Un poeta deve lasciare delle tracce del suo passaggio, non delle prove.
Solo le tracce fanno sognare.
René Char
INEDITO
La fiera della vanità
Se penso a qualcosa per cui essere ricordata non penso all’esatto dettaglio. Mi ostino, se mai, a gettare fiori di gentilezza, bellezza antica, che vedo fiorire ai cigli di strade accanto a rifiuti maleodoranti. Mi dissocio dall’insolente profanazione, dai riti malconci che rendono sostanza il futile apparire. La fiera delle vanità -io, io, solo io- scaccio testarda.
Nina Cassian è nata a Galati in Moldavia (Romania), sulle rive del Danubio il 27.11.1924. Poetessa, scrittrice, traduttrice, partecipe e erede dell’ambiente culturale e intellettuale rumeno a cui appartengono Brâncusi, Tzara, Ionesco, Eliade e Cioran, come loro dovette subire l’esilio.
Nina Cassian è figlia d’arte, il padre Iosif C. Mătăsaru fu stimato traduttore dei grandi classici (Ghoete, Heine, Brecht). Nina si nutre di questi stimoli e dopo aver completato il liceo, arricchisce la sua formazione approdando a Bucarest e studiando pianoforte e composizione musicale, dove eccelle, recitazione, pittura. Nel 1943 si sposa col giovane poeta Vladimir Colin dal quale divorzia nel 1948, successivamente sposerà il critico letterario Alexandru Stefanescu. Nel 1944 si iscrive alla Facoltà di lettere, ma non ultimerà gli studi. Da quello stesso anno comincia a pubblicare suoi scritti, dapprima sul giornale Romania libera e successivamente edita la prima raccolta “Scala 1/1”, vicina all’avanguardia e perciò vista con sfavore dal regime rumeno che la marchiò come decadente. Ciò spinse la scrittrice verso opere maggiormente allineate “La nostra anima”, “Anno vivo, novecento e diciassette”, “Horea non è più solo”, “Gioventù”,“Versi scelti”.
Dal 1957 prosegue le pubblicazioni svincolandosi nuovamente dai dettami della dittatura comunista. Nina ha scritto praticamente per tutta la vita, autrice di oltre quaranta opere tra raccolte poetiche e libri per bambini, oltre alle traduzioni.
Importante la sua amicizia col poeta Celan, al quale rimase legata per sempre, essendone musa ispiratrice. La relazione si nutriva della speciale affinità culturale, influenza e ammirazione reciproca, per la consonanza di interessi poetici e preferenza di scrittori, quali Esenin, Eluard, Apollinaire. Ne dà sentore l’affettuosa lettera che Celan scrisse alla Cassian in vacanza nel ‘47 “Ingrata! Nobile e arborescente come sempre, quando ti penso, la mia mano… si affretta a offrirti, dall’assopito mio tappeto che ho steso sulle maree, questo specchio di fuliggine bianca e inchiostro ritmato… affinché certe bocche malevole della posterità non possano dire che noi non ci siamo amati. Che venga il mare su di noi e che gli squali-fratelli ci inghiottano!” Paul
Una grande svolta nella vita della poetessa fu il viaggio per una conferenza di scrittura creativa all’Università di New York nel 1985, lo stesso anno in cui morì il marito. Una volta a New York Nina Cassian chiede asilo politico come dissidente in quanto in patria la polizia segreta di Ceausescu aveva scoperto suoi testi satirici e antigovernativi tra le carte di un amico arrestato, quindi rischiava a sua volta d’essere imprigionata. Contemporaneamente in patria compiono l’epurazione culturale della sua figura, la fanno sparire, come non fosse mai esistita. Nina ha vissuto il resto della sua vita lontano dal paese d’origine a New York dove è morta il 15 aprile del 2014.
LA POETICA
Dice un famoso verso di Emily Dickinson “Io abito nella possibilità”, Nina Cassian nella sua scrittura lo fa proprio. Prende la parola e la mette in forma, la stira, la pressa, rotea e schizza fino a farne ciò che vuole, in perfetta consonanza col suo pensiero. Fantasmagorica, pittorica, sorprendente, carnale. Conferisce ai suoi testi una musicalità e plasticità non propriamente classiche perché contemporaneamente spinte da potenza immaginifica scoppiettante. Originale quindi, insolita, sebbene si avvertano nel suo scrivere echi di tutta la tradizione europea da Celan a Mandelstam, dalla Cvetaeva alla stessa Dickinson. Il corpo è spesso presente nella poesia della Cassian, come avviene del resto con più insistenza e consapevolezza nella poesia delle donne rispetto alla poesia scritta da poeti uomini. Le donne hanno col proprio corpo un rapporto più intimo e ancestrale, si misurano con la potenzialità del generare e del partorire, con la perdita periodica di liquori sanguigni, non possono essere che consapevoli dei propri muscoli e ventre e respiro esattamente per come esce dai polmoni, immerse nella propria pelle, in contatto continuo e profondo con la propria polpa.
La poetessa riversa nei suoi testi una vitalità poetica, una furia creativa caratterizzata da estremizzazioni, parossismi, inventiva. Descrive scenari surreali non meno però di momenti della quotidianità comuni a tutti, quale il risveglio o il cibarsi. L’umanità è presente, talvolta testimone della malinconia del poeta o del suo disagio o dolore, tendenzialmente indifferente, asettica, insensibile. Più di frequente il poeta trova alleati nelle cose o negli animali. Compartecipano e collaborano a edificare l’architettura poetica gli oggetti, gli elementi della natura, i sentimenti. Presente il dolore per l’espianto della separazione dai luoghi d’origine“Ah, ricordo ancora bene quel dolore!/La mia anima colta di sorpresa/saltava come una gallina con la testa mozza”
Non meno presente l’amore sia diretto alla forma umana che mistica. La ricchezza espressiva è specchio dell’eclettica formazione della poetessa, musicale e artistica. I toni sono caustici, arguti, ironici, sempre diretti, spesso malinconici. Colpisce l’atteggiamento di cupo e lucido disincanto verso gli altri e l’esistenza che rimanda al cinismo di Cioran.
