati, varietà di coltivazioni o flora spontanea, tralicci, ponti, strade, fabbriche, giardini, palme, ficodindia, nespoli, banani, robinie, platani, pioppi, querce, canali, corsi d’acqua, torrenti, fiumi e il mare, quest’ultimo una costante del paesaggio  della parte meridionale della penisola e, ancora più a sud, dell’isola, essendo la strada ferrata in quei percorsi quasi del tutto litoranea. I finestrini potevano essere abbassati fino a circa metà dell’apertura, il condizionamento dell’aria non esisteva o forse era sempre guasto. Specie d’estate per avere sollievo dal caldo si tenevano aperti i finestrini del vagone. Il risultato era che al termine del viaggio gli abiti e la persona erano intrisi di uno strano odore ferroso, misto a polvere e sudore. Il viaggio era così lungo che inevitabilmente includeva una notte trascorsa sul treno. Per riposare l’accomodamento economico prevedeva l’uso di cuccette, sei per scompartimento. I sedili erano rigidi e imbottiti di gommapiuma dura, i rivestimenti in similpelle a doppia tinta: beige e marrone. Sulla parete al di sopra del poggiatesta del posto centrale era applicato in un riquadro uno specchio, esattamente di fronte, sopra l’altro sedile, un quadretto con la cartina geografica dell’Italia, di colore seppia, coi cerchietti o i puntini a segnare città o paesi e i loro nomi. Con essa si poteva seguire il succedersi delle fermate alle stazioni, l’avanzare del treno. La notte i viaggiatori impilati come sardine sui ripiani costituiti dai pianali e dagli schienali dei sedili ribaltati e abbassati per consentire uno spazio sufficiente a distendersi, dormivano cullati dal rollio del treno o vegliavano tenuti desti dallo sferragliare delle carrozze.

Un momento particolare del viaggio era il traghettamento dello Stretto di Messina, tra la Calabria e la Sicilia. Le carrozze del treno a gruppi più o meno lunghi, a seconda della capienza dell’imbarcazione, con tutti i passeggeri dentro, venivano caricate sul traghetto che spalancava verso l’alto la sua grande bocca per consentire l’accesso alla stiva. Il traghetto attraccava all’invasatura, un incavo che aveva la forma a cuneo corrispondente alla sagoma della nave, questa veniva quindi fissata saldamente alla terraferma. Ilaria osservava con speciale attenzione il punto dove la terraferma cessava e aveva inizio la nave: sormontato da tralicci in ferro, alla base era costituito da una solida piattaforma, un ponte mobile attraversato da binari che veniva abbassato in modo che i binari della terraferma e quelli della nave si allineassero. L’insieme sembrava un miracolo di metallo che concorreva alla riuscita del trasbordo, insieme agli uomini dell’equipaggio intenti a sorvegliare, manovrare, attivare i segnali luminosi per l’arresto o il moto in entrata e in uscita alla locomotiva che svolgeva le operazioni di caricamento dei vagoni alternando movimenti di avanzamento o arretramento. Una volta che aveva introdotto nella pancia della nave un gruppo di carrozze, effettuato lo sganciamento del vagone terminale, essa arretrava per intercettare mediante lo scambio un altro binario sulla nave, procedeva quindi nuovamente ad avanzare e inserire a bordo un altro gruppo di carrozze su un binario della nave parallelo al precedente, e così di seguito in una teoria di avanzamenti e arretramenti fino a completamento del caricamento del treno. A quel punto si chiudeva il portellone del traghetto e la nave partiva per raggiungere da Villa San Giovanni Messina o viceversa. La breve traversata di poco più di tre chilometri era compiuta circa in venti minuti, quella era l’occasione per salire sul ponte della nave, farsi schiaffeggiare dal vento dello Stretto, ammirare la Madonnina, la grande statua dorata posta a proteggere Messina su una torretta sorgente dal mare, scrutare il profilo della terraferma, osservare attentamente la schiuma vorticante e le onde per scorgere nelle profondità Scilla o Cariddi, consumare una cipollina* o arancina al bar di bordo insieme a un caffè coi fiocchi. Terminata la traversata in mare di circa tre chilometri, dopo l’attracco, avveniva lo sbarco. Il treno, dopo essersi ricomposto con operazioni analoghe al caricamento sul traghetto, effettuava una lunga sosta alla stazione di destinazione, poi proseguiva il percorso.

Tutun tutun era il rumore del treno in corsa, il treno che riportava Ilaria a casa verso i ricordi e gli affetti. Tutun tutun faceva pensare al battito di un cuore, ugualmente sordo e profondo, forse per questo era un rumore che Ilaria percepiva come piacevole, familiare. Tutun tutun, quasi sempre era un battito doppio, come un botta e risposta a un discorso, un colpo e il suo ritorno d’eco. Esso s’inseriva sul rombo di sottofondo del treno in movimento, frenetico nei tratti percorsi a velocità elevata, attenuato dove rallentava. Talvolta il treno fischiava per avvisare del passaggio, altre, dopo una sosta, per allertare sulla ripresa del cammino. Senza che il motivo fosse chiaro ai passeggeri, a volte il treno frenava, qualche volta con vigore, altre più dolcemente, il ferro tra le traversine allora per l’attrito strideva acutamente, questo rumore si aggiungeva agli altri suoni prodotti dalla macchina sferragliante. Tutun tutun, attenta al ritmo Ilaria riusciva persino a dormire per qualche ora, cullata dal dondolio del treno in corsa. Lo stesso dondolio che impediva di camminare nei corridoi del treno con equilibrio sicuro. Tutun tutun Ilaria si svegliava ch’era l’alba. Il treno correva ancora dentro i budelli oscuri delle gallerie, lanciato al di sotto di montagne italiane forate come mele dai bruchi. Al termine delle gallerie il treno sbucava nella luce che, dopo la notte appena trascorsa, sembrava abbagliante. Tutun Tutun. Ilaria, ancora sospesa tra il sonno e la veglia, percepiva con gli occhi chiusi quel suono come il clangore del sole, la corsa verso l’azzurrità. Tutun tutun. Sembrava lunga la percorrenza della vita.

