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LIMINA MUNDI

~ Per l'alto mare aperto

LIMINA MUNDI

Archivi tag: Silvio Aman

“Anfore dal cielo” di AA.VV., Àncora Editrice, 2023. Recensione di Silvio Aman

09 lunedì Set 2024

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA, Recensioni

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Anfore dal cielo, Silvio Aman

 

AA.VV., Anfore dal cielo (prefazione di Mons. Giovanni Giudici, postfazione di Giovanni Rossella) Milano, Àncora Editrice, 2023, pp. 110, € 12.

 

Anfore dal cielo (titolo estratto da Save the seed, di Anna Vercesi) forma un grazioso volumetto in cui le brevi raccolte delle Autrici si succedono attraverso le poesie-snodo in funzione di dedica, col risultato di collegarle tutte nello stesso sentimento di amorosa partecipazione alla natura (come creazione in senso biblico) in cui “vi è pure il richiamo all’esperienza cristiana” come nota giustamente Mons. Giovanni Giudici nella sua prefazione. Di fatto, i riferimenti delle Autrici alle virtù teologali di fede, speranza e carità costellano le loro esperienze di donne e madri, e lo fanno in modo corale nei “differenti stili” come indica il postfatore Luciano Rossella. L’anfora, sotto il profilo simbolico è un contenitore totale che riguarda l’aspetto contemplativo della natura e di partecipazione alla realtà, del resto ben espressi a vario titolo dalle quattro Autrici, le quali alternano la misura epigrammatica a tenore mistico all’estensione argomentante, a volte sfiorando le durezze dell’invettiva, come in Lorenza Auguadra, per la quale “Pregare/ è la mistica di un verso”.

 

La parola trova il cuore

da buio a luna piena

la croce lascia un corpo

di luce dalla tenebra.

(Promessa, p. 17)

 

Un tondo

a rassicurare la notte

cielo resuscitato

misura di pienezza

per occhi rinnovati.

(Luna piena, p. 26)

 

La presenza della luna, oltre che della croce, ci riporta ai dipinti di Caspar David Friedrich, come simbolo della luce e di Cristo.

Le poesie di Adriana Rinaldi sono una laude del creato inteso come creazione del Padre fonte di amore, senza incertezza, mentre la scienza, laddove si estranea dalla fede procede nella continua rettifica delle sue ricerche su basi deterministiche.

Sono nata nell’Amore

nel legame serrato

che conduce dalla terra

al cielo

sono nata in divenire, perfettibile

[…]

sono nata Creatura

fatta di carne e di spirito

[…]

sono nata figlia

di un Padre che nutre le stelle

[…]

(Eccomi, p. 36)

 

Il dittico Il figlio alla Madre, la Madre al figlio vuol essere anch’esso una laude della reciprocità (mentre la teoria psicanalitica testimonia l’irreciprocità strutturale dei rapporti) in cui non per nulla troviamo significanti come “riflesso” “specchio” “impronta” “sguardo” nonché l’uso del maiuscolo…

 

Sei il riflesso

del mio esistere.

Sovrano volto,

specchio del mio mondo.

(ivi, p. 39)

 

Le braccia vanno allargate

gli occhi aperti

le bocche devono contemplare

le meraviglie assolute

della Gratuita Esistenza!

(Affidarsi, p. 41)

 

L’Amore è il culmine della gioia

quando all’orizzonte vedi

il corpo dei tuoi pensieri

e il sorriso del sole.

(Amarsi, p. 42)

 

Poesia dell’apertura, della fede e dell’incessante fervore (“Vivo ogni istante/ come dono di eternità”. Eternità, p. 50) anzi dell’ebrezza…

 

la vita geme e sospira –

si ubriaca d’Amore

vive e giace.

Riaffiora il Canto

s’ode in lontananza

il lamento.

(S’ode in lontananza, p. 44)

 

che oltre a Whitman parrebbe ricordarci Baudelaire:

 

Il faut être toujour ivre.

Tout est là:

c’est l’unique question.

Pour ne pas sentir

l’horrible fardeau du Temps

qui brise vos épaules

et vous penche vers la terre,

il faut vous enivrer sans trêve.

Mais de quoi?

De vin, de poésie, d’amour ou de vertu

à votre guise.

Mais enivrez-vous.

 

Anche Teresa Scroccarello parla di eternità e mistero, ma le sue poesie sono maggiormente legate alla sfiducia nelle parole…

 

Impermeabile Eternità

fissa costante, durevole non modificabile.

Tutto assembla Oltre –

neanche più le parole bastano

ma un silenzio duro e forte

mi trascina a Te, Eternità

(Oltre, p. 61)

 

Il suo Dio è oscuro (una sorta di pascaliano Deus absconditus) e raggiungibile solo per via negativa, non come una meta predefinita…

 

Dio,

silenzio che chiami

ad una quiete piena

d’inquietudine –

della Tua presenza

sono inquieta

non so mai cosa vuoi

non sono le mie emozioni

e il tuo volere è così oscuro

[…]

(Questo è il dono del silenzio, p. 62)

 

L’uso dell’ossimoro di “quiete piena/ d’inquietudine” lascia da parte ogni festosa eccitazione: “Qual è la Volontà/ di un Dio pieno di silenzio”. Il suo silenzio fa ammutolire. Qui, benché la Trinità, secondo il dogma, non possa scindere le tre persone, Teresa pare nutrire maggior vicinanza con Gesù, l’uomo che ha vissuto, come si evince dal brano Al volto Santo di Manoppello A.D. 2006 (pp. 63-64) dove, con la personificazione del silenzio, troviamo: “Io non so pregare, il silenzio prega in me”.

In Preghiera (p. 66) parremmo riascoltare la voce di Giobbe:

 

Triste, svuotato d’animo come di pietra

è il mio cuore, ai piedi di questo Altare,

invoco il Tuo richiamo.

Aiuto, cerco Te per trovare me, Signore.

Neppure le parole osano, mi tradiscono

[…]

A che serve un fuoco che brucia

se non accende l’altro?

Un fuoco solitario?

A che serve condivisione, riconoscimento

[…]

Ho una solitudine, riempimi di Te – Oh Signore!

 

La fede nel Dio silenzioso (le parole tradiscono) qui pare intrecciarsi con l’aspetto esistenziale, cioè con la mancanza di amore. Come per le mistiche, le quali parlano dello Sposo divino, è nella solitudine che il Signore può far avvertire la propria presenza, sia tramite le sacre figure intermediarie (ma verso l’oltre, ad esempio tramite l’icona descritta da Florenskij) sia direttamente come nei ratti di Maddalena de’ Pazzi, sia nella nebbia, come qui, sia infine nell’oscurità, come in San Giovanni della Croce, con diverse gradazioni…

 

Nella nebbia appare il dolce Volto

Tu ragione del mio essere

eppure nella mia casa il quotidiano freme

nulla di più importante

mi stringe a queste mura.

(Nazareno, p. 67)

 

Anna Vercesi, le cui poesie sono ora parenetiche ora volte alla laude come in Rosa pulchrissima, alias Regina Cieli, auspica “l’incontro con l’altro” specie se derelitto, seguendo con ciò le parole di Gesù…

 

Cosa saremmo senza l’incontro con l’altro?

L’altro

Cane scalzo nell’ombra

L’altro

[…]

Apri il cuore che ce l’hai

Ritrovati, che il Signore della sera

Fa sbocciare ancora i fiori tardivi

Nell’enigma universale dell’amore

Che ama senza disarmanti aspettative.

(Scalzi, p 82)

 

L’incontro non c’è se non come sogno, mentre pochi metterebbero in dubbio il reale bellum omnium contra omnes, frase ripetuta da Linneo, se anche nei giardini, dove in superficie tutto ci appare armonioso e in pace, domina la cruenta necessità della natura, con i batteri atti a demolire l’humus, gli insetti killer, i bruchi devastatori e via così… Ma appunto per questo sorge l’anelito all’“euneirofrenia” e all’“incontro” come sogno del bello e della pace.

Trovo interessante, il complemento di specificazione “della sera” riferito al Signore nel tempo della kènosis del Cristianesimo. Anna Vercesi chiude così la poesia Shalom, padre, shalom: “Non ho più voce e canto/ Siamo storni nel vento/ Aquiloni, di bianchi e tenui colori” (P.84). Gli storni volgono certi alla meta, mentre nel discorso possono irrompere incertezze, equivoci, atti mancati… A “bianchi e tenui colori” immagino si possa associare un senso di pace in contrasto con “miserie” “chiodi” “lividi e spini” e che col “Signore della sera” potrebbe richiamare il sonetto di Foscolo: “Forse perché della fatal quïete/ tu sei l’immago a me sì cara vieni”.

Ancora ne Shalom, padre, shalom, leggiamo:

 

Voglio una vita senz’ordigni

Senz’ordini di sparizioni

Senza brigate di eliminazioni

 

Certo, se non si mettessero di mezzo i contrasti economici, fomiti di guerre e distruzioni, e fossero davvero assolvibili gli imperativi francescani.

 

Silvio Aman

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Recensione di Silvio Aman su “Astro immemore” di Adriana Gloria Marigo, Prometheus Editrice, 2020

04 venerdì Dic 2020

Posted by Deborah Mega in LETTERATURA, Recensioni, Segnalazioni ed eventi

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Adriana Gloria Marigo, Astro immemore, Silvio Aman

 

Adriana Gloria Marigo: Astro immemore

Prometheus Editrice, 2020

Postfazione di Andrea Matucci: Un luminoso “sentimento dello spazio”

 

Con Astro immemore, Adriana Gloria Marigo ci offre una collana di quarantacinque brevi poesie in versi liberi rivolta al lago Maggiore coi suoi promontori, ma se il titolo ci allontana già da ogni ipotesi descrittiva, nei testi le elevate ricorrenze di aria, luce, azzurri e verdi lo richiamano piuttosto in raffinate tarsie o – come scrive Andrea Matucci – “per fuggevoli indicazioni” spesso tutt’altro che aderenti al versante visivo, semmai in un intreccio di empatia e stilizzazione:

 

Afflizioni pluvie saggiano

i cardini della roccia

l’irridente fragore del mare

che a me sodale frantuma

la chincaglieria del lago

 

finisterre occluso al largo.