Espressiva e potente Nina Cassian era praticamente sconosciuta quando venne pubblicata in Italia nel 2013 da Adelphi con la raccolta di oltre 300 pagine C’è modo e modo di sparire. Poesie 1945-2007 . Divenne un caso editoriale. Di sé e del suo forsennato scrivere con un senso di ineluttabilità del gesto, chiaramente di reazione alla privazione della libertà, dice “Sono la Scimmia Condannata a Scrivere”. Del suo opporsi vanamente alle repressioni totalitarie scrive “La protesta linguistica/è impotente. Il nemico è analfabeta.” E del suo esilio esprime la speranza “Pur se verrò sepolta/ in una terra aliena:/ risorgerò un giorno/ nella lingua romena.” Scrisse anche in lingua inglese e in una lingua di sua invenzione. Chissà la fantasia dei suoi libri per bambini…
Un tappeto di farfalle morte ai piedi, morte e morbide (loro non hanno il rigor mortis). Io godo di ottima salute. Ho tirato fuori il fegato, ho estratto i polmoni, ho estirpato il cuore e non mi fa più male nulla. Tramutarsi in fantasma è una soluzione che vi raccomando freddamente.
Io sono io
Sono personale, soggettiva, intima, singolare, confessionale. Tutto quel che mi accade e si ripete accade a me. Il paesaggio che descrivo sono io stessa. Se vi interessano gli uccelli, gli alberi, i fiumi, consultate i libri degli esperti. Io non sono un dato uccello, un dato albero, un dato fiume. Io sono registrata solo come un Sé,
Io, ovvero Io.
Tappezzeria
Un piede nella fossa e l’altro sulla tigre impallinata – così vedo la mia sconfitta e la mia vittoria in questa scena venatoria.
Cedere il posto agli anziani e agli ammalati
Viaggiavo in piedi eppure nessuno mi offrì il posto anche se ero di almeno mille anni più anziana, anche se portavo, ben visibili, i segni di almeno tre gravi malanni: Orgoglio, Solitudine e Arte.
Illustrazioni di Loredana Semantica, (tecnica digitale, pennino su schermo).
Tre poesie di Nina Cassian . Illustrazioni di Loredana Semantica, (tecnica digitale, pennino su schermo).
Preghiera
Se esisti per davvero – fatti avanti, sii nuvola, caprone, aviatore, porta con te occhi, bocca, voce, – chiedimi qualcosa, lascia che mi sacrifichi, prendimi tra le braccia, proteggimi, nutrimi con la settima parte di un pesce, fammi un fischio, dissodami le dita, ricolmami di aromi, di stupore, – resuscitami.
La tentazione
Più vivo di così non sarai mai, te lo prometto. Per la prima volta vedrai i pori schiudersi come musi di pesce e potrai ascoltare il mormorio del sangue nelle gallerie e sentire la luce scivolarti sulle cornee come lo strascico di un abito; per la prima volta avvertirai la gravità pungerti come una spina nel calcagno e per l’imperativo delle ali avrai male alle scapole. Ti prometto di renderti talmente vivo che la polvere ti assorderà cadendo sopra i mobili, che le sopracciglie diventeranno due ferite fresche e ti parrà che i tuoi ricordi inizino con la creazione del mondo.
Ermetica
Se ci fosse un luogo dove conficcare un altro grido quale potrebbe essere, la roccia o il mare
o l’occhio dell’uccello della notte, fisso e tondo, duro come la pietra, giallo come la luna?
Ah, tutto è impenetrabile. E il grido viene fuori dalla bocca
pendulo come la lingua dell’impiccato.
Nina Cassian, poetessa, scrittrice, traduttrice rumena, nata in Romania, a Galati, il 27 novembre 1924, morta a New York il 15 aprile 2014
Rocco Scotellaro è nato il 19 aprile di cento anni fa, a questo link la sua storia .
Rosso di capelli e bello (ce lo dice poeticamente la stessa Amelia Rosselli Bello eri ma troppo fino e troppo caro “Cantilena”, 1953) il giovane Rocco, politico e poeta, morto dopo solo trent’anni di vita, ha lasciato tra i suoi la sensazione di un’opera incompiuta e la testimonianza una forza d’animo straordinaria. Questi elementi combinati tra loro hanno fatto di Rocco un mito per alcuni, per altri Rocco Scotellaro è un dimenticato, vittima della stessa indifferenza che affonda nel mare della disattenzione la poesia del Sud. Certamente è alquanto inevitabile sulla misura dell’apprezzamento dell’opera e dell’operato dell’autore il condizionamento della scelta di campo ideologica del lettore.
Scotellaro operò politicamente con azioni e iniziative favore della classe contadina, animato da idee democratiche volte al miglioramento economico, sociale, assistenziale e culturale della gente di Lucania. Egli tuttavia non si impegnò solo sul fronte politico, ma fu anche giovanissimo poeta, iniziò a scrivere nel 1940, poco più che adolescente. La sua prima poesia “Lucania” descrittiva della natura, riporta la ricercatezza verbale dello zirlio dei grilli, si chiude con la nota maliconica riferita al paesetto lucano che nell’ombra delle nubi sperduto, giace in frantumi. Non dimentichiamo che per proseguire gli studi Rocco dovette abbandonare il paese d’origine Tricarico per trasferirsi a Sicignano degli Aburni a studiare al Collegio dei Padri Cappuccini, questa sua prima poesia esprime la compassione per il disfacimento del paese e il senso di sradicamento dalla propria terra alla quale egli rimase legato per tutta la vita.