*un pezzo da forno di sfoglia di forma quadrata ripiena di prosciutto, salsa di pomodoro, formaggio filante, aromatizzata con cipolla

Nel video stazione di Milano Centrale, scorci di strada ferrata, strade di Catania, aeroporto Fontanarossa di Catania. Audio originale

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La lunga percorrenza. Un racconto di Loredana Semantica (parte 1)

07 martedì Mag 2024

Posted by Loredana Semantica in I nostri racconti, PROSA

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Loredana Semantica, racconto

ph. Loredana Semantica (vista dal treno sulla ferrovia litoranea nei pressi di Augusta)

Ilaria era la seconda delle tre sorelle Pastrone. Marta, la prima, s’era sposata appena ventenne, era andata in moglie a un giovane di belle speranze e molta ambizione, un propellente che lo rendeva arroccato a un rigido orgoglio di sé. Pessima dote da portare ai Pastrone, buona per un rigetto come un trapianto malriuscito, e per quanto Marta s’impegnasse a irrorare i rapporti di ciclosporina, cortisone e interferone, i rimedi avevano scarso successo. Agnese, la minore, era predestinata a raccogliere l’eredità dell’impresa familiare. Un negozio di abbigliamento messo su e ben avviato dai genitori, al punto d’essere la boutique più rinomata di Sanfilocco, in provincia di Gìtania. Agnese, dopo tanti anni di lavoro come dipendente, rilevò l’attività commerciale dalla madre, il padre era morto qualche anno prima. Lo fece obtorto collo, perché così era stato deciso, un destino già scritto verso il quale non ebbe volontà e ribellione sufficienti a opporsi, per quanto in cuor suo avrebbe preferito un’altra strada. Aveva frequentato la scuola d’arte e un lavoro creativo forse l’avrebbe attratta maggiormente, ma in certe faccende non pesano tanto i soldi e nemmeno il desiderio o l’entusiasmo, pressa il non vedere sbocchi o alternative migliori, l’essere consapevoli del rischio e dello spreco di demolire quanto già costruito in tanti anni di lavoro familiare: avviamento, credibilità, azienda, clienti, contatti, fornitori e benessere. Tutto ciò che significa impresa. Agnese diventò perciò imprenditrice per investitura familiare, senza particolare vocazione. Ilaria Pastrone, la seconda figlia, stava nel mezzo in ogni senso, non aveva talenti manifesti, piuttosto difetti, sapeva scrivere, ma non guidare, le piaceva mangiare bene, ma non cucinare, aveva un altro concetto di sé, ma difettava di determinazione. Aveva preferito studiare invece di lavorare nel negozio. Avere a che fare con una pluralità mutevole di clienti, percepiti come estranei, non l’attirava. Proprio   per la sua scarsa inclinazione al commercio i genitori l’avevano esclusa dalla gestione dell’attività. Alla fine degli anni settanta l’unico desiderio che Ilaria riuscì a focalizzare con una qualche convinzione, era di allontanarsi da casa, dai genitori che percepiva come opprimenti e da una storia d’amore naufragata. Davide, il suo ragazzo fin dai tempi del liceo, dopo sei anni di fidanzamento, l’aveva tradita e lasciata per la sua migliore amica. Una vicenda talmente banale da essere penosa. Ilaria infatti non ne parlava mai, sentendosi nel raccontarla allo stesso tempo stupida e patetica. La delusione subita la segnò a tal punto che Ilaria non si innamorò più, non si sposò e non ebbe figli. Fu come se l’aspetto sentimentale dell’esistenza fosse definitivamente morto, sepolto da quell’episodio devastante. Del resto innamorarsi veramente è un’alchimia che ha del magico, accade poche volte nella vita per circostanze che si combinano tra loro in modo speciale. L’incontro, il bisogno, l’attenzione concorrono e si intrecciano con le stimmate della fatalità e spesso la sensazione che si avverte è che non poteva essere altrimenti, quasi operasse una forza cosmica potente e misteriosa, non tanto munita di frecce e calzari alati, ma piuttosto serpeggiante di vibrazioni. Può succedere all’opposto che il tempo trascorra e nulla accada, nessun fremito o segnale. Tutto dorme o tace. C’è altro a cui pensare.