 

È pur vero che il lago, o piuttosto la sua cornice, sottende l’intera raccolta, ma non senza effetti di estraneità, sia a causa dell’astro dimentico il suo benigno influsso – e tanto importante da titolare il libro – sia per la sua riduzione a “chincaglieria” rispetto al mare. Esso permette alla poetessa di eseguire difficili mosse da funambolo tramite voci inconsuete, rare, letterarie o derivate da altre lingue (come “funambolia” “viridarium” “spendimento” “implaga” “celestia” “aspèrgine” “venetico”…) cui si aggiunge l’uso spesso inarticolato delle preposizioni (“di rosa canina” – “d’ànemos” – “di vela rossa” – “d’aria” – “d’arte”) la tendenza a ridurre l’impiego degli articoli, e la sostantivazione di certi avverbi e aggettivi (“da smisurato lontano” “di vago fragrante”) ottenendo sempre nuove tessiture di un testo aperto, perciò di non facile decodificazione…

 

Intemperante giunge un vento

sonoro a lanciarsi ostinato

dalle dorsali prealpine,

suadere a dismisura

la funambolìa del mattino,

l’aspèrgine azzurra

lungo l’ordinata del giorno.

 

Nella formazione della propria lingua poetica, ci accorgiamo che Adriana Gloria Marigo ha reso straniere le presenze cui attribuisce “funambolìa” al mattino, “aspèrgine” all’azzurro, “implaga” al blu di Prussia “lunari” agli agresti, “spergiuro” al sole, “scaltra” all’ombra, “ordinata” al giorno, nel senso di unirle a presenze insospettate e a volte molto lontane come è il caso di il “re del Ponto”:

 

La digressione di tutto il turchino

sperpera la penitenza del cielo

qui avviene lo spergiuro del sole

la prova costante del re del Ponto,

stinge persino l’ombra scaltra del bianco.

 

La prima poesia, arco d’ingresso alla raccolta, si rivolge enigmaticamente a uno strappo esistenziale cui necessita l’arte del rammendo, come indica il duplice senso di fortuna…

 

È cucita addosso una veste

di timbriche fortune alterne

nella luce il momento esalta

e schianta nel giro che smaglia

e torna d’arte al rammendo.

 

mentre fra ciò che esalta e smaglia, le successive vi accennano sia per il tono sia per il fatto che l’impulso affettivo e i richiami al mondo esterno permangono in uno stato di implicito straniamento, sicché qui non si può certo dire, con Meister Eckart, “l’amore è di tal natura che trasforma l’uomo nella cosa amata”. Decisiva, al riguardo, è la quasi totale assenza dell’io “che vede, pensa, parla” (Andrea Matucci) e il predominio delle frasi constative, come in “febbraio ha corte nel gelo” “perdura il seccume” “si tagliano i rami opprimenti” e via così, lasciando insomma prevalere l’oggettività su cui si modellano le ardue espressioni dell’intera raccolta…

 

Stenta primavera pochi fiori

perdura il seccume

al turbine preciso d’avarìe

sotto lo sperdimento azzurro

ora che il levarsi mergozzino

convoca acuti d’ombra,

l’esecrabile nullora.

 

Ho accennato alle tarsie, perché la poesia di Adriana Gloria Marigo, estranea all’estensione narrativa “che è sempre stato l’orrore della poesia pura” (Andrea Matucci) anzi tendenzialmente ermetica, e perciò senza sviluppo, forma i suoi riquadri con frasi paratattiche, riducendo al minimo snodi, congiunzioni e punteggiatura. Ne abbiamo un esempio indiretto con “si tagliano rami opprimenti” per lasciare “respiro di spazio” e “Il canto glorioso dei merli/ svuota l’aria d’altra voce” nel senso di scindere o distanziare gli sguardi, talvolta improvvisi (“abbaglio bianco di rosa canina” “La salita che scosta le case/ s’apre nel punto preciso/ dove slarga lo sguardo/ di celestia fitto”)…

 

Si tagliano rami opprimenti

si lascia respiro di spazio

all’albero in canto rinascente.

In terra l’avventura dei bulbi,

della forsythia in acuto giallo

intrama fortuna di viridarium.

 

Oppure, in Lucreziana, unica poesia titolata:

 

Nella stagione che priva l’ornato

più chiare possiamo vedere

in margine al bosco

[…]

solitarie betulle odoranti

il rigore territoriale dell’aria.

 

“Fortuna di viridarium” (il “verde” ha anche lui molte ricorrenze) rafforza – adversus Thomas Stearns Eliot, nel suo “aprile è il più crudele dei mesi”– gli enunciati della precedente Primavera, stagione, qui portatrice di nostalgia:

 

Primavera, stagione

più di altra leale

celebri la nostalgia

ogni casa che ho abitato

et brevitas d’amore tornato.

 

Leale (quindi opposto all’astro) se celebra appunto la nostalgia delle case abitate e l’amore. E di nuovo:

 

Creanza d’aprile

riparata sui racemi dei lillà

effondi pulviscoli odorosi

lacerti di ere turbinanti…

 

lasciando percepire la preferenza per le stagioni dalla natura rinascente e calorosa con i loro profumi. Nella poesia dedicata a Vittorio Sereni, leggiamo: «Di vago fragrante si diffonde/ l’osmanto tra il duro verde// d’amaritudine pungendo/ aereo il destino d’ottobre» e di nuovo, con le echeggianti sonorità di aria : scarna (contrapposto all’estiva, pesante e piena) zoomorfo : frusto…

 

Basterà l’aria levantina

selvatica e scarna di oggi

sull’iperbole stesa del prato

il cielo di nubi zoomorfo

a specchiare l’incerta

profusione vegetale

imprimere cesura al frusto

mentre ad agresti lunari

ascendono canti alati.

 

Assieme alla primavera, all’aria e al celeste (dieci ricorrenze, con le sue variazioni cromatiche) in queste poesie domina la luce fin dalla prima: «nella luce il momento esalta» – «pura chiarità di salmo arioso» (sedici ricorrenze allargate a “chiaro” “luminanza” “splende” “oro”… “vennero corsiere di luminanza” – “tutto il foliage mi splende addosso” – “ora di fitto oro in festa” – “Flette il silenzio la misura dell’oro” […] L’orazione del fuoco in crepitio/risolve la brama ottusa/ gemma l’estrosa ora fausta”)…

 

Tutto coincide nella luce

occidua di ottobre fiammato

di nuovo al turbinante capriccio

sua specifica natura garante

la fratellanza dei mesi,

onore a loro sostanza

secondo agnizione

fine di circostanza.

 

I due versi finali lasciano supporre, che se l’elemento contingente richiede un’analisi, l’agnizione porta con sé – al contrario – un improvviso riconoscimento o la sorpresa, come abbiamo già visto per “l’abbaglio bianco di rosa canina” il cui verso è opportunamente staccato dai precedenti. Che qui non si tratti quasi mai di oscurità (“notte” o “notturno” e “sera” sono, mi pare, presenti solo due volte) bensì di luce, aria e vento, quest’ultimo con sette occorrenze, compreso Favonio… “vele nella squillante ora del vento” lo indica la poesia

 

Istruisce il chiaro

la scurità petrosa,

dispone la terra alla vela

risolta al viaggio per acqua –

tornata oggi la minuzia ventosa

da smisurato lontano.

L’ora misteriosa di gennaio

scollina lucentezza di stelle –

vezzo del primo Favonio

che arrischia in cielo e in terra

la virida voce errante,

pazzia delle rame gemmifere.

 

Perché anche dove compare, l’ombra è seguita dalla luce:

 

Sbriglia Mergozzo giù dalle cime

lusinga di ombre plananti

sulle morene dove la città

affonda sereni suoi romitaggi

d’incorollata luce aspersi.

 

Riguardo all’autunno con la sua profumazione, in “Di vago fragrante si diffonde” abbiamo:

 

Depreco ottobre

il darsi occiduo

appena la luce si fa bella

specchia vigori vegetali

la vocazione alle nostalgie

più remote dei tuoi passi.

 

ma anche:

 

Ora l’equinozio di autunno

colmerà di vaghezza incendiata

ogni foglia dell’albero amante

l’ispirata vaganza dell’aria

l’offerta corona della sera

caduto il regno dell’astro assoluto

nell’idioma stordito dei fiori.

 

D’altra parte, se oro e rosso (assieme a “ruggine”) hanno occorrenze ridotte in confronto a luce, foglie, rami e fiori legati ai mesi in ascesa, l’autunno è l’unica stagione in cui il declino sa incendiare le foglie dell’“albero amante” (cioè dei propri organi vitali) l’“ispirata vaganza dell’aria” e “l’offerta corona della sera” anche se gli ultimi due versi – distanziati per l’irrompere di un pensiero critico – introducono l’idea della caduta (l’astro declina) e la lingua stordita dei fiori dovuti al passaggio dalla piena solarità a quella riflessa dalle foglie d’oro.

Benché Adriana Gloria Marigo sia donna di mare, ha insomma saputo riconoscere i doni del lago, rendergli omaggio, offrirgli le corone delle sue complesse composizioni e farlo a sua volta esprimere. Un omaggio ha desiderato anche rendere al pittore Franco Rognoni con la figura in copertina: La donna del lago, gentilmente concessa da Stelio Carnevali.

 

Silvio Aman

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Recensione di Silvio Aman a “Poesie Controcorrente e Racconti in versi” di Fabio Dainotti

16 venerdì Ott 2020

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Fabio Dainotti, Silvio Aman

 

Fabio Dainotti: Poesie controcorrente e Racconti in versi

La Biblioteca dei Leoni, 2020

Prefazione di Paolo Ruffilli e postfazione di Carlo di Lieto

 

In questa breve raccolta Fabio Dainotti scrive dell’amore colto nelle sue curiose varianti (presenti nella sezione di apertura Strani amori) e lo fa con ironica grazia: ironia del resto già implicita nello scorrere del tempo. Nel libro rivivono, infatti, figurine ormai lontane: non com’erano, e non saranno mai, perché il loro regno è la memoria in cui il poeta ricorda, assieme alle giovanili, anche quelle che parrebbero appartenere a foto o cartoline d’epoca (impiegando le voci ormai non più in uso di “decolleté” e “galante”) con un tocco di vaga melanconia, come In visita dalla sezione Figurine, dove l’ospite compare a cavallo…

 

Quasi ogni giorno venivo a trovarti

nella casina bassa,

affondata tra il verde dei cespugli;

legavo il mio cavallo

alla grata di ferro del giardino

(p. 19)

 

in Festa galante…

 

Il bocchino, i capelli impomatati;

lusinghiere parole.