Gli anni del liceo classico e l’avvio degli studi in giurisprudenza furono determinanti per la formazione della sue idee e l’emersione della passione sindacale e politica. La sensibilità alle problematiche della società contadina e più in generale per le condizioni degli umili, sfruttati e oppressi, furono all’origine un portato educativo dei genitori, entrambi erano artigiani, l’uno calzolaio, l’altra sarta. La madre però sapeva scrivere e si prestava a fare da scrivano anche agli abitanti del paese. ll padre era una figura di riferimento e di saggezza che sensibilizzò Rocco sullo stato di miseria e sfruttamento in cui vivevano i braccianti del Sud. Rocco era in sostanza un figlio della cultura contadina della sua terra, nato da essa e quindi promanante dall’interno, la conosceva e ne aveva a cuore le problematiche. Una volta giunta a compimento la sua maturazione ideologica, dopo l’incontro con Carlo Levi e Manlio Rossi Doria, l’iscrizione a partito socialista e l’attivismo sindacale, egli maturò anche la consapevolezza degli strumenti che potevano essere utilizzati per affermare i bisogni popolari ed ottenerne tutela: azione e parola. La cultura è azione, ma soprattutto vita. La parola il veicolo indispensabile col quale comunicare, con le parole è possibile richiedere ciò che concretamente si desidera. Diversamente dalle idee di Rossi Doria che rimarcava l’immobilismo, il culto della memoria e il paganesimo degli abitanti del meridione, da intendersi come incapacità ad essere cittadini, cioè di riconoscere la “deità” dello Stato, Rocco percepiva le istanze di riscatto, la fierezza, le contraddizioni di un mondo che interpretava dal di dentro conoscendolo prodondamente, volendo mantenerlo, quasi cristallizzandolo, per salvarne l’intrinseca bontà, pur nel miglioramento necessario delle condizioni di vita.
L’attenzione al mondo popolare, il linguaggio volutamente diretto e semplice, nonostante Scotellaro fosse un colto intellettuale, un dettato refrattario alla retorica, incline piuttosto a testimoniare con l’evidenza della realtà i fatti e le istanze sociali, inquadrano l’opera di Rocco Scotellaro nella corrente neorealista del secondo dopoguerrra. Per gli scrittori appartenenti a questa corrente la letteratura diventa mezzo d’espressione del bisogno di riscatto e rinascita del popolo, dell’esigenza di affermazione di una cultura pacifista e democratica in contrapposizione a quella fascista.
Era inevitabile che tanto entusiasmo trovasse espressione nei testi del poeta Scotellaro. L’impegno civile incarnato nel poeta, a sua volta s’incarna nel corpo poetico. Le passione riverbera nelle poesie infuocate di lotta e rivolta, dove i deboli sono “morti ammazzati”, gli sfruttati le vittime, i padroni sono, senza mezzi termini, gli sfruttatori, gli amici sono compagni, la falce strumento d’uso dei campi e simbolo di azione politica. La cifra stilistica prevalente di Rocco è descrittiva della natura, sia come succedersi di stagioni e di albe/tramonti, notte/giorno, sia per la frequente menzione di piante e fauna della campagna. Frequente la narrazione di scene agresti e paesane, di vita dei borghi, nella contrapposizione tra duro lavoro dei campi e feste, fiere, mercati, le vesti colorate delle donne, le occasioni di incontro e gioia.
Centrale la figura femminile, forte, consolatoria, rilevanti gli affetti. Non mancano naturalmente l’amore, – sensuale e persino erotico – la morte, il senso di scoramento, la malinconia, la tristezza, l’amicizia, la fatica del vivere e dell’agire. Dopo l’ingiusta vicenda giudiziaria che colpì il poeta egli lasciò Tricarico per andare ad abitare a Portici, nelle poesie di questo periodo i toni si fanno meno accesi e più addolorati. L’affetto speciale che in questi ultimi tre anni gli fu di conforto è con la poetessa Amelia Rosselli, che egli ammirava grandemente.
Nelle poesie che Rocco scrisse a Portici la delusione per il tradimento subito dagli uomini spingono i testi verso un maggiore lirismo e talvolta si sente aleggiare il senso della fine. Ad esempio nella poesia “A Portici” riportata più sotto, ciò si percepisce sia per il ricorso al lemma resurrezione, riferibile tanto a un risveglio da un sonno pesante simile alla morte, che al presentimento di una “resurrezione” post mortem di senso cristiano, sia nel rimarcare la materialità del corpo come a dirne anche la mortalità, la corruttibilità. Sono nota “bucolica” i cavolfiori del carretto che viene da Scafati, nota bucolica che non appare più tanto come vena nostalgica o pittorica che anela alla campagna, quanto a constatare prosaicamente chele taglia la ruota del carretto. I cavolfiori sembrano un insolito omaggio orto-floreale ad una decapitazione.
Di seguito una selezione di poesie di Rocco Scotellaro. Illustrazioni di Loredana Semantica, (tecnica digitale, pennino su schermo).
Vento fila (1944)
A me questa notte non darà pace: sono stato scontroso con gli uomini, sono giù di morale, il cuore mulinato da rimorsi. La lampada spesso si smorza. Fiocca nei vicoli sugli stracci, la campagna sola. Vento fila nei baratri delle lunghe stradette. Giù nella Rabata*, chiuse le stentate porte dei sottani, e non verranno. Non verranno i compagni sotto alla finestra a suonarmi la canzone di rampogna questa notte violenta di Carnevale.
*il centro storico arabo di Tricarico
(1944)
È rimasto l’odore della tua carne nel mio letto. È calda così la malva che ci teniamo ad essiccare per i dolori dell’inverno.
Festa alla stazione (1944)
Voci rauche, al sommo dell’estate, e cortei con stendardi dei vicini borghi. Così i prati e così variopinte le donne. C’è la trombetta foriera di sussulto battono i tacchi la terra e le anime pie son ebbre e il treno rugge la gran fiera borbotta di ragli abbrividenti le farfalle fan stormo sull’erbe gialle, è lungo nel fiume il lamento del rospo.
Il sole viene dopo (1950)
Sono nate le viole nei tuoi occhi e una luce viva che prima non era, se non tornavo quale primavera accendeva le gemme solitarie? Vestiti all’alba, amore, l’aria ti accoglie, il sole viene dopo, tu sei pronta.
A Portici (1952)
Nella resurrezione ogni mattina portano il tuo nome e il tuo corpo sopra un ciuffo di canti di gallo, che le taglia la ruota del carretto, il carretto che viene da Scafati a portare cavolfiori ai mercati.