Era il 1978 quando Ilaria decise di partire per Milano. C’erano già lì due cari cugini Carlo e Luigi con le loro famiglie impiantati nel hinterland, uno a Cusano Milanino, l’altro a San Donato Milanese. Essi costituirono una buona base d’appoggio per cercare alloggio e per trovare un lavoro. Ilaria trovò entrambi, il primo in via Torre di Guardia, 14 al centro di Milano, in una casa di ringhiera e l’altro presso un’importante azienda di telecomunicazioni. Quest’ultimo divenne il lavoro di tutta una vita fino al suo pensionamento. Di case invece Ilaria ne cambiò diverse, fino a sistemarsi in ultimo in una bella casa nuova e propria appena fuori Milano. Ilaria tornava spesso al Sud, alla casa d’origine specie al principio della sua permanenza in Lombardia. Le mancavano la famiglia, il cielo, il sole, il mare. La famiglia perché a distanza i rapporti conflittuali coi genitori s’erano dissolti, mentre le sorelle, essendosi sposate, l’avevano resa zia e lei adorava i suoi nipoti. Ilaria attraversava tutta la penisola almeno una volta all’anno, in estate, per andarli a trovare e con loro ritrovare quel clima solare e limpido che caratterizzava la Sicilia, la sua isola, del tutto diverso dall’aria nebbiosa e carica di smog della città metropolitana. Quando partiva aveva la valigia piena di regali per i nipoti. Una valigia ben diversa da quella di cartone verde legata con la corda del suo primo viaggio da emigrante. Questa appena comprata era morbida e leggera in similpelle color tabacco di ottima qualità, colma di doni: abiti, giochi, immancabili pigiami e un bel costume arancione comprato per sé alla Rinascente da sfoggiare sulle spiagge della Sicilia orientale. Ilaria affrontava un viaggio lunghissimo che la portava dalla città lombarda a Sanfilocco e al ritorno viceversa. Era un viaggio estenuante, ma interessante che la rapportava alla molta e varia umanità dei compagni di viaggio, anche se la sua natura schiva non ne traeva particolare piacere. Per molti anni Ilaria affrontò il lungo viaggio in treno, ciò fino a quando l’aereo non diventò il mezzo consueto per tratte così lunghe. Il cambiamento avvenne col ribaltamento del rapporto di convenienza tra aereo e treno, ma questo non accadde subito, solo molti anni più tardi, dopo l’ingresso nel nuovo secolo. A quel punto però la spinta a viaggiare di Ilaria s’era attenuata, giunse poi a scomparire del tutto col passare del tempo e l’avanzare dell’età. Ormai a Sanfilocco, sorelle e nipoti avevano dimensionato la propria vita al progetto scelto, ai propri desideri, i genitori erano morti, si formavano nuove famiglie, nascevano i pronipoti. Restavano solo nei ricordi i lunghi viaggi compiuti col treno che negli anni settanta e dintorni erano una specie di atto eroico. I treni erano stipati di emigranti che tornavano alle loro case in vacanza. Chi in Sicilia, chi in Calabria o Campania e alle altre regioni meridionali. La misura dell’affollamento del treno era testimoniata dai viaggiatori che, ultimi arrivati, non avendo trovato posto, sostenevano il viaggio seduti su sedili retrattili a molla distribuiti lungo i corridoi, retrattili perché i sedili scattavano verso l’incavo della parete dove erano alloggiati non appena cessava il peso che li teneva aperti. Chi compiva il viaggio in questa modalità doveva alzarsi in piedi ogni volta che qualcuno intendeva passare nei corridoi per recarsi ai servizi o scendere alla stazione successiva. Il passeggero ciondolava scomodo e sonnacchioso per tutto il resto del tempo. Erano necessarie ventiquattr’ore per percorrere oltre millecinquecento chilometri di ferrovia. Alla fine del viaggio i wc erano impraticabili. I cestini traboccanti di carta igienica sporca e cartacce, bucce di banana e arance. Il pavimento era sudicio e infangato, nauseante l’olezzo dell’urina. (segue)

ph. Loredana Semantica (scorci di ferrovia nella tratta Catania Siracusa)

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“Altre Stagioni di morte e di amore” di Ester Guglielmino

16 martedì Apr 2024

Posted by Loredana Semantica in LETTERATURA, POESIA, Poesie

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Altre Stagioni di amore e di morte, Ester Guglielmino, Loredana Semantica, POESIA

Dalla Nota dell’autrice alla raccolta Altre Stagioni di morte e di amore, PlaceBook Publishing, 2024

“Arriveranno altre stagioni, e noi staremo ad aspettarle. Col naso in aria, affacciati alla finestra e con quella voglia continua di cambiare il ritmo di ogni giorno. Torneremo a desiderare la primavera col suo profumo fresco e il taglio sbarazzino, l’opulenza dell’estate con i suoi fianchi larghi e colmi di splendore, ci innamoreremo dell’autunno col suo cappello a cono e il bastone d’ulivo ritorto che batte foglie morte, anche l’inverno infine tornerà a cullarci col suo vento freddo e a baciarci con le sue labbra secche, bruciate dalla neve. Seguiremo il tempo e il suo eterno movimento, perché è così che si stempera l’inganno della vita, perché è così che si compie da sempre il nostro viaggio.”

La raccolta si articola in 4 sezioni intitolate a ciascuna stagione dell’anno, di seguito quattro poesie scelte dalle sezioni “Primavera” e “Autunno”.

Primavera, I e II

Non cantai la mela
ma il morso inciso
nel bianco della polpa,
non la luna piena
ma lo spicchio sottile
nel cielo nero nero,
non cantai il frutto
ma il destino scritto
del fiore appena colto,
non la gioia del saluto
ma ogni partenza
e il suo dolore muto,
e se non cantai mai
la pienezza
è perché la poesia
carezza
il vuoto asciutto
che sta
nella mancanza.
*
Ti porto la parola storta
cresciuta sopra i rami,
il caffè versato caldo
sul bianco del ricamo,
ti porto i piedi nudi
sul ciglio della strada,
l’inciampo irriverente
sul dorso del mio nome,
ti porto nel mio mondo
ch’è poco più di niente,
aperto come un tronco
ch’aspetta un nuovo fiore.