Un décolleté di donna,

morbida nel guardare, lenta a dire.

 

Una musica triste al pianoforte.

Indistinta, nel fumo dei liquori,

la voluttà di perdersi e trovarsi

(p. 27)

 

e in La passeggiata, che ricorda certi dipinti fin de siècle, uno dei quali (Signora con cappello, di Federico Zandomeneghi) occupa la copertina…

 

La littorina fermava

in un viale alberato a Milano;

era giugno, la luce dilagava.

 

Vimercate: fermata in pieno centro,

tra un’edicola in fiore di giornali

e il chiosco per la musica d’estate.

 

Le signore sfilavano eleganti

con ombrellini al braccio.

 

Nei versi di Sulla corriera trapela invece qualche vaga reminiscenza di Penna:

 

Sulla corriera azzurra,

il ragazzino è biondo, ben vestito:

indossa un farfallino.

 

Ragazzino spigliato, perché non esita a stringere “tra le sue,/ le gambe della bella sconosciuta” per poi spaventarsi:

 

La donna dorme. Finge? Il sole,

nel tramontare, incendia la pianura.

 

Il ragazzetto pensa: “E se si sveglia?”

Così lascia la presa, spaventato.

La luna sorge. Il sole è tramontato.

(p. 24)

 

Gustoso contrasto psicologico fra il desiderio, riflesso nel sole al tramonto (in contrasto con la giovane età del ragazzo e non forse della donna dall’“aria vissuta”) che “incendia la pianura” e il timore pronto a spegnerlo col sorgere della luna. La grazia presente in questi quadretti sta anche nel rimpicciolimento dovuto ai diminutivi (casina, cavallina, ombrellini, canzoncina, biondino, farfallino, ragazzino, fidanzatini) con l’effetto di allontanare le immagini, mentre la rima Vimercate : estate (l’edicola dei giornali, pur “fiorita” non è un grand’Hôtel, né il chiosco della musica il salone delle feste a Monaco o a Baden Baden) suscita un senso di riduzione in termini provinciali, probabilmente ironica, ma non malevola. Il ragazzino ritorna nella poesia Triangolo in cui il contrasto sta fra la sua timidezza e lo scherzo sfacciato dell’amante:

I due amanti s’allacciano sull’erba

scambiandosi baci di fuoco.

Il ragazzino sta in disparte, timido.

– Puoi venire anche tu, se vuoi! – fa lei

con aria di sfida.

 

In Piccolo caffè o dei primi rendez-vous, abbiamo, invece, il ricordo dimesso e gentile delle cose minuscole:

 

There is a pleasant little café there,

un piccolo caffè dove noi due

ci appartavamo. Era bello parlare,

noi, soli al mondo.

 

C’era una siepe in vasi tutto attorno.

Stavamo seduti noi due soli

come i fidanzatini di Peynet.

(p. 33)

 

La siepe con i vasi “tutto attorno” forma, appunto, un piccolo mondo quasi incantato, se qui non si trattasse di un addio, ma a questa poesia-ricordo segue con ben altro tono La tastiera o del trionfo dell’amore, perché dopo il diteggio amoroso (“suono sulla tastiera del tuo corpo/ le musiche più belle e più dolenti,/ malinconiche, ardenti,/ prima e dopo l’amore”) compare, nella staccata e ultima duina, una svolta inquietante:

 

Quando sorridi, scopri bianchi denti

come una creatura di Allan Poe.

(p. 14)

 

La creatura, nelle Opere di Poe, è Berenice, cui il cugino, nel delirio dell’idée fixe, strappa i denti, che qui, con gli omoteleuiti in -enti, richiamano la tastiera. Si tratta di svolte non prevedibili, come in Fuma l’affari? (in dialetto) dove l’autista chiede all’Agostina di uscire e fidanzarsi, sennonché, dopo la serata al cinema…

 

Nel ricondurla a casa, lui parlò

(e avrebbe fatto meglio a stare zitto):

“Allora, facciamo l’affare?”

(p. 55)

 

Anche la psicologia femminile ha qui la sua parte:

 

“Non ho niente da mettermi”; e piangeva

con i singhiozzi, come una bambina,

mia madre. E io n’ebbi pena, come

se mancassero i soldi per mangiare

e non, semplicemente, nell’armadio

un abito da sera.

(p. 43)

 

Il libro ci offre, insomma, un continuo altalenare di ricordi con drammi, pianti, sorrisi e ingenue truffe (come in Il viaggio in cui una madre corre da Padre Pio “per sapere il destino ultraterreno” del figlio annegato, e lui: “Non preoccuparti”, le rispose, “è salvo”.) che la commovente poesia Una chiesa laggiù (dalla sezione Amor sacro) disperde a favore di un’auspicata e pacificante cancellazione…

 

C’è una chiesa laggiù, ci si arriva

da un vicolo in discesa, che costeggia

un giardino alberato con le aiuole.

 

C’è uno zampillo chiaro nel giardino,

che canta una sua canzoncina,

di sole quattro note,

ma vorresti ascoltarla sempre, sempre.

 

È l’acqua primordiale della nascita,

che ti culla e ti invita ad annullarti,

come una macchia, nella nuda terra.

(p. 47)

La chiesa, nominata all’inizio, ma non raggiunta “laggiù” ci ricorda l’acqua del battesimo e, assieme all’unione spirituale con la divinità, il memento mori, mentre lo zampillo terreno suscita l’invito a sentirsi cullati dalla sua canzoncina (eterna ninna nanna) per tornare, senza memorie, neppure le cristiane, in seno alla madre… terra.

 

Silvio Aman

 

Biobibliografia

Fabio Dainotti (Pavia 1948), presidente onorario della Lectura Dantis Metelliana, di cui è stato per anni presidente e direttore, condirige l’annuario di poesia e teoria “Il pensiero poetante”. Pubblicazioni di poesia: L’araldo nello specchio (Avagliano editore, 1996); La ringhiera (Book, 1998); Ragazza Carla Cassiera a Milano (Signum, 2001); Un mondo gnomo (Stampa alternativa, 2002); Ora comprendo (Edizioni Scettro del Re, 2004); Selected Poems (Gradiva, 2015); Lamento per Gina (Genesi, 2015, Primo premio “I Murazzi”); in edizione bilingue Requiem for Gina and other poems (Gradiva, 2019). Collaborazioni con numerose riviste di settore, tra cui: “Capoverso”, “Misure critiche”, “Gradiva”; come conferenziere, ha trattato argomenti di letteratura e di interesse dantesco e commentato canti della Divina Commedia. La rivista “Poesia” si è occupata criticamente della sua opera; RAI TRE ha dedicato servizi su eventi da lui promossi. Per l’editore Bulzoni ha curato la pubblicazione de Gli ultimi canti del Purgatorio dantesco (2010).

 

 

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Victoria Surliuga: Le conchiglie di Ezio Gribaudo / Ezio Gribaudo’s seashells. Gli Ori Edizioni, Pistoia 2019. Recensione di Silvio Aman

02 venerdì Ott 2020

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Silvio Aman, Victoria Surliuga

 

                                LES COQUILLAGES
 
 
Chaque coquillage incrousté
 
   Dans la grotte où nous aimâmes
 
                A sa particularité.
 
 
       L’un a la pourpre de nos âmes
 
      Dérobée au sang de nos cœurs
 
      Quand je brûle et que tu t’enflammes;
 
 
      Cet autre affecte tes langueurs
 
                 Et tes pâleurs alors que, lasse,
 
      Tu m’en veux de mes yeux moqueurs;
 
 
    Celui-ci contrefait la grâce
 
      De ton oreille, et celui-là
 
              Ta nuque rose, courte et grasse;
 
 
   Mais un, entre autres, me troubla.
 
 
                       Paul Verlaine

 

In questa nuova opera bilingue (italiano e inglese) dalla struttura del libro a fisarmonica sono presenti 39 dipinti di conchiglie con rilievi di caratteri tipografici nello stile dei logogrifi iconici di Ezio Gribaudo. Con l’espressione “universo di temi, immagini e concetti” riferiti allo “scibile del mondo umano e animale”, Victoria Surliuga indica il modo in cui l’artista articola il proprio lavoro. Il termine “scibile” derivato dal tardo latino schīre – sapere – riferito alle opere di Ezio Gribaudo, prende, tuttavia, una direzione cui si addice il titolo Carnevale marino offerto alla serie pittorica dei suoi animali pelagici (esposti nel 1994 alla Galleria del Leone di Venezia e nel 1995 alla Galleria il Leudo di Genova, non a caso città marinare) nati dai viaggi dell’artista in India, Australia e Nuova Zelanda.

Il mondo inorganico, vegetale e animale si presenta già come il grandioso carnevale della creazione esplorato da geologi, botanici e zoologi nel loro tentativo di dominarlo e classificarlo tramite la tassonomia. Ciò che qui interessa, riguarda l’elaborazione delle figure malacologiche da parte di Gribaudo. Essa avviene imprimendo loro un effetto di atavica lontananza per mezzo delle varianti trasformate in parvenze dell’oggetto iniziale cui la studiosa rivolge i suoi dotti riferimenti, citando ad esempio la celebre conchiglia bivalve o “a pettine” appartenente alle veneridae sulla quale Botticelli ci mostra, appunto, la dea Venere. Surliuga spiega che questo tipo di conchiglia, profusa in molte decorazioni architettoniche, è la stessa portata dai fedeli al ritorno da Santiago di Compostela visibile sui “sanrocchini” (il corto mantello indossato da San Rocco, dal Papa in visita pastorale e dal Griso manzoniano durante la sua spedizione nel tentativo di rapire Lucia, come si vede nell’incisione del Gonin). In una raffinata e poetica tavola del libro in questione appaiono altre specie, ma come un’eco visiva di lontanissime ere: “emblemi di un tempo lontano, icone di storie del mare che diventano archetipi come nel simbolismo acquatico e femminile descritto da Mircea Eliade” precisa la studiosa.