Il porto del Granatello (1953)
L’ondata che viene è furiosa com’è dolorosa quella che m’abbandona. Amore che vieni e che vai che apri la mia bocca e la chiudi, oggi è secco il mio cuore. Pescatore che ti muovi alla festa del vento la pesca non è ricca se povero è l’amore.
Vittoria Guerrini, in arte Cristina Campo (Bologna, 29 aprile 1923-Roma, 10 gennaio 1977), una delle voci poetiche più alte del Novecento, è stata una straordinaria scrittrice, poetessa e traduttrice. Unica figlia del compositore Guido Guerrini, a causa di una congenita malformazione cardiaca, che rese sempre precaria la sua salute, crebbe isolata dai coetanei e non poté seguire regolari studi scolastici. Nel 1925 la famiglia Guerrini si trasferì prima a Parma poi a Firenze dove il padre fu chiamato a dirigere il conservatorio Cherubini. Cristina studiò da autodidatta sotto la guida del padre e di alcuni insegnanti privati. Apprese le lingue leggendo Cervantes, Proust, Shakespeare e tradusse Katherine Mansfield, Virginia Woolf, Hugo von Hofmannsthal e Simone Weil. L’ambiente culturale fiorentino dove restò fino al 1955, fu determinante nella sua formazione: conobbe il traduttore Leone Traverso, al quale, per qualche tempo, fu legata anche sentimentalmente. Continua a leggere →
Nel 1923, il 19 aprile di cento anni fa, a Tricarico in provincia di Matera nasceva Rocco Scotellaro. Poeta, politico e scrittore italiano. Appena trent’anni dopo Rocco sarebbe morto per un infarto, ma certo la sua non può dirsi una vita sprecata. Nato da una famiglia di umili origini, il padre calzolaio, la madre sarta, fu indirizzato dalla famiglia agli studi, essendo versato in letteratura, s’iscrisse al Liceo Classico presso i Padri Cappuccini e per permettergli di proseguire gli studi tutta la famiglia si trasferì a Sicignano degli Aburni, in Campania. Trento, Tivoli, Potenza, Napoli, Bari, Cava dei Tirreni sono città dove ha lo hanno portato i suoi viaggi per l’Italia per studio e lavoro. Al termine del Liceo intraprese gli studi di Giurisprudenza alla Facoltà la Sapienza di Roma, ma in lui si accese la passione politica e, senza giungere a laurearsi, decise di impegnarsi attivamente, iscrivendosi al Comitato di liberazione nazionale prima e successivamente al PSI. La morte del padre lo induce a ritornare a Tricarico, in Basilicata, o per meglio dire in Lucania, come la Regione si è chiamata fino al 1947. Rocco aveva intuito l’esigenza che per risollevare le situazione l’Italia postbellica si doveva operare nelle realtà locali rurali con una visione chiara di progresso democratico e istituzionale. Egli era sensibile alle problematiche della sua gente così provata dalla miseria, dalla guerra e dall’inattività delle istituzioni, con particolare attenzione al mondo contadino, afflitto da sfruttamento, caporalato impietoso, carenze igienico sanitarie e povertà, mali che ben conosceva essendo stato sensibilizzato dal padre e dallo svolgimento di un’intensa attività sindacale e poi perchè sentiva di provenire da quell’ambiente, tant’è che viene spesso definito “il poeta contadino”. Nel 1946, a soli 23 anni, diventa sindaco di Tricarico nel partito del Fronte Popolare Repubblicano, nato dalla fusione di PSI e PCI. Conobbe nello stesso anno Carlo Levi, pittore e antifascita, e Manlio Rossi Doria, politico ed economista. Levi a detta dello stesso Scotellaro fu il suo mentore e promotore. In una breve ma dinamica gestione da sindato, Rocco Scotellaro dotò Tricarico di una scuola aperta a tutti – perché i cittadini non dovessero spostarsi per studiare, come lui era stato costretto a fare – istituì le consulte locali per dare voce democratica al volere dei braccianti agricoli, s’impegnò a tutelare il loro diritto a coltivare la propria terra e impedire lo sfruttamento del loro lavoro da parte dei grandi proprietari terrieri. Si mosse anche sul fronte dell’occupazione delle terre, movimento che portò alla riforma agraria sul latifondo del 1950. Nel 1947 Rocco Scotellaro fece aprire a Tricarico, che ne era sprovvista, l’Ospedale civico. Il suo grande spirito d’iniziativa disturbò evidentemente gli avversari, perchè dal 1948 al 1950, Scotellaro affrontò una traversia giudiziaria. Tutto ebbe inizio con una denuncia anonima e il rapporto di un funzionario di polizia giudiziaria, a seguito dei quali fu accusato di truffa, concussione e associazione a delinquere. L’accusa sembrava a Rocco talmente inverosimile che l’affrontò con una certa leggerezza. Per 45 giorni subì anche la reclusione nel carcere di Matera. Il procedimento si concluse in appello con assoluzione per non aver commesso il fatto, quindi con formula di piena, ma la vita di Rocco ne fu segnata. Abbandonò la politica nello scoramento che prende i sognatori delusi, senza mai cessare la sua dedizione alla Lucania, s’impegnò maggiormente sul fronte letterario. Appena uscito dal carcere si recò a Venezia, dove conobbe Amelia Rosselli, con la quale intrattenne un intenso rapporto di amicizia durato fino alla morte di lui, avvenuto appena tre anni anni dopo. Amelia Rosselli alla sua morte gli dedicò un’accorata “Cantilena, raccolta di poesie per Rocco Scoltellaro”. Una di queste.
Rocco vestito di perla
come il grigiore dei colli vicino al tuo paese
mostrami la via che conduce
non so dove
(Amelia Rosselli)
Rocco fu anche poeta e scrittore. Cominciò a scrivere appena adolescente, del 1940 la sua prima poesia, tra il 1948 e il 1953 pubblicò poesie e racconti sulla rivista “Botteghe oscure”. Scrisse il romanzo “L’uva puttanella”, in gran parte autobiografico, rimasto incompiuto, un’ opera teatrale e svolse un’inchiesta sui “Contadini del Sud”, per incarico di Einaudi, anch’essa rimasta incompiuta per la morte sopraggiunta.