Autunno, IV e IX

Siamo della madre
che non ci ha voluto
del padre distratto
dell’amore sbagliato,
siamo dell’altro.
Di ogni giudice
che ha condannato
il nostro torto,
di ogni prete che
ci ha ascoltato, e poi
non ci ha assolto.
Siamo del maestro
che ci ha ammaestrato,
del figlio sbagliato,
siamo – volto contro volto –
di ogni passante
che ci ha incrociato

-per strada –
ma non ci ha mai
guardato.

*
Ho palpebre spesse, più del sorriso
dell’ultima volta che t’ho visto;
il passo svelto, non cadenzato
sulla lunghezza dello sguardo
e neve sul collo che gela i nervi
e serra gli occhi agli angoli d’intorno.
Mi affaccio ancora alla finestra –
la domenica mattina – e guardo fuori:
c’è un sentiero di parole che fiorisce
sul ramo muto della tua voce.

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La scrittura che rivela – Dialogo con quarantatrè autori contemporanei

12 martedì Mar 2024

Posted by Loredana Semantica in CRITICA LETTERARIA, LETTERATURA, Segnalazioni ed eventi

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La scrittura che rivela, Loredana Semantica, Macabor, Maria Pina Ciancio

Il libro “La scrittura che rivela – Dialogo con quaratatrè autori contemporanei”, a cura di Maria Pina Ciancio, è stato pubblicato da Macabor nel 2023 nella collana “saggi e antologie”. La copertina è un’elaborazione grafica di Giorgio Ferrarini dell’opera Sanftmütiger Zyklop (Ciclope mite) Ferdinand Seiler, 2021.

La raccolta accoglie gli scritti di alcuni autori italiani contemporanei sul tema della scrittura come atto solitario, intimo e privato, sul senso che la parola scritta ha per ciascuno e sul rapporto della scrittura con l’altro e col mondo esterno. Gli altri autori presenti sono: Maria Allo, Lucianna Argentino, Francesco Arleo, Eleonora Bellini, Domenico Brancale, Michele Brancale, Luigi Cannillo, Roberto Ceccarini, Maria Benedetta Cerro, Maria Pina Ciancio, Domenico Cipriano, Lorenza Colicigno, Pino Corbo, Anna Maria Curci, Mariella De Santis, Francesco De Girolamo, Annamaria Ferramosca, Fernanda Ferraresso, Antonio Fiori, Mario Fresa, Gabriella Gianfelici, Marco Giovenale, Stefano Guglielmin, Gina Labriola, Maria Lenti, Paola Loreto, Anna Rita Merico, Marina Minet, Ivano Mugnaini, Giovanni Nuscis, Rita Pacilio, Antonella Pizzo, Grazia Procino, Maria Pia Quintavalla, Daniela Raimondi, Alessandro Ramberti, Margherita Rimi, Loredana Semantica, Antonio Spagnuolo, Rossella Tempesta, Silvano Trevisani, Giuseppe Vetromile, Bonifacio Vincenzi

Proponiamo di seguito due stralci tratti dal libro stesso. Precisamente la parte centrale della nota di chiusura di Maria Pina Ciancio, e, più sotto, in carattere corsivo, l’incipit dell’intervento di Loredana Semantica. Il testo integrale e gli altri interventi potrete leggerli integralmente acquistando il libro qui o sul sito della casa editrice o negli altri store specializzati on line.

“Rileggendo d’un fiato tutti gli interventi raccolti in questo saggio, ho avuto la sensazione di sentirmi frammento di qualcosa di più ampio. Ogni intervento coglie aspetti, sfumature e modulazioni dello scrivere che spesso non avrei saputo dire o raccontare. Ci sono esperienze che mi sono più vicine, altre che mi illuminano e chiariscono, mi lasciano in riflessione. Ciò che ne emerge è la sensazione che la scrittura assolva in qualche modo a un tentativo di ricerca interiore e di conoscenza che taluni sentono come strumento, altri come compagna di viaggio. Ricerca dell’essenziale, dunque, dell’innocenza perduta, rivelazione di un segreto, esercizio spirituale, e tanto altro ancora. La scrittura, come si può leggere in alcuni interventi, può acquisire, inoltre, significato di rifugio e di salvezza sia dal dolore intimo e privato, sia dai grandi dolori del mondo e dunque, come direbbe Bukowski, si fa salvifica e terapeutica, mondo ritrovato, terra nuova dove poter vivere: «Sento che la scrittura è sempre lì, sento le parole azzannare la carta, e ne ho bisogno come non mai. Lo scrivere mi ha salvato dal manicomio, dall’assassinio e dal suicidio. Ne ho bisogno ancora. Adesso. Domani. Fino all’ultimo respiro.» Che la cultura, i libri, la scrittura salvi oppure no, non ha importanza, ciò che importa è che è un prodotto dell’uomo in cui esso si proietta, sfida se stesso, si riconosce. Ci sono poeti che vivono l’esperienza della parola come libertà, come scatto di ribellione, come appagamento e gioia creativa, altri come dannazione o precarietà, sofferenza, fatica, sudore, o addirittura pudore, inadeguatezza (mi piace sottolineare la parola pudore che oggi abbiamo pressoché bandito dalla nostra vita pubblica e privata a discapito della sfrontatezza e della sfacciataggine).”