Gribaudo, nel cui lavoro “è presente la continuità storica” sceglie di volta in volta “temi, immagini e concetti” (può, infatti, trattarsi di paesaggi, gabbie, pinocchi ma per trasformare l’immagine oggettuale, qui associata ai caratteri mobili di Gutenberg, nell’iter giocoso di una variazione continua. Si tratta di riprese presenti in alcuni musicisti laddove compongono variazioni sul tema tratto da altri compositori per il suo charme, il je ne sais quoi, direbbe Vladimir Jankélévitch: un caso noto è Spiegel im Spiegel di Arvo Pärt tratto dal primo libro del Wohltemperierte Klavier di Bach, mentre nel Bolero di Ravel abbiamo la ripetizione del motivo storico con il suo crescendo dinamico e orchestrale.

La differenza introdotta da Gribaudo concerne sì la ripresa della figura tematica, ma senza perdere di vista la diversità tassonomica delle conchiglie, appunto seguendo l’idea dello scibile ricordato dalla Surliuga. Egli le modifica, inoltre, in base al suo “zoom visivo” e non solo tramite il gioco a due piani causato dall’interferenza dei caratteri Gutenberg. Questo per dire che della conchiglia si può cogliere l’insieme trasfigurato (il suo vagante fantasma iconico) o, per via metonimica, le proprie tessiture come succede una volta smarrita la forma di riferimento, cioè le tracce filamentose e quegli arcipelaghi maculari che della natura ci mostrano micro-visioni informali. Ma non solo, perché il movimento associativo porta Gribaudo a spostare l’attenzione su altri elementi pelagici come pesci, alghe e incrostazioni calciche in una sorta di empatia creativa fra arte, scrittura e natura. Certo, qua si tratta di un orientamento catalogatore del mondo visivo (Surliuga) in versione artistica, sennonché la conchiglia, oltre all’aspetto simbolico legato a Venere e all’universo pelagico, possiede l’auditivo (è noto il gesto di appoggiarla all’orecchio per ascoltare il riflesso sonoro del mare) e il recondito, se pensiamo che la sua conca – da cui deriva il nome conchiglia – può contenere l’Àgalma (mi riferisco al Seminario di Jaques Lacan dedicato al transfert) cioè l’oggetto a piccolo causa del desiderio: nel nostro caso la perla nascosta.

Gribaudo con la sua serie malacologica indica la riproduzione del tipo da parte della natura, ma la cui piega è ogni volta differente, come si nota benissimo dai suoi dipinti con la continua variazione delle linee ondose, alludendo così anche al passaggio dalla sincronia del soggetto (com’è rappresentato dai pittori di nature morte) al suo flusso diacronico suggerito dai caratteri tipografici: qualcosa che, sia pure sul piano visivo, potrebbe inoltre richiamare per via sinestetica il movimento sonoro dell’onda marina.

Per gentile concessione della Rivista di Studi Italiani (n. 2, 2020)

Biobibliografia

Ezio Gribaudo (Torino, 1929), artista e editore d’arte formatosi nel rigore di intensi studi di arte grafica, all’Accademia di Brera e successivamente presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino, aprendo il suo percorso artistico e professionale al lavoro di editore d’arte per le maggiori personalità dell’arte moderna e contemporanea, ha avuto modo di collaborare con Chagall, de Chirico, Fontana, Guggenheim, Miró, Moore. Ha realizzato volumi per le Edizioni d’Arte Fratelli Pozzo, Fabbri Editori, Garzanti, Einaudi, UTET e molti altri. Il suo catalogo di libri, i trentaquattro artisti pubblicati sotto la sua direzione nelle Grandi Monografie Fabbri Editori (1966-1990), include varie voci di maestri dell’arte moderna tra cui Bacon, Botero, Burri, Duchamp, Guttuso, Manzù e Savinio. L’attività di Gribaudo, che ora è unicamente concentrata sulla sua produzione artistica, nel corso degli anni ha incluso quella di promotore di notevoli eventi culturali, soprattutto nel settore espositivo. A Torino, ha organizzato una mostra della Peggy Guggenheim Collection nel 1976 alla Galleria Civica d’Arte Moderna e la mostra-spettacolo Coucou Bazar  nel 1978 per Jean Dubuffet alla Promotrice delle Belle Arti, organizzata per la FIAT. Inoltre, Gribaudo è un collezionista di classici di arte moderna e le opere da lui acquisite includono opere di Calder, Carrà, Chemiakin, de Chirico, Dubuffet, Ernst, Fontana, Matta, Moore e Tàpies.

Victoria Surliuga è professore associato di studi italiani, coordinatrice del programma italiano e coordinatrice mondiale del cinema presso il dipartimento di lingue e letterature classiche e moderne della Texas Tech University. Ha studiato Letteratura comparata al Mount Holyoke College e ha conseguito un Master presso la Brown University e un Ph. D. dalla Rutgers University in Italian Studies. È una studiosa di arte, cinema e letteratura italiana moderna e contemporanea, nonché poetessa e traduttrice. Pubblicazioni: Seashells di Ezio Gribaudo (Pistoia: Edizioni Gli Ori, 2019; in italiano e inglese); Ezio Gribaudo: Enchanted Archaeology (Pistoia: Edizioni Gli Ori, 2018; in italiano e inglese);  Ezio Gribaudo’s Landscapes (Torino: Archivio Gribaudo, 2018, in italiano e inglese); Ezio Gribaudo: My Pinocchio (Pistoia: Edizioni Gli Ori, 2017, in italiano: Ezio Gribaudo: Il mio Pinocchio ); Ezio Gribaudo: The Man in the Middle of Modernism (New York-London: Glitterati, 2016; Texas Tech University First Place President’s Faculty Book Award for 2017-2018); il volume di traduzioni delle poesie di Giampiero Neri Natural Theatre: Selected Poems (1976-2009), Edition and Introduction; New York: Chelsea Editions, 2010; Nell’epoca del gremito: Conversazioni con Giancarlo Majorino (Milano: Edizioni Archivi del ‘900, 2008); Uno sguardo sulla realtà: L’opera poetica di Giampiero Neri (Novi Ligure: Joker Edizioni, 2005). È autrice di sei libri di poesie, di cui il più recente è Shadow (Las Cruces: Xenos Books, with Chelsea Editions and the Raiziss-Giop Foundation, 2018).

Silvio Aman, poeta, scrittore, saggista, critico letterario ha curato il volume di saggi Memoria, mimetismo e informazione in teatro naturale di Giampiero Neri, Milano, Edizioni Otto/Novecento, 1999 (prima raccolta di saggi in Italia sull’opera di Neri); l’antologia di poeti svizzeri Brigjet/Sponde, Gjakovë, 2015; l’edizione di un’ampia antologia di poeti e scrittori svizzeri di lingua tedesca, francese, reto-romancia e italiana (con inediti di Giorgio Orelli) in “Hesperos” (annuario fondato da Silvio Aman), Milano, La Vita Felice, 2001. Ha pubblicato la monografia Robert Walser, il culto dell’eterna giovinezza, Milano/Lugano, Giampiero Casagrande, 2009, inserita nei programmi di lettura del Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere dell’Università Statale di Milano e del Piemonte. Un suo saggio è inserito nel volume La poesia della Svizzera italiana (a cura di Martin Maeder, Università di Lovanio, e Gian Paolo Giudicetti, Università di St. Gallen), Poschiavo, CH, L’ora d’oro, 2015. Ha curato libri di autori svizzeri per la casa editrice LietoColle. Libri editi di poesia: Sinfonia alpina (pref. di Gilberto Isella) Balerna, CH, Edizioni Ulivo, 2004; Nel cuore del drago (pref. di Guido Oldani) Novara, Interlinea Edizioni, 2005; Ariele (a cura di Giancarlo Pontiggia con postf. di Paola Loreto), Moretti & Vitali, Bergamo 2010 – di cui dieci poesie sono apparse nel numero di novembre 2009 della rivista Poesia dell’Editore Crocetti. L’orifiamma (pref. di Vincenzo Guarracino) Busto Arsizio, Nomos Edizioni, 2013. Ha tradotto Hermann Hesse, Robert Walser e alcune poesie di Christine Koschel nel volume Nel sogno in bilico, Milano, Mursia, 2011.

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Studio di Silvio Aman su “Canti della clausura e del deserto” – poemetto in quindici stanze, inediti di Silvio Raffo

08 venerdì Mag 2020

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Canti della clausura e del deserto, Silvio Aman, Silvio Raffo

There is a strenght in proving that it can be borne

Although it tear –

What are the sinews of such cordage for

Except to bear

The ship might be of satin had it not to fight –

To walk on seas requires cedar Feet

 

Il senso della forza è nel provare

che a ciò che ti distrugge puoi resistere –

a che servono i nervi di una fune

come la tua, se non per sopportare –

Fosse la nave di raso, non occorrerebbe lottare –

Per camminar su mari ci vogliono piedi di cedro

 

(Emily Dickinson)

 

A me che al chiaro tendo

nuvola tenebrosa

insiste il firmamento

a consacrare sposa

 

sento dalle segrete

dell’anima una fonte

premere – dalla sete

odo catene gemere

 

ma non so che germoglio

di pietra sboccia intanto

e quell’intima vena

mura in ghiacciato pianto

 

*

cammino (solo in sogno)

per certe bianche strade

dove i passi non toccano il selciato

 

in verità dimoro

entro murate stanze

il cui ingresso da Gorgoni è vegliato

 

*

pietra di sogno

inarca il mio recinto

filtra da crepe

il canto del deserto

penso talvolta al mio chiuso dolore

come a un prisma di ghiaccio levigato

trasparente prigione –

dall’esterno

invisibile vedo mani tese

tastare la parete, puntellare

la rocca inespugnabile in eterno

*

Fende le nubi il mio pugnale azzurro

depredando le case ampie del cielo

 

ma sotto a quelle sfere, ad onde, a flussi

e riflussi di torbide correnti

che assalti di scirocchi e di libecci

che bufere d’oblio fosforescenti

 

le sere che placarsi sembra il vento

dal tumido furore che deborda,

mutarsi in carezzevole elemento

che fiamma o fumo tetro non ammorba

 

un gelo cala sulle buie rive

del mio orizzonte, livida una lama

s’irradia nell’antartico splendore

e da lampi assediato il giorno muore

 

le notti sono inferni di tregenda

distillate da un’orrida fucina,

visceri d’astri aggrovigliate serpi

che dilania un falcone da rapina

 

e ho conosciuto un’alba di corallo

rossa come una lingua che lambiva

su un morto fiume, fulgido sciacallo,

brandelli del mio corpo alla deriva

 