Per sintetizzare lo spirito dei suoi ideali, della sua azione politica e sociologica bastano le sue centrate parole stralciate dalla lettera di presentazione diretta a Luciano Erba con la richiesta di pubblicare sue poesie su “Quarta generazione”. Le poesie furono pubblicate nel 1954 postume, come del resto gran parte della sua produzione.
“Politicamente ho fiducia che cessi la indegna e mortifera divisione del mondo perché l’umanità posa curarsi dei suoi mali: la povertà economica e il decadimento culturale“. (Rocco Scotellaro)
Le sue opere
“È fatto giorno” Mondadori “Contadini del Sud”, Laterza “L’uva puttanella” Laterza “Uno si distrae al bivio” Basilicata “Margherite e rosolacci” Mondadori “Giovani soli” Basilicata “Lettere a Tommaso Pedio” Osanna “Scuole di Basilicata” RCE “Tutte le poesie (1940-1953)” Mondadori “Il prezzo della libertà. Lettere da Portici” Edizioni Giannatelli “Poesie” RCE “Tutte le opere” Mondadori
Di seguito una selezione di poesie di Rocco Scotellaro. Illustrazioni di Loredana Semantica, (tecnica digitale, pennino su schermo).
In autunno (1940)
Trasvolano le rondini i mari e i deserti, a una dimora certa lontana tendono, all’orizzonte forse, dove sempre il sole cade in sera.
Lucania (1940)
M’accompagna lo zirlio dei grilli e il suono del campano al collo d’un inquieta capretta. Il vento mi fascia di sottilissimi nastri d’argento e là, nell’ombra delle nubi sperduto, giace in frantumi un paesetto lucano
Traguardo (1941)
Sconfinati deserti io mi figuro. Cammino e cammino ansante sfinito. Desolato la voce sola mi resta. Una sillaba sola l’eco non ripete del mio grido. Avanzo m’abbatto mi levo. In un baleno improvviso un traguardo ravviso. E un tuono rimbomba al mio grido.
(1948)
È già notte qui nei valloni è già notte per le campagne marine. Dai paesi corrono piccole nuvole di fumo verso il cielo. Continua la vita nel gelo. L’anima è questo respiro che ci riempie e ci vuota. E occorre guardarsi indietro a vedere il giorno dove corre. Corre di fronte alle luci accese dei pali dove il Vulture adesso si vede sullo specchio rosso di ponente… Perché l’ombra è già morta sui pini.
Al sopportico delle Api il primo amore (1948)
Al sopportico delle Api affisse ai muri le nostre iniziali col colore della paglia bruciata. L’amore nostro crebbe qui nella stalla vicina. E io vederti sorgere tenera ombra, misuravo le parole tue calde cercandoti le labbra con le dita. Ombre di noi che siamo in fuga si allungano, scompaiono quando la lucerna del mulattiere mette fremito alle bestie per la biada.
La mia bella Patria (1949)
Io sono un filo d’erba un filo d’erba che trema. E la mia Patria è dove l’erba trema. Un alito può trapiantare il mio seme lontano.
Campagna (1949)
Passeggiano i cieli sulla terra e le nostre curve ombre una nube lontano ci trascina. Allora la morte è vicina il vento tuona giù per le vallate il pastore sente le annate precipitare nel tramonto e il belato rotondo nelle frasche.
La poesia “Io” è di Fernanda Romagnoli. Video e voce di Loredana Semantica
La poesia “Tu” è di Fernanda Romagnoli. Video e voce di Loredana Semantica
La poesia “Ci sono anime liete” è di Fernanda Romagnoli. Video e voce di Loredana Semantica
Quando ai più che non s’interessano di poesia si nomina Fernanda Romagnoli -dicevamo qui – non è sorprendente che non la conoscano, ma è singolare che spesso nemmeno i poeti, chi scrive o legge poesia, l’abbia mai sentita nominare. Eppure Fernanda rappresenta un fulgido esempio di fare poetico, rimasto misconosciuto. La sua poesia è densa di assoluto, vibrante, tersa, metafisica e nel contempo sospesa in osservazione attenta della realtà, degli oggetti, persino degli animali a carpire loro il senso stesso dell’esistenza, quello della relazione con le umane cose, in parallelismi insoliti, spiazzanti, intelligenti, periodi complessi e magistralmente articolati, con una scorrevolezza e padronanza lessicale rara. Fernanda Romagnoli manifesta con la scrittura un anelito potente, che ingabbiato negli spazi angusti del vissuto, attraverso la poesia evade verso sfere celesti, trafigge la materialità delle cose, se ne impadronisce, le plasma, le ribalta, le aggancia al vivere e al morire, rimarcandone la caducità oppure all’opposto le proietta nell’eterno, le trasfigura. Insistenti i temi della morte, dell’eterno e dell’anima, non meno di quello dell’identità, del dolore, dell’estraniamento e della solitudine, di questi ultimi è paradigma la poesia “Il tredicesimo invitato”, che dà il titolo all’intera raccolta dov’è inserita. Linguisticamente questa poesia vola, non può altrimenti definirsi la grazia con la quale la Romagnoli compone l’architettura dei versi, la compiutezza del significato, la proprietà di linguaggio si sposano con la leggerezza di un’espressione poetica perfettamente modulata nel suono. Non dimentichiamo che la poetessa proviene da una formazione musicale giovanile che influenza certamente il suo scrivere alla ricerca del suono che promana pensiero e sentire in simbiosi, che appare tanto naturale, quanto – probabilmente – accuratamente ricercata, mantenendo una freschezza fuori dal comune. Fernanda conduce la propria poesia con la stessa vibrante tensione che anima i versi dickinsoniani, col pathos che vediamo brillare in quelli della Plath. Figure femminili nelle quali la costrizione spirituale (potremmo forse dire “di genere”?) spreme distillati poetici soavi o intensi, ma ad ogni modo esemplari. Ammirevole la maestria con la quale la poetessa dalla superfice scende alle profondità e risale a vertiginose altezze, cercando il divino. L’effetto nel lettore è di provocare una vertigine, lo induce a sporgersi verso il vuoto a cercare l’assoluto con la stessa brama con cui lo legge nei versi.