Maria Pina Ciancio

Nel fiore della mia gioventù non avrei creduto a chi mi avesse detto che un giorno avrei scritto poesia. Ancora adesso faccio fatica a dirmi poeta. La domanda a cui rispondere tuttavia riporta più propriamente al termine “scrittura” e non “poeta”, cioè al prodotto e non al soggetto producente, e alle relazioni. Ritorno al tema e dico che la mia professione mi ha dato occasione di confrontarmi con la scrittura, apprendendo on the job un certo modo di scrivere burocratico che inizia con “si riscontra” e passando per la S.V., approda a “pregasi accusare ricevuta”. Più di recente va detto la comunicazione dell’Amministrazione pubblica ha teso alla semplificazione del linguaggio, sfrondandolo dalle tare del burocratese: forme passive, impersonali, oscurità di linguaggio, circonlocuzioni e altro. Ho gestito questo transito avvenuto nell’ultimo decennio, conoscendo però le impostazioni del passato. Già in precedenza gli studi di diritto mi avevano formato ad una scrupolosa attenzione per la terminologia, perché sull’uso improprio di un termine si può giocare l’intero concetto, l’intero esame, l’intera causa legale, un intero rapporto con l’altro, amico, estraneo che sia. Direi che preminentemente è lo studio ad avermi resa cauta nell’uso dei termini, a vigilare costantemente sulla parola usata, la singola parola e il loro insieme nella connessione logica dei termini. Ciò vale tanto nella parola detta che scritta, ma nella consapevolezza che l’espressione verbale è più imprecisa e volatile, mentre quella scritta è più studiata, ancorata a un supporto digitale o analogico, quindi più duratura e trasferibile nei luoghi e nel tempo, può produrre effetti lunghi e imprevisti anche nel rapporto con l’altro, secondo i tempi e la volontà di reazione, in relazione alla capacità di comprensione di quest’ultimo. Per questa ragione anche la chiarezza e la sinteticità erano altri “spiriti guida” della personale scrittura.

La scrittura è stata poi una sorta di salvacondotto nelle relazioni. Nel rapporto con l’altro ha sempre pesato la mia natura riservata, non desiderosa di apparire, accompagnata dalla percezione dei limiti di ogni mostrarsi/relazionarsi a causa della falsità e dell’inganno reciproco che esso concretizza. Per spiegarlo con maggiore semplicità, quanti falsi sorrisi spendiamo? Ciò ha reso la scrittura un mezzo per comunicare, interponendo il medium dei segni grafici e del loro assemblarsi che assume senso per convenzione oggettiva, maturata nel tempo tra gli uomini in significante e significato. Scrivere per me è stato da sempre perciò un modo per lavorare il più possibile asettico, comunicare, relazionarmi, potendo nello scrivere soppesare maggiormente il testo, evitare il contatto visivo e verbale perché questi ultimi, unitamente ai contenuti della conversazione privata, sono modalità con le quali le persone si formano la propria impressione sull’altro, formulano giudizi, apprendono informazioni private che poi trasferiscono o peggio ancora diffondono più o meno consapevolmente, inserendo e concorrendo a inserire ogni persona in schemi mentali-critici di valutazione e giudizio per servirsene a proprio vantaggio.

Loredana Semantica

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L’amico migliore. Un racconto di Loredana Semantica

28 mercoledì Feb 2024

Posted by Loredana Semantica in I nostri racconti, LETTERATURA, PROSA

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L'amico migliore, Loredana Semantica, un racconto

disegno digitale di Loredana Semantica

La notte del 20/11/2020 Delia, impiegata di Pisa, quarantasettenne, lunghi capelli biondi, occhi azzurri, occhiali spessi e tanti progetti dismessi, aveva fatto un sogno. La data del sogno già di per sé sembrava comunicare un senso, aveva pensato Delia, il concatenamento numerico era evidente, la ripetizione insistente del numero venti lo rendeva numero angelico. Cercando in internet lesse che esso suggerisce di restare concentrati sulla propria vita spirituale, mentre l’undici era numero da riferire a intuizione, saggezza, percezione e capovolgimento della situazione. E poi c’era quel sogno. Era stato talmente reale che le era sembrato di sentire i profumi dei fiori, il soffio del vento leggero sulla pelle, come se nel sonno fosse stata trasportata in un altro luogo, un altro mondo, un’altra dimensione. Ne era rimasta impressionata al punto che sentì il bisogno la mattina dopo di raccontarlo al marito. Luciano l’ascoltò con attenzione, ma non espresse commenti, al termine sorrise paziente, le fece una breve carezza, poi corse al lavoro nel suo studio di architetto che ultimamente lo assorbiva oltremodo.

Delia non paga di aver condiviso con la sua dolce metà il sogno, lo volle raccontare anche a una cara amica. Ludovica appena immessa in ruolo e trasferita a Lucca a insegnare matematica in una scuola media statale.  Ludovica aveva da poco passato i trent’anni, fisico sottile, ben strutturato e allenato, occhi verdi, capelli corti, castani, mossi, aveva un fidanzato storico, Andrea che l’aveva seguita a Lucca, sperando di poter trovare un’occupazione da informatico migliore di quella finora svolta e, a suo giudizio, malpagata. Delia chiamò Ludovica al telefono nel pomeriggio. Dopo i convenevoli e il racconto dell’esperienza di Ludovica nella nuova scuola, Delia per la seconda volta nella giornata parlò del suo sogno e, nel raccontarlo, fu ancora più precisa, le tornarono in mente tutti i particolari.