*

è la Memoria un lungo corridoio

con le pareti foderate a specchi,

privo di pavimento –

ai due lati un abisso, lo strapiombo –

io cammino a ritroso sulla fune

tesa da un’inflessibile Distanza

per chissà quale orrendo esperimento

 

*

a volte un volto occhieggia nella notte,

una forma tra umana ed animale –

con modi ambigui e frasi d’occasione

una tregua propone a basso prezzo,

a garanzia della liberazione –

non scendo a patti mai, benchè lo strazio

raddoppi nel mio gioco innaturale

 

*

ho la nebbia negli occhi

i nervi a pezzi

fiacche, piagate membra

si sfaldano le ossa –

nella buia visione

mi sorridono vermi da una fossa

 

 

*

m’è divenuto familiare il canto

che lieve ascolto a tratti risalire

dalla piatta distesa che circonda

le mura della torre – come voce

che dalle aggrovigliate ondose spire

della sabbia il tormento voglia dire

al condannato fisso alla sua croce

 

*

“prigioniero comanda al tuo Signore

di rinsaldare i nodi della corda

tu claustrato funambolo cantore

corpo insonne al martirio, anima sorda,

ancora un poco soffri la tua pena

dividila coi grani della rena”

 

*

“anche se qualche inganno ti sedusse

di quando in quando, tu non distogliesti

lo sguardo mai dalle tue stelle fisse

 

a ciò non fosti il solo, altri patimmo

gli stessi inganni, e tutto il tuo martirio –

nella sabbia la pena seppellimmo

per attutire l’urla del delirio

 

accecati da un sole mercenario

abbiamo trascinato questa vita

di giorno in giorno, al vaglio della pena

a denti stretti. Meglio se desista

il tempo dal suo futile cimento,

meglio la sosta ai limiti d’Altrove

dove la luce sfumi nel riverbero

 

qui la luce è miraggio liquescente,

fata morgana, alone d’ametista

l’occhio velato è pago di quel niente

un ragnatelo maschera la vista

 

così per l’acqua: di secreti umori

s’alimenta una sotterranea linfa

che ci conforta nell’eterno ardore –

dagli oscuri meati stilla un pianto

sommesso come lacrime di ninfa

che è la sorgente d’ogni nostro canto”

 

*

m’addestra il canto a sopportar la croce

poi che verrà – già il duro abbraccio sento

ed il suo antico peso riconosco –

in un vivido lampo mi rammento

che mi s’era promesso da bambino

nascosta agli occhi, con tarlata voce,

quando m’ero smarrito in quel giardino

*

crocifissione, palma del martirio –

la mano bianca dell’impalatore

consacra il corpo all’ultimo sigillo –

ma il suo volto è velato dal pudore

 

non lo vedrò: sarà come per l’angelo

che mi bendò quando mi benedisse

 

ma dai modi gentili fu tradito –

in lui mi riconobbi, e fui punito

 

*

Passione, compimento del Calvario –

smaglia le carni il tuo pietoso uncino

e l’anima si libra dal sudario

 

(1989)

 

Pourtant, sous la tutelle invisible d’un Ange,

l’Enfant déshérité s’enivre de soleil,

Et dans tout ce qu’il voit et dans tout ce qu’il mange

Retrouve l’ambroisie et le nectar vermeil.

 

Il Joue avec le vent, cause aver le nuage,

Et s’enivre en chantanto de chemin de la croix;

Et l’Esprit qui le suit dans son pèlerinage

Pleur de le voir gai comme un oiseau des bois.

 

Tous ceux qu’il veut aimer l’observent avec crainte,

Ou bien, s’enhardissant de sa tranquillité,

Cherchent à qui saura lui tirer une plainte,

Et font sur lui l’essai de leur férocité.

C. Baudelaire, Bénédiction

 

Il Poemetto (1989) cui presiede nel posto d’onore Emily Dickinson, si avvicina alla forma prosodica del discordo perché, sebbene vi prevalga la quartina, presenta una discreta eterostrofia. Questa forma, in un poeta conosciuto per il suo classicismo e la capacità di scrivere versi impeccabili, è tuttavia motivata dall’aspetto desultorio e spesso drammaticamente teso della composizione.

Per ciò che riguarda il titolo principale, esso assume un diverso valore riguardo al recente Il taccuino del recluso per il fatto di non dipendere da una costrizione oggettiva (il divieto di abbandonare la propria casa per non essere contaminato dal virus) bensì psicologica e, per estensione, esistenziale.

Il senso della forza, esemplato da Emily Dickinson, consiste nel provare che si può resistere agli effetti distruttivi, procurandosi «i nervi di una fune» e i «piedi di cedro» cioè lo scafo per camminare sull’onda marina, sennonché Silvio Raffo lascia trapelare una direzione opposta con evidenti caratteri platonico-cristiani per il riferimento al Calvario, alla passione, alla croce e, di conseguenza, al librarsi dell’anima dal sudario:

 

Passione, compimento del Calvario –

smaglia le carni il tuo pietoso uncino

e l’anima si libra dal sudario

 

La passione, che qui non è intesa nei comuni termini affettivi, appare il compimento della salita al Golgota come preludio alla liberazione dal corpo: proprio per questo, l’uncino al suo servizio è definito «pietoso».

Calvario potrebbe essere inteso in termini metaforici, come quando si dice “che calvario!” ma alcuni riferimenti nei Canti e in poesie di altre raccolte, lo determinano come situazione permanente. Occorre, tuttavia, vedere come.

Ciò che qui si nota, è il contrasto fra tendenza alla luce (cui Raffo, anche per la sua figura e le sue esposizioni pubbliche, pare davvero votato) e la «nuvola tenebrosa» contrasto seguito dalle altre figure opposte dell’idrico e del gelidamente litico. Flusso, dunque, ma gocciolante da un cuore che si è trasformato in dolente alambicco:

 

sento dalle segrete

dell’anima una fonte

premere – dalla sete

odo catene gemere

 

ma non so che germoglio

di pietra sboccia intanto

e quell’intima vena

mura in ghiacciato pianto

 

La prima di queste quartine echeggia a rovescio e da lontano i distici iniziali che d’Annunzio dedicò alla celebre villa progettata da Pirro Ligorio per il cardinale Ippolito d’Este, non senza la suggestione da Jeux d’eau à Villa d’Este dell’abate Liszt (quante gocce si sentono in questa musica!) che il poeta aveva avuto modo di ascoltare da giovinetto proprio in quella villa in una notte di plenilunio, sennonché in Raffo il «pianto» come spirito canoro del Pescarese

 

(Quale tremor profondo la pace degli alberi, o Muse,

agita e alle richiuse urne apre il sen profondo?

 

Chi, dentro gli àlvei muti svegliando gli spirti del canto,

leva sì largo pianto d’organi e di liuti?)

 

assume i timbri della Musa dolente:

 

“… dagli oscuri meati stilla un pianto

sommesso come lacrime di ninfa

che è la sorgente del nostro canto”.

 

Così intonano i fantasmi, cioè i simili, dal deserto. A questo punto sorge la domanda: si tratta della ninfa o della sirena? Nella mitologia certe ninfe subiscono la metamorfosi salvifica che le trasforma in fonti e fiumi, elemento libero, inafferrabile e canoro, mentre qui essa parrebbe assimilarsi alla dolente sirena in cerca del contatto umano, e proprio per questo il suo canto è anche quello del pianto, con rima vagamente paronomastica, ma non antonimica, perché il primo può ben nascere dal secondo. Anche d’Annunzio nomina il pianto con una tonalità tuttavia diversa, perché quello delle fonti richiama ambivalenti sonorità: un continuo oscillare – nel suo chiocciolio – fra la dimenticanza e il melanconico ricordo di ciò che la ninfa era, ma sempre fluido e vitale. Non bisognerebbe inoltre escludere il carattere erotico della ninfa (assieme alla nomenclatura riferita agli orli della matrice: le ninfe) che Raffo sterilizza e addolora nel canto ostruito dal «germoglio di pietra» “vegetale” ma sterile, come lo sono le stalattiti formate nel buio dal lento “goccia a goccia”.

Silvio Raffo non soffre certo di aridità poetiche, anzi le sue composizioni sgorgano con sorprendente generosità e ricchezza d’immagini musicali spesso positive, mentre qui la sua incantevole voce, anziché scorrere abbeverando, s’intreccia e congela nella figura “litovegetale”. A questo proposito, mi sembra che anche nei versi onomatopeici «… dalla sete/ odo catene gemere» “sete” possa richiamare, per inconscia analogia, gli acquatici fruscii della seta-satin presenti nella poesia dickinsoniana in opposizione al gemere, cioè della pressione intimamente inibita. Certo al posto del flusso vitale abbiamo il doloroso gocciolio dai «meati» che in tal caso assume maggiore intensità, sebbene non lo accolga la preziosa coppa della poesia, come si legge in un altro libro, ma il graal del crocefisso.

Dopo la terza stanza, si presenta una cesura nel flusso ideativo, sia pure alleviata da una specie di assonanza con vaga funzione di coordinamento ritmico di pianto: selciato parzialmente assonanti, e da questo punto in poi il poemetto offre una serie di elementi che dilatano il motivo della quartina successiva alla poesia di Emily Dickinson: «A me che al chiaro tendo/ nuvola tenebrosa/ insiste il firmamento/ a consacrare sposa».

Raffo ha già nominato questo matrimonio in Annuncio di nozze: «Io/ e Madamigella Poesia/ ci siamo sposati/ stasera/ alla Casina Valadier». Ora però la fiabesca ironia di Annuncio scompare e il percorso assume un tono drammatico, sicché, dalla terzina spettrale in cui il poeta sogna di camminare «per certe bianche strade/ dove i passi non toccano il selciato» (bianco con una probabile connotazione funebre) segue un capovolgimento: «in verità dimoro/ entro murate stanze/ il cui ingresso da Gorgoni è vegliato».