La biografia di Fernanda è essenziale, riporta le notizie “agli atti”, e dice poco del carattere, aspirazioni, desideri, esperienze dell’autrice, paradossalmente è soprattutto nella poesia che la ritroviamo. Possiamo ben immaginare lo scorrere della sua vita tra una giovinezza irrequieta, l’attraversamento certo incisivo della querra, un amore impossibile, l’incontro con Vittorio Raganella, l’innamoramento, il matrimonio impegni casalinghi, e, per qualche tempo, lavorativi. Il suo spazio vitale, come si conviene all’essere donna, sposa, madre. Ambito che per alcune è di piena realizzazione, per altre è recinto, senza peraltro che possano focalizzare alternative, essendo la situazione, la convenzione, le aspettative sociali a comportare un senso di delimitazione. Peraltro non era ostacolata dalla famiglia nella sua passione letteraria. D’altro canto il disagio esistenziale può essere un habitus innato, simile a una croce da portare, rispetto al quale la poesia è una forma di sopravvivenza. Fumava sigarette Fernanda, lo dice lei stessa, e beveva caffè al bar, sfaccendava, scriveva, faceva visita ai parenti o agli amici, avrà fatto qualche viaggio e qualche gita, curato la sua unica figlia. Tra pappette per neonati e cambio panni l’avrà cresciuta, una volta cresciuta, avrà tribolato per lei infinite volte. Una normalissima vita che non impedisce alla poetessa di essere tale. Trasfigurare in versi l’agonia di un bruco è un attimo poetico fissato per i posteri di potenza immaginifica brillante.
Bruco
Tagliato in due col suo frutto il bruco si torce, precipita nel piatto, ove un attimo orrendo sopravvive al suo lutto. Coperto di bucce, sepolto fra le dolcezze e gli aromi che amava in vita, gli accendo sulla catasta l’incenso della mia sigaretta. Morte pulita – ed in fretta. Ma che ne so della via che il bruco ha percorso in quell’unico istante di agonia.
La stessa “gallina rossa” dell’omonima poesia inchioda danzando verbalmente un’essenza chiocciante o appariscente che riverbera in parole e specchi la propria e altrui natura.
Rossa gallina
Rossa gallina, in te odio – più del tuo chiocciolio di spavento, dell’occhietto puntuto, dello sconcio berretto – in te odio il mezzo metro di vento che spenni nel fracasso di uno slancio già rantolo e frattura allo spiccarsi. In te odio la mia storpia fiammata, il mio abortito amplesso con lo spazio, l’implacata natura che m’aizza a un volo compromesso.
E poi c’è la poesia “Tirando le somme”, dichiaratamente autobiografica, che riepiloga a volo d’uccello l’intera vita in pochi “fotogrammi” fondamentali, nella quale è menzionata la virtù femminile più accreditata della storia, frutto di sviluppo secolare, tramandata di madre in figlia, di suocera a nuora, nei bisbigli di consiglieri parentali o amicali, una specie di collante familiare del quale sono portatrici principali le donne: la pazienza. Un’osservatrice Fernanda, malinconica e composta, probabilmente, per come le imponeva il ruolo di moglie di un militare, ma nemmeno risentita contro la sorte o gli incontri, gli insuccessi , anche perché oggettivamente nulla le sarà mancato, a parte la salute non proprio brillante. E’ nella natura sua propria, nel temperamento incline all’introiezione, che scatta la scintilla espressiva, con risultati che, probabilmente, si dovrebbero inquadrare con spirito oggettivo nel filone intimista, confessionale, pervaso di lirismo, mi sembra tuttavia che nessuna di queste definizioni calzi perfettamente, nel senso di essere riduttive, rischiano, come del resto tutte le classificazioni, di sminuire una voce, già di per sé, ingiustamente poco valorizzata.
Forse la Romagnoli ha la colpa per alcuni di non essere “sperimentale”, di muoversi nel solco della tradizione novecentesca e precedente, di indulgere all’autobiografismo più che all’intrigante all’ermetismo, ma gli “ismi” sono espressioni classificatorie che – in quanto demarcano – hanno a loro volta il limite di essere inadeguate – perché nulla possono riferire sulla bellezza espressiva, le ardite associazioni verbali, i lemmi insoliti, evocativi, ricercati, gli origami verbali, le simmetrie, la costruzione sapiente del ritmo e del suono, la musicalità, che caratterizzano la scrittura di questa poetessa. E’ un dato di fatto che la scrittura femminile trascorsa più riuscita viaggi sulle ali dell’introspezione alla ricerca di un altro-assoluto-divino dentro e fuori di sé che verticalizza, ben più in alto di quanto vediamo riesca quella maschile, come se la voce si assottigliasse in acuti da soprano e penetrasse le nubi, più centrata e fine del corrispettivo maschile. Si potrebbe dire, se fosse un fascio di luce, per proseguire in similitudine, che sia un laser che buca il cielo. Non mi sembra peculiarità da trascurare, al contrario è da esaltare, è da indagare, se possibile, in parallelismo ad altri aspetti, chiedersi quanto questa sorta di “conventualità” femminile si traduca in parossismo di intuizione mistica, quanto sostanzi una produzione poetica intrisa di raccoglimento e canto, come un pulsare di inspirazione ed espirazione che diversamente, vivendo, cioè una vita sociale più ricca, variegata, pubblica ed “esposta” sarebbe forse impossibile da raggiungere. Mi tornano in mente le castrazioni “tecniche” del canto lirico. Una vita di riserbo è cosa meno cruenta sul piano fisico, ma parimenti incisiva psicologicamente, che ha come suo forse-prodotto: la meraviglia in poesia?
Nessun assioma beninteso in queste considerazioni, né rapporto di causalità effetto, nel senso che è abbastanza intuitivo che chiudersi in una prigione non aiuterebbe l’estro dell’aspirante poeta carente o privo d’altro “bagaglio”, né si vogliono esporre suggerimenti da seguire per le nuove generazione emergenti (o magari sì, in verità, suggerire ad esempio che la ricerca parossistica di visibilità non favorisce il risultato), e men che meno vuol essere un sindacato sulla vita scelta da questa poetessa – perché sempre di scelta alla fin fine si tratta – solo interrogativi sull’origine del flusso poetico, i percorsi e risultati raggiunti.