“Sai Ludovica” diceva “è stato un sogno bellissimo. Il paesaggio era sereno, luminoso anche se non si vedeva il sole, l’aria appena tiepida, il cielo azzurro acquamarina era disseminato di piccole nuvole rade e spumose, la terra era un saliscendi di cune e dune erbose e sullo sfondo altre dune d’altre tonalità di verde: mela, bottiglia, militare, smeraldo, petrolio… I declivi a perdita d’occhio nascondevano l’orizzonte. Al centro di un prato c’era un cagnolone nero. Il pelo, lucido lungo, folto, fine e morbido. Stava a pancia all’aria, il dorso aderente al prato, sul verde color pisello muoveva allegramente fianchi e coda, piegando il possente torace a destra e a sinistra e i fianchi dal lato opposto con una dinamica ad esse divertente e animata.” Delia prese un attimo fiato, poi proseguì “un’orecchia ripiegata gli ricadeva sugli occhi, l’altra riversa all’indietro mostrava il rosa del padiglione auricolare. Da sotto l’orecchia piegata spuntava l’occhio che sembrava ridesse. Ludovica, io non lo so se può ridere l’ occhio di un cane, ma ti assicuro che sembrava proprio così”

Ludovica la rassicurò “Ma tranquilla Delia, è di certo come racconti. Alcune cose si sentono più che vedersi, ma il cane però aveva una posa davvero buffa, e poi …” “e poi” Delia proseguì la descrizione “il muso era semiaperto sulle zanne in mezzo alle quali spuntava la lingua sottile e rosata, tenera come una fetta di mortadella. L’altro occhio era ben aperto sul bianco della sclera, al centro tondeggiava il marrone scuro dell’iride, il nero della pupilla. Agitava le zampe protese verso l’alto, piegate all’altezza del gomito, il pelo a bandiera, nero dalle punte rossicce, col movimento sventolava. All’estremità delle zampe il rigonfiamento ruvido e sodo dei cuscinetti che terminava nelle unghie brunite, limate dal correre e saltare”.”Cara Ludovica” proseguì Delia “io so riconoscere un cane felice, lo so riconoscere bene. Addirittura, ci crederesti? M’è parso quasi che mi strizzasse l’occhio come un cenno d’intesa e ho capito pure cosa voleva dire: che era un piacere stare bene, grattarsi la schiena contro l’erba fresca, sentire il corpo sano, forte, vigoroso nello splendore della gioventù”. Ludovica l’aveva ascoltata quasi senza interromperla, solo a questo punto osò dire qualcosa “Delia cara hai fatto davvero un bel sogno, era proprio lui, come se fosse ancora con te”. Ludovica era un’amica affettuosa, empaticamente comprendeva l’amica, ma non aveva mai avuto un animale domestico, solo qualche pesce rosso poco longevo, naufragato nelle fogne cittadine via tazza del water. Dopo un attimo commosso di silenzio Delia riprese a parlare “Ecco Ludovica è così che ho sognato il mio cane ieri notte. Appena una settimana dopo che mi aveva lasciato per sempre. Non so se vi sia un paradiso dei cani. Se il mio desiderio ha guidato il mio sonno. Se da quel paradiso mi ha mandato un messaggio. So che lui era la mia rosa del piccolo principe. Mi aveva conquistata, l’avevo addomesticato. Era un tesoro vivente nelle mie mani”. Poi le due amiche parlarono d’altro, del lavoro, del tempo, di abbigliamento. Si salutarono quando Andrea chiamò Ludovica per uscire a sbrigare commissioni.

Delia non superò facilmente il dolore di questa perdita, le ci volle molto molto tempo. Non ne parlava volentieri perché ogni volta il dolore si riaccendeva nella commozione. Si vergognava di soffrirne in modo così evidente e più intensamente che se fosse il lutto di un parente intimo. L’unica spiegazione che si dava era che si trattava di un dolore strettamente intrecciato al senso di colpa e al senso di responsabilità: di non aver fatto abbastanza per salvarlo, per renderlo felice, di non averlo curato e amato a sufficienza, di non aver capito ch’era la fine e non averlo perciò confortato. Solo dopo circa un mese sentì che il dolore si stava attenuando e una notte riuscì a formulare nel segreto del suo cuore il primo vero addio alla bestiola amata: “Ti sia leggera la terra, mio grande amico. Ora ti sostiene un prato di margherite, ti avvolge l’azzurro di un lenzuolo stellato e l’abbraccio di una coperta d’infanzia”

L’animale era stato calato nella profonda fossa di tumulazione con un lenzuolo celeste disseminato di puntini azzurri, passato sotto la carcassa, sorretto alle estremità, era servito a compiere lentamente l’operazione di deposizione. Il corpo era stato prima avvolto in un lenzuolo stampato a foglie verdi e margherite, poi in una coperta a quadri.

Delia quella notte si addormentò pensando che non aveva mai avuto amico migliore, più buono, più saggio e sincero, e da lì, da quella rassegnazione, dalla consapevolezza ch’era stata una ricchezza averlo avuto per tanti anni con sé, la serenità riprese ad abitarla.