Dalla «pietra di sogno» di cui la torre è formata, filtra però (non si sa se davvero consolatorio) il canto del deserto, il sabbioso “responsorio” affratellante e incitativo da parte degli altri condannati, i fantasmi ora sepolti laggiù, extra muros.

Il poemetto si muove insomma nei modi della rapsodia attorno ai centri gelo e condanna, tutti inquilini di una torre inespugnabile, i quali non presentano più i risarcimenti del prezioso elisir distillato dal dolore, tanto che al pugnale azzurro che fende le nubi «depredando le case ampie del cielo» (l’immagine potrebbe richiamare il Nimrod di Enigma Variations di Edward Elgar) segue la distillazione di «un’orrida fucina».

E la memoria? Essa è un corridoio di specchi fra due abissi in cui il funambolo, con rischio raddoppiato, cammina a ritroso su una fune significativamente «tesa da un’inflessibile Distanza» perciò senza produrre alcuna effettiva avanzata, e di questo c’è semmai da rallegrarsi, perché le poesie di Raffo, circolarmente musicali, non rovistano nella spazzatura della memoria volontaria. Come l’acqua che forma le stalattiti si congela nel calcare con cui forma una selva a rovescio – e nel tempo la sua omonima in crescita dalle stalagmiti – essa potrebbe attendere questa congiunzione… al fine di ricostruire una storia personale? Direi di no: semmai per cancellarla nelle acque materne.

La fune, presente nella poesia della Dickinson come immagine di forza, rappresenta dunque di nuovo un rovescio, trasformandosi in quella del «claustrato funambolo cantore» la cui polarità è astrale e lontanissima dalla tregua proposta dalla forma «tra umana e animale», e lo stesso moto contrario, per usare una figura presente in musica, è attivo nella lama che non fende più i cieli per sgominarne le case, ma l’«antartico splendore»:

 

… livida una lama

s’irradia nell’antartico splendore

e da lampi assediato il giorno muore

 

Figura retrovolta? No, perché il funambolo, nel retrocedere, si allontana dal futuro senza nulla vedere del passato.

Nell’ottava stanza, il poeta nomina la lusinga proposta da «una forma tra umana ed animale» che

 

con modi ambigui e frasi d’occasione

una tregua propone a basso prezzo

a garanzia della liberazione –

non scendo a patti mai, benché lo strazio

raddoppi nel mio gioco innaturale

 

liberazione offerta invece dal Calvario, come evidenziano i tre versi finali dei Canti. Del resto, nella dodicesima stanza si trova (come voce dal deserto dei compagni di sventura): «“anche se qualche inganno ti sedusse/ di quando in quando, tu non distoglieresti/ lo sguardo mai dalla tue stelle fisse”».

Rileggendo le poesie di Raffo, non ci vorrebbe molto a identificare la forma dal doppio attributo: è quella della persona comune, lontana dalla poesia e dall’anelito che spinge il poeta platonico a vedersi rinchiuso nella torre come i contratti prigioni michelangioleschi lo erano nel marmo.

Riguardo alla luce cui il poeta tende, nella dodicesima stanza, appare la precisazione:

 

qui la luce è miraggio liquescente,

fata morgana, alone d’ametista

l’occhio velato è pago di quel niente

un ragnatelo maschera la vista

 

così per l’acqua: di secreti umori

s’alimenta una sotterranea linfa

che ci conforta nell’eterno ardore –

dagli oscuri meati stilla un pianto

sommesso come lacrime di ninfa

che è la sorgente d’ogni nostro canto

 

Non si tratta, perciò, della luce in cui appare il mondo fenomenico, altrimenti il poeta non nominerebbe il «ragnatelo» ma di quella mirifica e stillante del canto-pianto. All’acqua come metafora del flusso poetico si associa insomma la luce «liquescente» per il fatto di presentarsi come portatrice del miraggio, cioè della stessa ispirazione del poeta rinchiuso nella torre e addestrato dal canto «a sopportar la croce». Da solo? No, perché, come ricordato sopra «dalla piatta distesa che circonda le mura della torre» il poeta ascolta risalire a tratti il canto-esortazione dei compagni di pena:

 

prigioniero comanda al tuo Signore

di rinsaldare i nodi della corda

tu claustrato funambolo cantore

corpo insonne al martirio, anima sorda,

ancora un poco soffri la tua pena

dividila coi grani della rena

 

cioè con le miriadi dei simili «accecati da un sole mercenario» che offre «la tregua a basso prezzo» per cui, tornando all’acqua e al riverbero, lungi dalla fissità della luce naturale, i condannati agognano i sembianti, sebbene illusori («qui la luce è miraggio liquescente») qualcosa d’indiretto e sublimato nella poesia… e questa, almeno nel Nostro, è più lunare che solare. D’altra parte, la rivelazione di certe sfumature d’immagine e pensiero, avviene con l’ausilio delle penombre poetiche e i loro riflessi, non nella luce naturale.

Nella terzultima e penultima stanza, dove Raffo diventa enigmatico, è nominata la croce promessa al bambino smarrito «in quel giardino» che si suppone sia l’Eden per la presenza dell’angelo non sottoposto alla natura, e costui sa di non doversi far riconoscere, così come l’impalatore pudico (con un passaggio non meno cruento e impudico alla crux simplex) non sarà visto dal martire, perché il martirio, benché promesso, rimane incognito fino alla sua rivelazione (sarà stato, usando il futuro anteriore) ma anche duplice: intreccio di pianto e canto, senza soluzione di continuità.

La precoce condanna dipende dal fatto che il bambino riconosce se stesso nell’angelo, cioè – per riprendere la precisazione – in chi non ha «forma tra umana e animale». Quest’ultima, nell’Eden, è sottoposta alle lusinghe del Tentatore, secondo la plausibile interpretazione di Beverland (in Il peccato di Adamo ed Eva) mentre il poeta persegue il suo «gioco innaturale» al fine di ottenere dal proprio alambicco i profumi della poesia ai quali il corpo recluso si ribella con le sofferenze ben note a Santa Teresa d’Avila, che nella sua lotta contro il demonio, alias il sole mondano e «mercenario» confessa appunto le pene perpetrate dall’«orrida fucina» perché resistere alla natura comporta il raddoppio dello strazio.

 

Silvio Aman

 

Bibliografia 

 

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Studio di Silvio Aman su “Il segreto di Marie-Belle”, Silvio Raffo, Elliot, 2019 (II parte)

10 venerdì Apr 2020

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Il segreto di Marie-Belle, Silvio Aman, Silvio Raffo

(Continua da I parte)

Il romanzo, ben costruito (l’Autore è uno specialista nel trattare le suspanses) è interamente imperniato su una forma di devozione possessiva – e in alcuni momenti fomite di angoscia – ma casta. Solo un romanzo? La sua forma diaristica, sia pure prodotta da una folle, dice qualcosa di più di un’anamnesi richiesta dallo psicanalista per scopi terapeutici, perché il «servizio d’amore» di Aurelia, benché riguardi la cura dei malati (il proprio padre, l’avvocato, la depressa Madame e Belle) tradisce una derivazione trobadorica, assimilandosi a quello dei cavalieri medioevali per la loro dama. Il riferimento ai castelli e le figure stilizzate del romanzo potrebbero, in fondo, suggerirlo. La differenza sta nel fatto che qui a servire sia una donna. Siccome Aurelia desidera avvincere Marie-Belle secondo la nota formula del “per sempre” e deve perciò aggirare le insidie, sia pure immaginarie, che gli altri le preparano, la sua posizione si trova agli antipodi di quella esposta nell’Axël di Auguste de Villier de L’Isle-Adam. Qua, il margravio Axël d’Auërsperg convince la principessa Ève Sara Emmanuèle de Maupers a vivere il loro amore una sola volta, per poi bere il veleno (non a caso nei sotterranei del castello colmi di tombe) quindi senza il rischio di corroderlo con la durata. Del resto, le vicende di Piramo e Tisbe, Romeo e Giulietta e tante altre, a ben vedere sembrano fatte apposta per escludere l’aspetto “amministrativo” della vita a due: certi innamorati, romanticamente assolutisti, muoiono prima di vivere “felici e contenti” forse perché, come Axël con Sara e tant’altri, non reggerebbero al futuro e inevitabile defalco della felicità o la ritengono troppo misurata per accettarla. Certe coppie di Flaubert, Fromentin, o anche i due amanti di Le diable au corps di Radiguet, spenta la fiamma d’amore, non sono neanche “felici e contenti”.

Malgrado il timore di perderla, Aurelia – come abbiamo visto – favorisce la sua pupilla, trovandole la possibilità di entrare nel mondo del cinema attraverso il produttore Max Cherubino che disperatamente se ne invaghirà, iniziandola all’uso della cocaina. Da questo punto in poi, cioè fra le prove sul set in Francia (fissandosi sulla Butte, in cui più tardi troveremo la villa dell’infelice Dalida) e nel Regno Unito, la governante torna a seguire a ogni passo la sua “bambina” come persevera a definirla (sarà la sua sarta e truccatrice) che da parte sua – dopo un drammatico scontro – finisce però col respingerla…

“Max è un povero infelice anche lui, come me, ma dice di amarmi, dice che l’amore potrebbe salvare lui e me… Patetico, vero?”

“Da cosa potresti essere salvata, Belle?”

“Dai fantasmi dei ricordi… Da me stessa… Da me stessa, e da te”.

“Quello che stai dicendo è assurdo”.

“Oh certo, assurdo e vergognoso. Non sono più irreprensibile, vero?… Ma nemmeno tu lo sei”.