Un appunto finale circa l’esclusione o l’autoesclusione dai circoli e circuiti letterari. Mi chiedo quanto penalizzi il poeta l’essere un isolato, quanto pesi sull’emarginazione che sceglie e infine subisce e se l’esclusione non sia una sorta di pena comminata postuma, non meno che scelta in vita, mancando i gruppi di “amici” che possano conservarne e diffonderne la voce poetica e suoi pregi, carenti i contatti utili a “elevarsi” nelle “gerarchie”, il poeta resta nel limbo, pur avendo prodotto testi il cui pregio surclassa altre e più esaltate produzioni. Avviene quindi che ogni tanto si leva qualche voce isolata mai sufficiente a ricollocarlo nel suo rango, di qualche appassionato estimatore o un familiare.
Molti leggono, tra la chiamata per vocazione, inclinazione e strumento, la Romagnoli andrebbe, ritengo, utilmente indicata come lettura, tenuta da conto per ciò che è, un tassello della scrittura poetica italiana e, come tale, anche nel poco che ha scritto – forse l’unica sua pecca – suggerita come lettura da conoscere. Piolo di una scala su cui salire per progredire in poesia.
La poesia “Oggetti” è di Fernanda Romagnoli. Video e voce di Loredana Semantica
La poesia “Tirando le somme” è di Fernanda Romagnoli. Video e voce di Loredana Semantica
La poesia “Niente” è di Fernanda Romagnoli. Video e voce di Loredana Semantica
Quando ai più che non s’interessano di poesia si nomina Fernanda Romagnoli non è sorprendente che non la conoscano, ma è singolare che spesso nemmeno i poeti, chi scrive o legge poesia, l’abbia mai sentita nominare. Poche note biografiche.
Fernanda Romagnoli, nata a Roma nel 1916, ha compiuto studi musicali, diplomandosi in pianoforte dal Conservatorio di S. Cecilia a diciotto anni, da privatista, a venti anni consegue il diploma magistrale. Nel 1943, in tempo di guerra, pubblica la sua prima raccolta di poesie: Capriccio, con prefazione di Giuseppe Lipparini.
L’anno successivo si rifugia a Erba con la famiglia per poi ritornare a Roma nel 1946. Sposa l’ufficiale di cavalleria Vittorio Raganella, il matrimonio col militare la porterà dal 1948 a vivere in diverse città: Firenze, Roma, Pinerolo, e infine Caserta, dove resterà dal 1961 al 1965. Durante questo periodo lavora come maestra e, nel 1965 pubblica la sua seconda silloge: Berretto rosso.
Nonostante la qualità dei suoi scritti e la pubblicazione delle due raccolte di poesia Fernanda Romagnoli soffrì l’isolamento letterario stemperato dall’amicizia di Carlo Betocchi e Nicola Lisi e, infine, di Attilio Bertolucci, grazie al cui interessamento nel 1973, pubblicò la sua terza raccolta: Confiteor.
Ha collaborato con alcune riviste: La Fiera Letteraria, Forum Italicum, e, per la radio, a L’Approdo. Durante la guerra contrasse l’epatite che minò la sua salute tanto da dover essere sottoposta nel 1977 a intervento chirurgico al fegato. L’intervento comunque non la restituì la salute e rimase sofferente, nonostante ciò, anche per consiglio di Attilio Bertolucci e Carlo Betocchi, continuò a scrivere. Nel 1980 pubblica la raccolta considerata il suo capolavoro: Il tredicesimo invitato. Il libro le darà un minimo di notorietà. Gli anni seguenti sono segnati da una sempre maggiore difficoltà a lavorare e da ripetuti ricoveri. Successivamente i problemi di salute continuarono a tormentarla, conducendola anche a ricoveri, nel frattempo qualche poesia veniva pubblicata sul quotidiano Reporter nell’inserto Fine Secolo e sulla rivista Arsenale. Fernanda Romagnoli muore a Roma all’età di settant’anni, presso l’Ospedale Sant’Eugenio, il 9 giugno 1986
Le sue raccolte
Capriccio, Roma, 1943 Berretto rosso, Roma, 1965 Confiteor, Guanda, Parma, 1973 Il tredicesimo invitato, Garzanti, Milano, 1980 Mar Rosso, Il Labirinto, Roma, 1997 Il tredicesimo invitato e altre poesie, Libri Scheiwiller, Milano, 2003
Più di recente, Interno poesia, 2022, “La folle tentazione dell’eterno”.
“Come illudersi nella poesia” di Angelo Maria Ripellino, video e voce di Loredana Semantica
“Il buon tempo antico” di Angelo Maria Ripellino, video e voce di Loredana Semantica
Poesia n. 13 da “Notizie dal diluvio” di Angelo Maria Ripellino, video e voce di Loredana Semantica
Angelo Maria Ripellino,
La scrittura di Ripellino è un fuoco d’artificio, scoppietta letteralmente di vocaboli e ricercatezza, costruzioni verbali e oggetti, snocciola sequenze a raffica di nomi, sfavilla di ricchezza lessicale, ha come “controindicazione” d’essere spesso vertiginosa. Non è per tutti quindi, oppure è da maneggiare con cura. Pericolosa o forse fragile. Potrebbe persino esplodere.
Leggerla è un’esperienza fonica e immaginifica, ma anche un esercizio linguistico, il rischio è infatti d’impaperarsi nei meandri di un qualche scioglilingua, incespicare in sfidanti giochi di parole, scambiare il senso dei termini per la caduta erronea degli accenti e affrontare in ogni caso coraggiosamente spiraleggianti piane e sdrucciole, discese e salite, oscurità e folgorazioni.
Quale esuberanza si cela dentro questi arzigogoli, tra magie di pizzo e filigrane, perché nell’esprimersi l’autore restituisce il fascino dell’iperbole, dell’enfasi, dei parossismi, metonimie, paronomasie e vi danza dentro la danza del ventre al suono delle parole, come un flauto ipnotico per un serpente.