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Nel giorno della memoria

27 sabato Gen 2024

Posted by Loredana Semantica in RICORRENZE

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Giorno della Memoria, Hannah Arendt, La banalità del male, Loredana Semantica

Nel 1963 fu pubblicato il saggio di Hannah Arendt  “Eichmann in Gerusalemme. Un report sulla banalità del male”, un diario che la Arendt, inviata del settimanale The New Yorker, tenne sulle sedute del processo ad Adolf Eichmann, militare e funzionario nazista. Catturato dal Mossad in Argentina nel 1960, Eichmann fu processato a Gerusalemme nel 1961 e condannato a morte per genocidio e crimini contro l’umanità. La sentenza fu eseguita nel 1962.

I brani che seguono sono tratti dal saggio.

“Se ci siamo soffermati tanto su questo aspetto [1] della storia dello sterminio, aspetto che il processo di Gerusalemme mancò di presentare al mondo nelle sue vere dimensioni, è perché esso permette di farsi un’idea esatta della vastità del crollo morale provocato dai nazisti nella “rispettabile” società europea – non solo in Germania ma in quasi tutti i paesi, non solo tra i persecutori, ma anche tra le vittime. Eichmann, a differenza di tanti suoi colleghi, era stato sempre affascinato dalla “buona società”, e la correttezza con cui spesso si era comportato con i funzionari ebrei di lingua tedesca era in gran parte dovuta a una specie di senso di inferiorità. Egli non era affatto, come lo chiamò un testimone un landsknechtnatur, un mercenario smanioso di fuggire in regioni dove non vigono i dieci comandamenti e dove ciascuno può sfogare i suoi istinti. Se in una cosa egli credette fino alla fine, fu nel successo, il distintivo fondamentale della “buona società” come la intendeva lui. Tipico fu l’ultimo giudizio che egli espresse su Hitler, disse “avrà anche sbagliato su tutta la linea; ma una cosa è certa: fu un uomo capace di farsi strada e salire dal grado di caporale dell’esercito tedesco al rango di Führer di una nazione di quasi ottanta milioni di persone… Il suo successo bastò da solo a dimostrarmi che dovevo sottostargli.”  Egli non ebbe bisogno di “chiudere gli orecchi” come si espresse il il verdetto, “per non ascoltare la voce della sua coscienza”: non perché non avesse una coscienza, ma perché la sua coscienza gli parlava con una “voce rispettabile”, la voce della rispettabile società che lo circondava.”

…

“Il problema della coscienza di Adolf Eichmann, che è notoriamente complesso ma nient’affatto unico, non può essere paragonato a quella della coscienza dei generali tedeschi, uno dei quali, quando a Norimberga gli chiesero “Com’è possibile che voi tutti rispettabili generali abbiate seguitato a servire un assassino con tanta fedeltà?” rispose che non toccava a un soldato ergersi a giudice di un suo comandante supremo: “Questo tocca alla storia, o a Dio in cielo.” (Così il generale Alfred Jodl, impiccato a Norimberga.) Eichmann, molto meno intelligente e per nulla istruito, capì almeno vagamente che a trasformarli tutti in criminali non era stato un ordine, ma una legge. La differenza tra ordine e “ordine del Führer” era che la validità del secondo non era limitata nel tempo o nello spazio, mentre questo limite è caratteristica precipua del primo. Inutile aggiungere che tutti questi strumenti giuridici, lungi dall’essere semplice frutto della pignoleria o precisione tedesca, servirono ottimamente a dare a tutta la faccenda una parvenza di legalità.  E come nei paesi civili la legge presuppone che la voce della coscienza dica a tutti “Non ammazzare”, anche se talvolta l’uomo può avere istinti e tendenza omicide, così la legge della Germania hitleriana pretendeva che la voce della coscienza dicesse a tutti: “Ammazza”, anche se gli organizzatori dei massacri sapevano benissimo che ciò era contrario agli istinti e alle tendenze normali della maggior parte della popolazione. Il male, nel Terzo Reich, aveva perduto la proprietà che permette ai più di riconoscerlo per quello che è – la proprietà della tentazione. Molti tedeschi e molti nazisti, probabilmente la stragrande maggioranza, dovettero esser tentati di non uccidere, non rubare, non mandare a morire i loro vicini di casa (ché naturalmente, per quando non sempre conoscessero gli orridi particolari, essi sapevano che gli ebrei erano trasportati verso la morte); e dovettero essere tentati di non trarre vantaggi da questi crimini e divenirne complici. Ma Dio sa quanto bene avessero imparato a resistere a queste tentazioni.”

….

“Il 30 giugno del 1943, molto più tardi di quanto Hitler aveva sperato, il Reich (Germania, Austria e Protettorato) fu proclamato judenrein[2]. Non abbiamo statistiche che ci dicano con precisione quanti ebrei erano stati deportati da quest’area, ma sappiamo che delle duecentosessantacinquemila persone che, secondo fonti tedesche, già erano state deportate o erano candidate alla deportazione nel gennaio del 1942, pochissime sfuggirono: forse qualche centinaio al massimo qualche migliaio riuscirono a nascondersi e a sopravvivere alla guerra. E quanto fosse facile tranquillizzare la coscienza della popolazione tedesca lo si vede bene dalla spiegazione ufficiale che delle deportazioni dette la cancelleria del partito in una sua circolare del 1942: “  È nella natura delle cose che questi problemi, sotto certi aspetti difficilissimi, possano essere risolti nell’interesse della sicurezza permanente del nostro popolo soltanto impiegando una spietata durezza”

Nella Germania del dopoguerra, dove la gente è divenuta addirittura geniale nel sottovalutare il suo passato nazista, la “spietata durezza” – una qualità a suo tempo altamente apprezzata dai governanti del Terzo Reich – viene spesso chiamata Ungut, ossia un “non bene”, una forma di “cattiveria” quasi che il solo difetto di chi la possedeva fosse una deplorevole incapacità ad agire secondo i principi della carità cristiana.”