Il motivo di un simile atteggiamento è possibile scoprirlo solo al termine del romanzo, e ad ogni modo noi possiamo essere eventualmente salvati da circostanze esterne, ma non da noi stessi. Tutto si svolge così (in un tragitto costellato di catastrofi: la morte di Cherubino, quella di Madame, del padre e del fratellastro di Marie-Belle) fino al giorno in cui le allucinazioni di Aurelia diventano insopportabili e subisce il ricovero in Villa Sorriso. Questi accadimenti psichici come figure del senso di colpa, iniziano da lontano tramite segni inquietanti e premonitori in rapporto al desiderio della donna di proteggere la sua pupilla dal male, per poi rafforzarsi dando luogo a sogni angosciosi. La ragione di simili angosce dipende dal fatto che Aurelia, col suo delirio, si vede costretta a compiere dei delitti, le cui scene tornano per via onirica, ad esempio quando a bordo della Morgan di Werner si sente precipitare nel lago, o vede nella persona che ha di fronte sul treno lo stesso chauffeur trasformato nell’orrenda figura del persecutore, cioè del sospettato amante di Belle, il quale, in un’altra visione allucinatoria, pronuncia la verità per lei inaccettabile, che la ragazza sa salvarsi da sola – e qui uno psicanalista avrebbe qualche motivo di cogliere in lei la gelosia dell’omosessuale. Ma le cose si complicano, perché allucinando in un’altra scena la sua pupilla morta nel disastro da lei causato all’autista, rivela il desiderio di desiderarne la fine. L’enunciato, se l’ipotesi regge, sarebbe dunque il seguente: “Tu non amerai nessuno al di fuori di me, noi moriremo assieme”… e questo accadrà alla fine del romanzo. Aurelia, assecondando il proprio delirio d’interpretazione, intende i segni che via via trova nella realtà come manifestazioni del fato, cioè in termini di annunci e corrispondenze secondo i meccanismi della magia studiati da Frazer e altri studiosi del fenomeno, anziché figure del proprio desiderio. Non per nulla Raffo introduce nel romanzo lo psicanalista (o di uno psichiatra?) dottor Boni. Ciò per dire che l’idea del fato su cui s’imperniano altri racconti dell’autore in base alla logica del romanzo di destino (tutto è già scritto, e la conoscenza ne rileva via via solo il processo) è qui in parte accolta e in parte relativamente modificata proprio per l’intervento del terapeuta… ma l’analisi deve farla il paziente, e se Aurelia riesce a ritessere il filo della sua truce avventura, le cose non vanno allo stesso modo per l’articolazione dei suoi fantasmi e il suo desiderio: a vincere è insomma il fato in cui crede. Possiamo asserire che la governante agisca in modo inconscio? Si e no. Probabilmente sì, laddove è vittima dei segni fatali, ma non di ciò che tenacemente persegue come parte del gioco, cioè la conquista del proprio idolo. Aurelia, ormai vecchia, reclusa e irriconoscibile, dopo aver eliminato quattro persone per creare il vuoto attorno a Marie-Belle, non rinuncia al progetto di legarla per sempre alla propria esistenza, e questo avviene tramite il mite Honoré, giardiniere vietnamita con il culto della medicina galenica. Prevedendo l’incontro con la “bambina” ormai invecchiata e che, pur a conoscenza del segreto, porta ancora il ciondolo del terzo occhio (a protezione di cosa, se non del malefico desiderio della “celeste” signorina, così definita dal regista del film?) la donna ha accantonato le cialde a base di Dathura Stramonium, una solanacea, e come tale tossica, che Honoré (vittima inconsapevole della catastrofe) le portava per fini curativi, e con queste prepara “la torta dell’immortalità” (così battezzata da Belle e Honoré) per consumarla con Marie-Belle. Il sigillo, la torta “al veleno” – ecco l’affascinante idea di Raffo! – era già fatalmente preordinato a unire per sempre le due vite. Come mai, dopo tanti anni, le due donne, incontrandosi, cadono l’una nelle braccia dell’altra come se nulla di grave fosse successo? Forse perché l’ex graziosa attrice, rassegnandosi al fato («non ero padrona del mio destino») riconosce di non essere poi così diversa dalla sua guida. In caso contrario, avrebbe reagito all’assassinio della madre, mentre così, nel tenerlo segreto, lascerebbe intendere di averlo anche lei desiderato. Se Belle tace, e lo farà per sempre (l’avverbio ombreggia tutto il romanzo) può suggerire che certi delitti hanno ricevuto la sua approvazione. Poiché, come accennavo, questo è il romanzo del destino, perciò colmo di corrispondenze secondo un criterio atavicamente animistico, mi pare che anche la Morgan di Werner (l’autista allucinato dalla gelosa Aurelia come il mostro di Fragonard) possa richiamare la morgue: ciò in base al fatto che la signorina lo farà incappato in un incidente mortale. In Il segreto, sono anche da rilevare certi aspetti ambientali, ad esempio la loro insularità, come il Castello dei Francesi, vagamente in stile gothic revival, sebbene dotato di una radiosa cupola vitrea, indice di un clima demodè aggiornato dall’epoca in cui si svolge la vicenda, e a questo proposito il lettore non mancherà di notare l’indiretto rifiuto dell’architettura funzionalista a favore dei manieri: Chenonceaux, Chateau d’Aubonne, Fontainbleu eccetera. Questo per specificare che il modus vivendi e le caratteristiche dei personaggi, assieme al «remoto» riserbo, all’«astrazione» all’«eleganza algida» di Marie-Belle, indicano, appunto, il rifiuto di trovarsi irreggimentati secondo ogni moderna e ingrigita funzione. Occorre però anche aggiungere questo: la «volontà ferrea» della fragile Marie-Belle, tale al punto da «sconfinare in un’ostinata quanto irragionevole pretesa di onnipotenza» anziché sostenere il talento rivela semmai una certa fissità del carattere… qualcosa di rigidamente mortifero, del resto fatalmente preannunciato dalla sua morte nel film Maison Dangereuse. È come se le personae di questo romanzo costruito come la sceneggiatura di un film, siano dominate da un impulso alla retraite (si tratti del castello, della villa lacustre o del manicomio) o, meglio ancora, dal fantasma di sparizione che si trova già nel mancato vitalismo della protagonista. La frase walseriana: «attorno a noi tutto era bellezza, calma e voluttà» parrebbe dunque suggerire l’idea di una trascorsa completezza da età dell’oro dopo la quale non resti che il declino. L’abbraccio, forse nostalgico, fra le ormai tarde Marie-Belle e l’istitutrice sigillerebbe bene quest’idea. Che da parte di Aurelia si tratti di vero amore, è naturalmente da escludere. Qua, richiamandoci al dipinto in copertina, si tratta di affinità elettive in termini letali (anche nel noto romanzo di Goethe hanno esito funesto) perché inventate dalla governante allo scopo di soddisfare la propria passione. Amare e voler bene sono due cose diverse, e Aurelia ama egoisticamente la sua pupilla senza giungere a un disinteressato sacrificio (i maestri del sospetto, fra i quali mettiamo Freud e Nietzsche, hanno fondati motivi per non credere, kantianamente, al disinteresse) anzi con una tenacia fuor del comune spinge la sua “protetta” – che per lei è in sostanza solo un idolo – alla completa rovina.

Silvio Aman

 

Bibliografia  di Silvio Aman

Cura del volume di saggi Memoria, mimetismo e informazione in teatro naturale di Giampiero Neri, Milano, Edizioni Otto/Novecento, 1999 (prima raccolta di saggi in Italia sull’opera di Neri)

Cura antologia di poeti svizzeri Brigjet/Sponde, Gjakovë, 2015.

Edizione di un’ampia antologia di poeti e scrittori svizzeri di lingua tedesca, francese, reto-romancia e italiana (con inediti di Giorgio Orelli) in “Hesperos” (annuario fondato da Silvio Aman), Milano, La Vita Felice, 2001.

Monografia Robert Walser, il culto dell’eterna giovinezza, Milano/Lugano, Giampiero Casagrande, 2009, inserita nei programmi di lettura del Dip. di Lingue e Letterature Straniere dell’Università Statale di Milano e del Piemonte.

Partecipazione con un saggio al volume La poesia della Svizzera italiana (a cura di Martin Maeder, Università di Lovanio, e Gian Paolo Giudicetti, Università di St. Gallen), Poschiavo, CH, L’ora d’oro, 2015.

Cura di vari libri di autori svizzeri per la casa editrice LietoColle.

Libri editi di poesia: Sinfonia alpina (pref. di Gilberto Isella) Balerna, CH, Edizioni Ulivo, 2004;

Nel cuore del drago (pref. di Guido Oldani) Novara, Interlinea Edizioni, 2005;

Ariele (a cura di Giancarlo Pontiggia con postf. di Paola Loreto) Bergamo, Moretti & Vitali, 2010 – di cui dieci poesie sono apparse nel numero di novembre 2009 della rivista Poesia dell’Editore Crocetti.

L’orifiamma (pref. di Vincenzo Guarracino) Busto Arsizio, Nomos Edizioni, 2013. Ha tradotto Hermann Hesse, Robert Walser e alcune poesie di Christine Koschel nel volume Nel sogno in bilico, Milano, Mursia, 2011.

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Studio di Silvio Aman su “Il segreto di Marie-Belle”, Silvio Raffo, Elliot, 2019 (I parte)

03 venerdì Apr 2020

Posted by adrianagloriamarigo in MISCELÁNEAS

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Il segreto di Marie-Belle, Silvio Aman, Silvio Raffo

Il segreto di Marie-Belle 2

     L’isola malinconica e remota in cui quella strana creatura

     dava l’impressione di essere arroccata

     non sembrava all’inizio concedere approdi.

 

Il breve ma intenso romanzo di Raffo, l’ultimo in ordine di tempo di una fortunata serie, fra gotico e noir, quando i due aspetti non s’intrecciano, è il diario del rapporto, poi trasformato in casto amore, dell’istitutrice Aurelia nella Villa La Protégée, per la piccola e anemica Marie-Belle, bisognosa di cure. Esso porta il seguente esergo tratto dalla Lettera di San Paolo agli Ebrei:

Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola,

senza saperlo hanno accolto degli angeli.

È vero ma può anche darsi che gli angeli rivelino gli aspetti inquietanti del loro camuffato antagonista, ciò in base alla differenza fra l’indefettibile e pura volontà del Signore di cui è veicolo e le umane debolezze. La signorina Aurelia, istitutrice di Marie-Belle, è sicuramente un angelo, ma solo finché il suo attaccamento protettivo alla ragazza non trova ostacoli, e a questo riguardo romanzi e fatti di cronaca nera con tanto di delitti lo testimoniano, prima con la lotta al fine di guadagnare l’oggetto causa del desiderio, poi per conservarlo contro ogni genere di opposizioni e rivalità. Nel primo capitolo che funge da prefazione al suo diario, Aurelia – la splendente, come significa il nome – scrive:

Le nostre vite mi paiono così strettamente intrecciate da costituire un’unica vita. Tutto ciò che è accaduto a Marie-Belle ha toccato di riflesso anche me. O sarebbe più corretto dire che è stato determinato da me, come in un gioco di ineluttabili corrispondenze? […] Ma c’è un’ombra dietro Marie-Belle, che la segue a ogni passo, eppure sembra avere una consistenza propria, un suo spessore autonomo benché inscindibile da lei. Sono io quell’ombra. Forse la storia che sto scrivendo è proprio questo: il diario di un’ombra.