La risposta, la fornisce lo stesso poeta quando, dialogando col patologo Guido Ceronetti, confessa di essere in una “condizione di ansima e di febbrilità” che riversa nella poesia, una “compassione di se stesso” prossima al melò commista alla determinazione indistruttibile “di partecipare di tutti i colori e di tutte le gioie del mondo, di essere gioia egli stesso”. Intendeva perciò trasferire nella sua scrittura questa immensa “fame di vita”, fame di conoscenza, fame di esperienza, sempre provata e mai interamente appagata (dal sito “Le parole e le cose”).
Possiamo dire che Ripellino abbia raggiunto lo scopo che si prefiggeva non solo perché la maggior parte delle immagini che si trovano in rete lo tramandano sempre con un certo sorriso da siculo sornione e “malandrino”, ma, ancora di più con la sua poesia che manifesta un procedere baldanzosamente festante per poi cedere, non senza ammiccamenti talvolta ironici al lettore, al senso tragico della vita in chiuse malinconie pervase dal senso della fine. La sua poetica acquisisce maggiore chiarezza considerando che Ripellino è stato implacabilmente perseguitato fin dalla gioventù dalla cattiva salute dei suoi tormentati polmoni. Fu ricoverato in un sanatorio prossimo a Praga e ne “La fortezza di Alvernia” racconta in poesia quel periodo. Egli ha vissuto profondamente e da presso l’esperienza della Primavera di Praga, raccontandola da giornalista e scrittore. Innamorato della Capitale della Cecoslovacchia – non a caso vi ha trovato l’amore – riflette la sua profonda cultura mitteleuropea anche nei suoi scritti poetici, così come vi albergano le reminiscenze d’infanzia nella sua Palermo, dichiarata vi è l’avversione per le oppressioni comunque praticate, manifesta inoltre l’attenzione per un sentire ultrasensibile di cose, fatti e persone, caratterizzante tipicamente la figura del poeta.
Egli ebbe inoltre una naturale inclinazione verso il teatro, la scena, la teatralità. Provava sicuramente avversione per la noia e la compostezza degli accademici imbalsamati, preferendo indentificarsi in un clown percepiva il mondo come un palcoscenico nel quale rappresentare sempre una nuova commedia, evoluzione istrionica o uscita di scena.
“Sai che significa essere bruciati” di Angelo Maria Ripellino, video e voce di Loredana Semantica
“Le trombe hanno bisogno di mani” di Angelo Maria Ripellino, video e voce di Loredana Semantica
“Un lupo nero addenta la luce” di Angelo Maria Ripellino, video e voce di Loredana Semantica
Angelo Maria Ripellino, nato a Palermo il 4/12/1923, è stato slavista, poeta, giornalista, docente universitario, traduttore, critico, saggista. Già a soli diciannove anni conosceva russo, polacco, olandese e rumeno, manifestando giovanissimo quell’interesse per l’ambiente e la cultura mitteleuropea che diverrà il filo conduttore della sua vita. Studiò all’Università di Roma e frequentò le esclusive lezione di Ettore Lo Gatto, slavista, scegliendo a sua volta questa professione. Già in quel periodo si manifestarono i primi segni della tubercolosi che condussero il poeta dapprima al sanatorio di Dobřiš, vicino Praga e, successivamente a subire un intervento di pneumectomia. Visse a Praga negli anni tra il 1946 e 1947 per specializzarsi in lingua e letteratura ceca. A Praga conobbe e frequentò artisti, poeti, intellettuali tra i quali Vladimir Holan, diventandone amico. Sempre in quegli anni a Praga conobbe la studentessa Ela Hlochová con la quale torna in Italia e che diverrà sua moglie. Angelo Maria Ripellino ha insegnato come docente all’Università di Bologna e a quella di Roma, dove nel 1961 rileva la cattedra di Ettore Lo Gatto. Ha collaborato con numerose riviste specialistiche e con la casa editrice Einaudi, sia come consulente editoriale che, successivamente, curando con passione una rubrica di critica teatrale fino alla sua morte avvenuta a Roma il 21/4/1978. Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesie, diversi libri sono postumi “curati da una cerchia ristretta di studiosi che per anni si sono prodigati nel cercare di diffondere l’ opera di Ripellino” https://blog.maremagnum.com/la-magia-dellanima-angelo-maria-ripellino/
Non un giorno ma adesso, 1960
La fortezza d’Alvernia e altre poesie,1967
Notizie dal diluvio Torino, 1969
Sinfonietta, 1972
Lo splendido violino verde, 1976
Autunnale barocco, 1977
Scontraffatte chimere, 1987
Poesie. Dalle raccolte e dagli inediti, 1990
Poesie prime e ultime, 2006
Notizie dal diluvio. Sinfonietta. Lo splendido violino verde, 2007
Leggono le poesie di Bartolo Cattafi nell’ordine: Maria Grazia Galatà, Deborah Mega, Maria Allo, Loredana Semantica.
IL POETA
Bartolo Cattafi, nato a Barcellona Pozzo di Gotto (Me) il 6 luglio del 1922, morto a Milano il 13 marzo 1979, è poeta italiano. Ricorre quest’anno il centenario dalla sua nascita. Il poeta, stimato da Giovanni Raboni, del quale era amico, era in contatto con la cerchia dei poeti milanesi: Giovanni Giudici, Luciano Erba, Vittorio Sereni. Bartolo Cattafi, laureato in giurisprudenza, ha lavorato come pubblicista, è autore di svariate raccolte di poesia – i titoli nell’elenco sottostante – pubblicate principalmente da Mondadori e Scheiwiller, Il poeta “ha patito l’esclusione dalle più autorevoli antologie della poesia italiana del Novecento (Sanguineti e Mengaldo); è finito in una dimenticanza pressoché generale. Sino a che, da qualche anno l’attenzione che merita sembra finalmente rinascere, il suo nome spuntare più di frequente nelle pagine di pubblicazioni di vario genere o sulla bocca dei lettori.” Dal sito “Le parole e le cose”