[1] la collaborazione dei capi ebraici con i nazisti

[2] depurato da ebrei

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uNa PoESia A cAsO: Giorgio Caproni

19 martedì Dic 2023

Posted by Loredana Semantica in ARTI, Il colore e le forme, LETTERATURA, uNa PoESia A cAsO

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Giorgio Caproni, illustrazione, Loredana Semantica, POESIA

disegno digitale di Loredana Semantica

Non sempre i grandi poeti hanno scritto capolavori. Una poesia a caso non intende dimostrare l’assunto, propone solo una poesia scelta a caso, aprendo una pagina a caso, delle raccolte complete di grandi poeti. Una sorta di random poetico alla scoperta di poesie note e meno note dei grandi. Una proposta sine limine, in linea con lo spirito di questo sito.

Oggi è la volta di Giorgio Caproni

Ahi treno lungo e lento
(nero) fino a Benevento.
Mio padre piangeva sgomento
d’essere cosi vecchio.

Piangeva in treno, solo,
davanti a me, suo figliolo.
Che sole nello scompartimento
vuoto, fino a Benevento!

Io nulla gli avevo detto
standogli di rimpetto.
Per Bari prosegui solo:
lo lasciai li: io, suo figliolo

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uNa PoESia A cAsO: Wislawa Szymborska

12 martedì Dic 2023

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illustrazione, Loredana Semantica, POESIA, Wisława Szymborska

disegno digitale di Loredana Semantica

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Oggi è la volta di Wislawa Szymborska

La stanza del suicida

Certo pensate che la stanza fosse vuota.
E invece c’erano tre sedie con robusti schienali.
Una lampada buona contro il buio.
Una scrivania con sopra un portafoglio, giornali.
Un Buddha sereno, un Cristo afflitto.
Sette elefanti portafortuna, nel cassetto un’agenda.
Pensate che non ci fossero i nostri indirizzi?

Pensate che mancassero libri, quadri, dischi?
E invece c’era una trombetta consolatrice in mani nere.
Saskia e il suo cordiale piccolo fiore.

La gioia, scintilla degli dèi.
Ulisse sul ripiano nel sonno ristoratore
dopo le fatiche del quinto canto.
I moralisti,
nomi scritti a lettere d’oro
sui dorsi ben conciati.
Lì accanto i politici stavano ben ritti-
E quella stanza
non sembrava priva di vie d’uscita, magari dalla porta,
né senza prospettive, magari dalla finestra.
Gli occhiali da vista erano sul davanzale.
Una mosca ronzava, ossia era ancora viva.

Pensate che almeno la lettera spiegasse qualcosa.
E se vi dico che non c’erano lettere –
e noi, gli amici – tanti -, ci ha tutti contenuti
la busta vuota appoggiata a un bicchiere.

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uNa PoESia A cAsO: Sylvia Plath

05 martedì Dic 2023

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illustrazione, Loredana Semantica, POESIA, Sylvia Plath

opera digitale di Loredana Semantica

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Oggi è la volta di Sylvia Plath

Nave d’inverno

Non vi sono maestosi approdi a questo molo:
chiatte rosse e arancioni, vescicose, sbandano
incatenate alla banchina, antiquate, vistose
si direbbe indistruttibili.
Il mare pulsa sotto una membrana d’olio.

Un gabbiano immobile in cima alla traversa di un capanno
galleggia sulla marea del vento, saldo
come se fosse di legno e formale nella sua marsina di cenere,
l’intero porto piatto ancorato
nel disco della sua pupilla gialla.

Sopra la distesa ghiacciata di pesci un pallone sonda
sorge come la luna diurna o un sigaro di latta.
È una scena piatta, come una vecchia acquaforte.
Stanno scaricando tre barili di granchiolini.
I piloni del pontile sembrano prossimi a crollare

e con loro quello sgangherato ammasso
di magazzini, bighi, ciminiere e ponti
in lontananza. Tutt’intorno a noi l’acqua scivola
e ciangotta nel suo sciatto dialetto,
trasportando odori di merluzzo morto e catrame.

Più al largo, le onde biascicheranno blocchi di ghiaccio –
brutto mese per i barboni nei parchi e innamorati.
Persino le nostre ombre sono livide di freddo.
Volevamo vedere sorgere il sole
E ci accoglie invece questa nave rivestita di ghiaccio

Barbuta e guasta, un albatro di gelo
sopravvissuta alle burrasche, ogni argano e straglio
Racchiuso in una pellicola di vetro.
Il sole non tarderà a ridimensionarla;
ogni cima d’onda luccica come un coltello.

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uNa PoESia A cAsO: Giorgio Caproni

28 martedì Nov 2023

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Giorgio Caproni, illustrazione, Loredana Semantica, POESIA

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Oggi è la volta di Giorgio Caproni

Arpeggio

Cristo ogni tanto torna,

se ne va, chi l’ascolta…

Il cuore della città

è morto, la folla passa

e schiaccia – è buia massa

compatta, è cecità

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