Quest’ombra, incarnata dall’istitutrice, e dalla quale Marie-Belle Daumier tenterà a più riprese di sottrarsi, è la scia del fato che si annuncia appunto attraverso “ineluttabili corrispondenze” cioè con i segni interpretati da Aurelia come precognizioni degli ostacoli volti a intralciare la vita della ragazza. Uno di questi è rappresentato da Le Nain Bombard nel mazzo di carte divinatorie Bonne Aventure fornite di un Tableau résumé che definiremmo “roulette russa” cioè di un cerchio rotante, il quale si arresta su una determinata immagine, poi echeggiata, per analogia, nel mostro sogghignante in un dipinto di Fragonard e nello chauffeur. Il nano porta un sacco colmo di bastoni, simbolo numerico degli ostacoli nei quali potrebbe incappare Belle. Per cogliere meglio il tessuto delle perfide corrispondenze, occorre precisare che il mazzo, su cui Aurelia – prima di rubarlo – consulta il destino della sua protetta, si trova, assieme alla Bibbia, sul tavolino da notte della ragazza, cui appartiene, e questo indica già la fatale connessione fra le due. Siccome Il segreto è un romanzo del destino di cui non ci devono sfuggire segni, ricordiamo che Marie-Belle Daumier, nel film in cui ha la parte di una suora suicida, cantilena: «Non ero padrona del mio destino. Così doveva essere» e anche le sue recite allo specchio, lusinghiero paredro, quando sogna di fare l’attrice… E lì nel gelido riflusso, congelata, le mani al seno, i capelli lungosciolti, giace la mia bellezza, la bellezza di me. E intorno fiori… Oh Ofelia, Ofelia.

Ofelia, non per caso, è la folle suicida immersa nel ruscello tra i fiori, così ben rappresentata nel celebre dipinto di John Everett Millais. Questo mi lascia supporre che Marie-Belle, incontrata da Aurelia a Sanremo con la madre Madame Geneviève, abbia subito un magico innesto come accade in botanica, nel senso di innestare il ramo di una specie su un’altra al fine produrre certi frutti che con la prima non si potrebbe, in special modo se sterile. Di questa ragazza anemica, soggetta a narcolessia, sintomo di esigua vitalità, e in cura nella clinica di Ospedaletti, perciò bisognosa di una tutrice, dotata «di una discrezione, una riservatezza che aveva qualcosa di remoto, d’innaturale» (oggi la definiremmo tendenzialmente autistica) è evidente il disinteresse per gli altri: infatti, dalla panchina sulla Passeggiata Imperatrice, assorta nella lettura, non alza nemmeno la testa, fosse solo per dare un’occhiata alla donna che avrà tanto peso nella sua vita. L’aggettivo “remoto” che Raffo, poeta sensibilissimo ai suoni, penso abbia scelto per l’ombra lontanante delle due o, indica molto bene la riservatezza aristocratica e “innaturale” di Belle… ma quanto ordinarie sono alle volte le persone naturali! Narcolessia e astrazione dal mondo esterno, saranno poi favorite in segreto dall’uso degli alcolici, poi delle droghe nel periodo in cui, ormai trentenne, Belle farà l’attrice nel film Maison dangereuse (chiaramente opposto a La ville Protégée) per la Cherubino Film: nome angelico ma non per gli interessi di Aurelia, cui il bell’uomo appare minaccioso, come si vedrà. Assieme alla citazione della Bibbia (la ragazza ne ha una sul comodino) al benaugurante Protégée, a Paradiso, come suona il lusinghiero nome del battello, e alle radiose scritte sopra i due camini, tornano anche gli angeli, perché quando il padre di Marie-Belle, avvocato tedesco intento compilare la settimana enigmistica, chiede il significato in italiano di una parola, Aurelia risponde «angelo» o «arcangelo» secondo il numero delle lettere, e lui: Sie waren der Engel meines Leben “Voi siete stata l’angelo della mia vita” senza immaginarne anche quello della morte, perché pur devota al «servizio d’amore» costei non lo aiuterà di certo a vivere. Pur assecondando i propri esclusivi desideri, l’amorevole tutrice solleciterà la sua pupilla «ad aprirsi sui suoi rapporti coi compagni» ma tramite la doppia manovra di chi da una parte protegge e dall’altra isola. Protégée potrebbe appunto alludere alla cura fatale esercitata da Aurelia sulla ragazza, perché vittima lei stessa di una fantasticheria d’isolamento, le riesce spontaneo appoggiarsi all’altro per via narcisistica e prolungarvisi tramite una forma di empatia dominata dal sortilegio (produttore del senso di colpa ben indicato da Raffo) cioè dal timore preventivo di cosa il suo amore produrrà. Il dualismo – che nel romanzo è ora occultato, ora palese – si gioca fra i segni nefasti e gli oggetti dai caratteri apotropaici e morfinici donati alla ragazza: il ciondolo protettivo del terzo occhio e un pigiama col ricamo del fior di loto, portatore dell’oblio (se pensiamo ai lotofagi dell’Odissea anziché all’India) purché non si perda di vista l’ambivalenza che anche i simboli benevoli possono assumere laddove, improntati, a uno scopo, diventano strumentali.

Di questi affascinanti isolamenti, la letteratura è ricchissima: basti pensare ai racconti di Poe con Ligheia, Morella, Il ritratto ovale, Il tramonto della casa Usher e al celebre À rebours di Huysmans, tutti sottolineati da sfinitezza e idee di morte. Ciò perché certi esseri dotati di un’eccessiva sensibilità estetica (di cui Aurelia vive solo l’eco) e disgusto per la gente comune, non riescono a commerciare col mondo e avere compagni se non nella rarità dei propri oggetti, siano essi fiori, libri o persone. Qui, il cum panem, è solo quello vissuto con i propri simili impreziositi dal declino: tutto è già stato “nello splendore dell’antica luce” e il seguito è solo decadenza. Del resto l’«antica luce» si offre come tale – generalmente parlando – per effetto retroattivo, una volta distillata dalla memoria col solvente del principio di piacere… ma era proprio così radiosa? Nella clinica Villa Sorriso, dove è ricoverata, l’unica soddisfazione dell’ormai anziana Aurelia consiste nel puntare il cannocchiale, dono del giardiniere-animista Honoré, verso il maniero abbattuto e gli alberi di Villa Protégée, ora visibili (un tempo non li poteva scorgere dal promontorio della propria casa) perché è come se la forbice del lago si sia chiusa unendo le due parti dei rami, cioè la sua vita con quella della ragazza) e attendere che il destino si completi. Come? Con l’arrivo della sempre attesa Marie-Belle. Lo strumento ottico aiuta l’immemore (oggi, per certe dimenticanze in seguito a delitti, si userebbe l’inelegante termine di scotomizzazione) a ricostruite un vissuto di cui Marie-Belle detiene il segreto, cioè il romanzo come la sua stessa biografia. Proprio per questo il percorso di Raffo segue in parte la tecnica indiziaria dei romanzi gialli di cui è maestro: in parte perché Aurelia, criminale e detective nella stessa persona, deve ricostruire l’accaduto tramite l’anamnesi emersa con le sedute analitiche del dottor Boni. La nascita dell’amore a senso unico dell’istitutrice per la ragazza (lei, sfinge diafana dotata di un fascinoso riserbo, rimane costantemente enigmatica, e chissà se suo padre non si dedichi simbolicamente all’enigmistica per questo motivo?) è anche fondato sul suo desiderio di ragazza senza madre di poterlo essere per la “bambina” (vale però anche il rovescio, se si identifica con lei) che pur la possiede in Madame, come qui è generalmente chiamata, ma non per sentirsene figlia. Un tempo ebbe infatti modo di confessare alla signorina: «Maman non ama niente di ciò che io amo. Solo alla sua morte potrò essere felice». Del resto, l’automa di Madame (lei si diletta a costruire bambole anche parlanti) canticchiava:

Je te plumerai la tête

et les yeux et le bec

et le dos et les ailes,

Alouette, alouette!

Canzonetta rivolta alla figlia o alla tutrice? Dal diario si sa che in una poupée di Madame Aurelia allucina Marie-Belle stesa su una barella, poi di nuovo libera, mentre si sentono le note:

Now we are one

I’m not afraid

Di cosa si tratta in quest’opera (in cui, come già in La voce della pietra, non mancano i richiami a castelli, mobili, pianoforti, stoffe, abiti, fiori e profumi che rievocano una trascorsa eleganza) si arguisce dalla poetica dell’autore incentrata sul rilkiano e walseriano amore intransitivo o amour de lohn, come nell’occitano Joffré Rudel, principe di Blaia, perché Marie-Belle, pur presente, resta di fatto remota e inafferrabile. Da Il segreto, il lettore non deve quindi attendersi scene erotiche, non per la mancanza di eros (il quale, nel bene e nel mare circola ovunque) ma perché qui Raffo mette in luce il disinteresse di Aurelia e Marie-Belle nei riguardi degli uomini, senza precisare se siano delle gomorrite refoulée: ne allude solo il canzonatorio aiutante di Cherubino, avvinto ai pregiudizi, perché si può respingere la natura senza per forza abitare l’isola, come si diceva ai tempi di Liane de Pougy. La pallida e misteriosa Belle, teutonicamente ordinata, sterile come le eroine di Poe e cultrice della propria bellezza boreale, emana il fascino di una diversità difficilmente interpretabile: giunge da un serto di nubi o nasconde qualcosa di orrendo? I due aspetti sono probabilmente intrecciati. D’altra parte, se Marie-Belle fosse una suora tutta preci, non interesserebbe a Silvio Raffo.

Silvio Aman (continua)

 

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